Su Pio e Amedeo, Fedez e le battaglie per la libertà di espressione
Negli ultimi giorni alcuni eventi televisivi hanno fatto esplodere sui social e sui giornali una polemica che ha riportato a galla il dibattito su alcune tematiche molto divisive come la comunicazione, la libertà di espressione, il linguaggio rispettoso delle differenze e ciò che alcuni definiscono in modo dispregiativo il “politicamente corretto”. La bufera è stata tale che abbiamo avuto bisogno di qualche giorno per riflettere e mettere insieme le idee. Queste sono alcune delle nostre considerazioni.
Sara:
Come si valuta un bravo comico? Mi sono ritrovata a pensare a una risposta per questa domanda e quella più semplice che ho trovato è stata: un bravo comico deve far ridere, naturalmente. Ma vale lo stesso se si scherza su qualcuno e alla fine ridono tutti, tranne il qualcuno in questione?
Lo show di Pio e Amedeo è stato nelle ultime ore protagonista di una polemica che ha avuto molta risonanza. Durante uno dei loro siparietti, i due comici se la sono presa con il “politically correct” e hanno polemizzato sull’impossibilità di utilizzare determinate parole per definire categorie di persone e minoranze: N-word, ricc*ione, f***o, passando per le donne e le persone disabili, il Gay pride che non servirebbe più a nulla nel 2021 (in effetti le notizie di continue aggressioni ci disegnano un quadro decisamente roseo per la comunità LGBT+), per concludere con la comunità ebraica, tirando fuori il vecchio stereotipo dell’ebreo avaro (che, seriamente, ha mai fatto ridere davvero qualcuno dai tempi del Terzo Reich?).
Non ci aspettavamo nulla di diverso dai due comici in questione. Ancora prima che la puntata andasse in onda infatti, questi avevano anticipato: «Domani sera elencheremo tutte le parole che non si possono più dire in tv, quelle bandite (…). Perché la cattiveria non è mai nella lingua, ma nelle intenzioni». E così hanno fatto, peccato però che moltissime persone si sono offese eccome. Che strano, evidentemente non basta dire a una persona oppressa e discriminata che non la si vuole insultare, se poi la si insulta. A coronare il tutto, un consiglio finale, “per tutti i ricc*ioni”: se vi insultano, voi ridetegli in faccia!”, esortazione che espone in tutta chiarezza quanto Pio e Amedeo siano completamente ignari di cosa voglia dire subire aggressioni verbali quando si è in giro a farsi i fatti propri, del terrore che ne deriva, di quante volte le aggressioni verbali si tramutino velocemente in violenza fisica. Ma tant’è, prima ci si prende la libertà di appellare le persone omosessuali con parole ritenute da loro offensive, poi si impone loro pure come reagire.
Non è la prima volta che si solleva la polemica sul “politically correct” in Italia: non molto tempo fa, infatti, sempre su un canale Mediaset, un altro programma è stato bersaglio di tantissime critiche per aver inscenato una gag che prendeva in giro la comunità cinese. Anche in quel caso, la reazione dei più alle polemiche è stata un generale fastidio per il politicamente corretto, per cui non si potrebbe più scherzare su nulla. La scelta del monologo di Pio e Amedeo, quindi, va considerata per quello che è: una presa di posizione, anche piuttosto netta, all’interno di un dibattito aperto, a livello culturale, che concerne soprattutto la lingua. È infatti sempre più all’ordine del giorno la riflessione sulle parole che si possono usare e quelle che invece urtano o possono urtare la sensibilità di determinate persone o comunità. Si tratta di comunità che, avendo sperimentato la discriminazione per secoli, vogliono e finalmente possono riappropriarsi della loro narrazione, innanzitutto chiedendo una maggiore cautela lessicale. Non si tratta quindi di un capriccio, ma di istanze che derivano da milioni di persone che hanno bisogno di un ambiente culturale che sia pronto ad accettarle, ad accoglierle. Episodi come quelli appena citati, invece, sommati l’uno all’altro, contribuiscono a rendere l’ambiente culturale e sociale sempre più ostile a questo tipo di cambiamento, ed esacerbano una discriminazione che è già inaccettabile e pericolosa.
È curioso come molte persone, di cui Pio e Amedeo si sono fatti portavoce, considerino queste riflessioni un bavaglio, un limite alla loro libertà di espressione. I due comici difendono la loro presa di posizione affermando che “la cattiveria non è nella lingua, ma nelle intenzioni” (che ricorda un pochino le “scuse” di Michelle Hunziker di qualche settimana fa, secondo cui se si offende senza volerlo, allora non è un’offesa). Il problema, però, è che nelle buone intenzioni di cui tanto si riempiono la bocca Pio e Amedeo si cela in realtà qualcosa di peggiore dell’offesa stessa: la presunzione di poter stabilire cosa sia offensivo e cosa no per tutta una serie di categorie e di persone di cui non si condivide la condizione, con cui chiaramente non si riesce a empatizzare. Una presunzione che viene esibita senza nessuna vergogna, anzi, con aggressività, in barba a quella che dovrebbe essere una “dittatura” del politically correct, ma che di fatto non impedisce loro di offendere su un canale nazionale milioni di persone senza subire conseguenza alcuna.
Come spiegare a Pio e Amedeo e a tutte le persone di cui si sono fatti portavoce che non sta a loro decidere cosa è offensivo per la comunità LGBT+, per la comunità nera, per la comunità ebraica, per le donne, persino per le persone con disabilità?
Forse, ripensando alla domanda che mi sono posta all’inizio di questo articolo, una risposta adeguata sarebbe: un buon comico non ha bisogno di prendere di mira le minoranze per far ridere. Un buon comico ride CON le minoranze, ride delle persone che discriminano, e non di quelle discriminate. E questo va ben oltre l’esortazione paternalistica a “rispondere col sorriso alle offese”. Pio e Amedeo si sono lamentati del fatto che si starebbe cercando di “inculcare alle persone che la lingua è più importante della mente”, ma il punto è un altro: la lingua è il mezzo tramite cui comunichiamo, è ciò che plasma la realtà per come la conosciamo, ed è in grado di ferire, quanto di creare un clima di inclusione. Le parole sono importanti, e ce ne sono così tante a disposizione che, se tu ti ostini ad usare tutte quelle che hanno finora ferito e continuano a ferire la sensibilità di molti, perché altrimenti non sai come far ridere, hai un problema: un problema che non puoi risolvere prendendotela con chi si rifiuta di stare al gioco.
Gresa:
Cosa ha detto Fedez? Fedez non ha detto niente. Niente di più di quello che dicono ogni giorno centinaia di attiviste e attivisti sui canali di comunicazione: l’attivismo, come anche la sensibilizzazione verso certi temi, é ormai all’ordine del giorno.
L’intervento del rapper al concerto del Primo Maggio su Rai 3 si incentrava sul Ddl Zan, legge contro la violenza e le discriminazioni basate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità, proposta di legge approvata alla Camera, ma ancora ferma al Senato. Negli ultimi tempi Fedez si è speso molto sul tema, ribadendo quanto sia importante che questa legge venga approvata, registrando inoltre una diretta Instagram in merito con Alessandro Zan, fautore della legge, per una maggiore sensibilizzazione. Nel suo discorso ha attaccato il Presidente della Commissione di Giustizia, Andrea Ostellari, esponente della Lega, per aver più volte rimandato la calendarizzazione della legge, e si è scagliato contro vari esponenti del suo partito per delle loro dichiarazioni, tra cui “Se avessi un figlio gay lo metterei nel forno”.
Perché allora il discorso di Fedez ha fatto tanto scalpore? Ci sono due fattori da prendere in considerazione: la testa calda di Fedez e il canale di comunicazione tramite cui si è espresso. Partiamo da quest’ultimo.
I canali di comunicazione sono tanti, tutti con un preciso target e con regole proprie. Ciò che siamo abituati a sentire in un canale non è sempre accettato nell’altro. Ecco perché la vicenda di Fedez ha fatto tanto scalpore: lui ha usato un canale diverso da quello che solitamente si usa per fare discorsi come il suo. Si è servito della televisione, spesso snobbata da noi giovani, per un motivo semplice: non ci rappresenta. Siamo abituati a siparietti alla Pio e Amedeo, ma non a un discorso come quello fatto da Fedez. Per questo motivo ci sono stati i proverbiali “90 minuti di applausi”.
Tutto questo però è passato in secondo piano, sempre a causa di Fedez. Poco prima di salire sul palco ha dichiarato che i dirigenti Rai hanno sottoposto il suo discorso a vaglio politico, chiedendogli di censurarlo. La controparte ribatte che niente di tutto questo è vero. Per difendersi, Fedez ha pubblicato la telefonata. Si sentono i dirigenti Rai fare affermazioni del tipo “Noi siamo in difficoltà”, “Adeguarsi a un sistema” e così via. Tutti ci siamo sconcertati, fino a quando non è stata pubblicata la telefonata integrale, quella non ritoccata.
Non fraintendete, quella integrale non discolpa completamente la Rai, ma allo stesso tempo non fa passare Fedez come un eroe. La Rai è un servizio pubblico e come tale dovrebbe tendere all’imparzialità, ma di fatto è spartita tra i partiti e controllata da coloro che governano il Paese. Quindi richiede che tutto quello che va in onda sia rivisto, è la legge per una buona comunicazione. Non sorprende quindi, che a Fedez sia stato chiesto preventivamente il testo, quanto piuttosto che la richiesta fosse di evitare certi nomi e di citare alcune affermazioni che sono già da tempo note (e per cui le persone interessate sono state già chiamate a rispondere). Da cittadino libero di esprimersi aveva tutto il diritto di farlo, prendendosi ogni responsabilità. Questo è stato lo sbaglio dei dirigenti della Rai: insistere come per proteggere la parte citata. Fedez, d’altra parte, ha sbagliato a pubblicare un audio rivisto e cercando di combattere due battaglie allo stesso tempo: la presunta corruzione della Rai e la lotta per l’approvazione del Ddl Zan.