Covid e Università non fanno rima

Uno studente qualunque

In questi mesi di pandemia di un settore in particolare non si è sentito parlare. Mentre Azzolina si commuoveva parlando e difendendo la scuola dell’obbligo, l’università è scomparsa dal dibattito politico. Ma non è scomparsa solo dalle pagine dei giornali o dalle parole dei politici, è svanita anche sotto i piedi di chi l’università la frequenta, in particolare degli studenti. Certo, noi non abbiamo fatto molto per farci sentire, in parte probabilmente per pigrizia, in parte perché rassegnati. Ma forse è il caso di raccontare un po’ l’esperienza di chi l’università in questi mesi folli l’ha frequentata, per recuperare un po’ di attenzione attorno ai problemi che una larga fetta di popolazione ha vissuto e continua a vivere.

La Didattica a distanza

Si è molto mitizzata la didattica a distanza. Manfredi si è espresso positivamente sulla reazione da parte delle università italiane e la capacità di mettere in piedi un’alternativa alle lezioni in presenza. Ma quanto ha davvero funzionato? In sintesi quello che è successo è stato questo: alle due generazioni che precedono noi studenti è stato chiesto di imparare autonomamente a gestire programmi di audiovideoregistrazione e auto-organizzare i propri corsi. E il risultato è stato che io da Marzo 2020 a Giugno 2020 ho seguito corsi completamente differenti. C’è chi ha caricato subito una manciata di video registrati pari al numero di ore di lezione del corso, dicendo agli studenti di distribuirle lungo l’arco del semestre per poi aspettarli al varco della sessione, c’è chi caricava video registrati il giorno corrispondente a quello della lezione programmata da orario, c’è chi invece ha caricato dei fogli Word che riassumevano ciò che avrebbe dovuto svolgere a lezione. C’è anche chi ha provato le lezioni sincrone, colpito dai soliti problemi di connessione, condivisione schermo, gap tecnologico. In sostanza ogni corso faceva per sé e imponeva allo studente di sapersi organizzare da solo. Nulla da ridire contro i docenti, ci hanno provato, con le loro difficoltà e capacità, a reinventarsi tecnici-informatici; però forse li avrebbero potuti formare all’utilizzo delle varie piattaforme, dargli delle linee guida conformi, in maniera tale da selezionare una fra le mille possibilità date dagli strumenti informatici per gestire tutti i corsi. Questa lamentela non vale tanto per marzo – è stata una situazione inaspettata, emergenziale, si è fatto ciò che si è potuto nel minor tempo possibile – ma a settembre sapevamo ciò che ci aspettava. Di una seconda ondata se ne era già parlato a lungo, eppure durante l’estate tutto è andato avanti come se nulla fosse, in attesa di un miracolo o forse, come suggerisce Zerocalcare, di un’estinzione di massa.

Chi frequenta le lezioni

Nel mio piccolo ateneo c’è una nicchia di fortunati che frequenta le lezioni: le matricole, triennali e magistrali e chi aveva da dare esami di laboratorio, che presuppongono appunto una formazione in laboratorio. Gli altri? A casa. Essere un “veterano” dell’università ha significato una sola cosa: l’abbandono. Capisco le necessità da parte di un ateneo di tutelarsi rispetto alle nuove iscrizioni, ma noi non siamo idioti, queste cose le capiamo e ci fanno “incazzare”. In breve quello che credo sia successo è questo: se chiediamo alle matricole di NON frequentare l’università rischiamo che non si iscrivano o, a parità della condizione di dover fare lezioni a distanza, preferiscano un ateneo più grande e lontano, non dovendosi preoccupare – almeno per il primo anno – del trasferimento. Nuovi studenti alzano la posizione dell’ateneo in graduatoria, portano nuovi fondi e nuovi affitti nelle città universitarie. Gli altri? Gli altri sono già iscritti, pagano già le tasse, hanno già contratti di affitto annuali. Magari se lasciamo le biblioteche aperte qualcuno di loro deciderà anche di rimanere. Così per noi l’università è diventato un forte inespugnabile: QR Code, studenti alle reception a fare la guardia, non è possibile neanche fare ricevimento all’interno, bisogna andare a passeggio. E la domanda che torna è: possibile che tra giugno e settembre non si è riusciti a costituire un piano per la gestione delle aule che garantisse la frequenza delle lezioni a tutti? Magari con turni a rotazione? Voglio dire, nel mio corso di studi siamo venti studenti, trenta al massimo, non credo che tenerci a distanza e monitorarci sia un’impresa così ardua.

Le biblioteche

Sulle biblioteche solo poche parole: non ci si riesce a entrare. Fine. Se avete necessità di consultare un libro nella nostra biblioteca universitaria (unica per tutti i dipartimenti della città) dovrete alzarvi alle 6 e 30 di mattina, sfidare i vostri colleghi, fare la coda e sperare che i pochi posti non si esauriscano. Ma anche questa non è una novità. In Italia i luoghi di cultura ormai si contraggono da anni, nonostante tutti gli assessori alla cultura e le conferenze e le giornate e le iniziative pseudoculturali. Nella mia città natale, la biblioteca ha chiuso per non riaprire. La settimana prima del terrificante Natale 2020 ero a casa per la prima volta dopo mesi, dovevo studiare per la sessione: siamo zona gialla, ho bisogno di alcuni manuali, posso andare in biblioteca. No. La biblioteca è chiusa. Qui, a Trento, siamo stati fortunati: la biblioteca universitaria (non so bene con quali trucchi magici) è riuscita a riaprire. Ma l’estate scorsa, mentre si decideva di chiudere le discoteche stranamente, quasi per magia, solo dopo il 15 di agosto, le biblioteche erano ancora chiuse e badate bene gli studenti d’estate hanno gli esami.  

Internazionalizzazione

Fra i parametri di valutazione che fanno di un ateneo un grande ateneo c’è l’internazionalizzazione. Più studenti fanno Erasmus, Ersamus+, Doppia laurea, Erasmus mundus e Sticazzus Stranierus, più il valore di questo parametro cresce. Effetto: le università fanno di tutto per mandarci in Erasmus. Ora, in condizioni normali tutto questo può avere un senso, non ne ha quando a una persona che vuole studiare Dante gli si chiede di fare un Erasmus in Estonia. La vedo dura che ne cavi fuori qualcosa di valido per sé, se non quante birre può bere prima di mettersi al volante – sono sei nel mio caso. Effetto Covid: le università di partenza vogliono comunque mandarci in Erasmus o simili, devono comunque essere internazionali nonostante sia il giorno del giudizio, le università di arrivo vogliono gli studenti Erasmus, sono sempre tasse e fondi in più. Poi non gliene cale se l’esperienza per il malcapitato si tramuterà in un mese di lezioni in presenza, lockdown per aumento dei casi, lezioni a distanza chiuso nella sua stanzetta a Utrecht, ritorno a casa prima del tempo, spesso finendo col pagare l’affitto per quello che doveva essere l’intero periodo di permanenza all’estero. Sono esperienze vere, raccontatemi da chi le ha patite tra settembre e gennaio dello scorso anno. Quindi chi aveva le possibilità economiche si è arrischiato, è partito comunque e quasi sempre è rimasto fregato. Chi invece non poteva permettersi di pagare un affitto a vuoto, corre il rischio di dover saltare il bando per le prossime borse internazionali (non puoi rifiutare la borsa e la meta estera, una volta vinte, senza penale). Ma nonostante tutto ciò, comunque si continua a premere perché gli studenti partano. 

Comunità e comunicazione

Negli anni di università ho avuto modo di conoscere alcuni docenti, sia per vie istituzionali sia per motivi più informali. Qualche giorno fa ho avuto modo di incontrare qualcuno e tra una chiacchiera e l’altra mi ha confidato: io inizio lezione tra una settimana, saranno in presenza e trasmesse online in modalità sincrona, ma non ho idea se gli studenti lo sappiano, e quanti siano. Già, perché evidentemente non siamo solo noi studenti quelli isolati e abbandonati. I docenti non hanno infatti modo di sapere chi siano gli iscritti al loro corso – anche se si tratta di un corso obbligatorio – né di comunicare con loro. La loro unica speranza è che gli studenti, ricevuta l’illuminazione che l’inizio delle lezioni si avvicina, come Saulo a cavallo, si siano iscritti per tempo sulla piattaforma online del corso e possano ricevere gli avvisi tramite il forum collegato al corso. Agli studenti invece l’arduo compito di districarsi nei siti di ateneo e dipartimento (se volete divertirvi con dei labirinti collegatevi, vedrete che sfida creano i link per i vicoli ciechi, le pagine gemelle su uno stesso argomento in cui trovare le differenze). La comunità ha semplicemente smesso di esistere. L’unica possibilità sono le varie pagine Spotted.

Conclusioni

Sì, è una lamentazione molto distruttiva e pessimista. Ma questo è il racconto che molti studenti fra i 18 e 25 anni vi faranno di questo ultimo anno. La verità, sia di chi se la nasconde, sia di chi l’ha ben presente con annesse crisi mistiche, è che in questo ultimo anno la sensazione è di aver perso solo tempo. Io della mia magistrale ho frequentato solo sei mesi. Doveva essere il momento di svolta, il momento in cui diventare un vero studioso, invece quello che ho vissuto è stato il totale disinteresse dell’istituzioni. Una gigante, spettacolare, rilucente affermazione di quanto il settore dell’università e della ricerca siano in questo Paese all’ultimo posto. Il covid ha però solo evidenziato tante difficoltà infrastrutturali già esistenti: dalla sanità pubblica distrutta dalla riforma Formigoni all’università. Sull’Huffington Post si parla negativamente di aziendalizzazione dell’università. Per chi la realtà universitaria la vive, la posizione è molto diversa: siamo cinicamente rassegnati a questa realtà. Andate a leggervi il patto di governo fatto pochi anni orsono dal governo giallo-verde, leggete le parole dedicate all’università, com’è percepita dal governo, quali le ambizioni. E’ inutile citare anacronisticamente il modello universitario medievale, le universitates rerum, le accademie greche e latine, significa solo non tener conto delle necessità del secolo, essere reazionari e ciechi. Nonostante tutto, delle soluzioni per arginare queste difficoltà c’erano e continuano ad esserci. Siamo un’azienda e va bene, ma almeno finanziatela, concedetele le strutture. Coinvolgete gli studenti nella gestione e non con i decreti delegati. Ascoltateli, teneteli presenti, non raccontatevi da soli che va tutto a meraviglia. Oppure, almeno, diteci la verità: non ve ne frega niente. Mi chiedo quanti padri e quante madri abbiano visto il loro studente diventare apatico, alternare la disperazione agli aperitivi. Anche perché in questa nuova università, con il suo modello di gestione aziendale e con ambizioni culturali e livello degli studenti ormai pari a quelli di un buon liceo del secolo scorso, la domanda la rappresentiamo noi, gli studenti. Molti docenti avranno pensato di star parlando da soli nel registrare le lezioni o svolgendole su Zoom, Skype, Google meet, di fronte alle telecamere e ai microfoni spenti degli studenti. Non hanno tutti i torti. Tanti, troppi hanno effettivamente parlato a vuoto in questi mesi.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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