Gottlob Frege: il padre della logica moderna e della filosofia del linguaggio

Il nome Gottlob Frege vi dice qualcosa? Se la risposta è un secco no, non preoccupatevi, siete in buona compagnia.

In effetti, il filosofo tedesco, nato a Wismar l’8 novembre 1848 e morto a Bad Kleinen il 26 luglio 1925, gode di poca fama tanto tra i non cultori di specifiche discipline filosofiche, quali la filosofia del linguaggio e la filosofia della scienza, quanto tra tutti gli studenti italiani che si approcciano allo studio della filosofia. Sfido chiunque, infatti, a tornare con la mente ai propri studi liceali e ad affermare senza esitazione di essersi imbattuto in questo personaggio, assente nei programmi delle scuole superiori.

Questo vuoto può essere ricercato nel suo procedere molto tecnico, fortemente legato ad un aspetto logico e a un’indagine filosofica molto settoriale. Non a caso è considerato il fondatore della cosiddetta logica formale: logica che non va presa come fine in sé, ma – lo si vedrà bene più avanti – come azione propedeutica a mostrare la natura logica della matematica stessa. Tuttavia, può il mero approccio logico e tecnico, unito ad un’indagine molto specifica, essere la condizione sufficiente di questa sua scarsa popolarità tra i non addetti ai lavori?

Nel rispondere a questo quesito è importante sottolineare che, nonostante all’interno del panorama filosofico occidentale di fine ottocento e inizio novecento il nome di Gottlob Frege non sia sicuramente tra i primi citati, la sua importanza nella storia della filosofia – soprattutto novecentesca – è enorme. Il suo pensiero ha anticipato quello di grandi pensatori del XX secolo quali Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein. Per fare un esempio su tutti, il lavoro del filosofo e logico tedesco esercitò una fortissima influenza sulla corrente filosofica dell’empirismo logico: il movimento filosofico più influente della prima metà del ‘900, basato sul principio che la filosofia debba aspirare al rigore metodologico proprio della scienza.

Pertanto, adottando uno sguardo più generale e tenendo bene a mente l’influenza del pensatore tedesco, è possibile dedurre che la poca fortuna di Frege in ambito scolastico e “mainstream” – se così si può dire – vada ricercata nella netta divisione che viene fatta tra filosofia analitica e filosofia continentale.

La filosofia analitica, che può essere rinominata filosofia della logica, pensa che si possa ridurre tutto il pensiero/sistema filosofico ad un’analisi linguistica, ovvero ad un’analisi oggettiva del linguaggio. Con filosofia continentale, al contrario, ci si riferisce generalmente ad una moltitudine di correnti del XX secolo quali la psicoanalisi, il marxismo, la fenomenologia e l’esistenzialismo, per citarne alcune.

Questa rigida distinzione non ha conseguenze unicamente sullo studente di filosofia, che solo se approfondisce i suoi studi può imbattersi in Frege, ma anche sul dibattito filosofico stesso. Non è raro che un filosofo continentale non si intenda o non reputi importante il pensiero analitico, e viceversa. Il lavoro del pensatore tedesco deve necessariamente valicare questa impasse, ritagliandosi il suo meritato ruolo nella storia della filosofia. Ho deciso, pertanto, nel mio piccolo, di rendere giustizia ad una figura che ha fatto la storia del pensiero contemporaneo.

Dunque, senza ulteriori indugi, introduciamo ora il personaggio Gottlob Frege e il suo pensiero, soffermandoci in particolare sullo scritto Ideografia (1879) e sul celebre articolo Senso e denotazione (1892), opere in grado di fornire al lettore un’evidenza della genialità dell’autore nel muoversi all’interno di un sistema filosofico ridotto ad un’analisi linguistica.

Friedrich Ludwig Gottlob Frege fu un matematico, logico e filosofo tedesco, riconosciuto come il padre della moderna logica matematica. Il suo approccio alla filosofia è da ritenersi, a ragion veduta, prettamente matematico e nonostante sia – come detto dinanzi – poco noto e poco studiato in ambito accademico, è oggi considerato da molti il più grande logico dai tempi di Aristotele, insomma, un rivoluzionario della logica. Basti pensare che pima di Frege la logica era, appunto, essenzialmente quella aristotelica: basata su genere e specie, finalizzata alla conoscenza della natura, il cui scopo era scientifico-epistemologico e induttivo-osservativo. Frege ribalta la prospettiva, definendo un’impostazione logicista che, tuttora, è madre di quella che va per la maggiore e plasma le nostre vite: le app, i computer e gli smartphone che utilizziamo funzionano in base ad algoritmi informatici e la logica formale alla base dei linguaggi di programmazione è fortemente debitrice verso il pensiero del filosofo tedesco, in particolare rispetto alla sua intuizione di combinare strutture del linguaggio e strutture matematiche.

É proprio questo obiettivo che prende il nome di logicismo, ovvero il tentativo di accomunare logica linguistico-filosofica e logica matematica al fine di mostrare come esse abbiano le stesse premesse. In altre parole, definire una nuova logica che abbia la limpidezza, l’oggettività e l’univocità della matematica, cosi da rendere quest’ultima un caso particolare dove al posto delle parole si utilizzano i numeri, i quali seguono le stesse regole della logica. Bisogna ridurre le regole della matematica alle regole della logica. Nell’ottica di Frege, solo così sarà possibile definire un metalinguaggio che possa essere utilizzato da un lato per il linguaggio naturale, dall’altro per il linguaggio matematico.

Dunque questo nuovo linguaggio, presentato nell’opera omonima Ideografia (1879), sarà un linguaggio 1. formale e 2. ideografico.

  1. Linguaggio che funziona tramite forme e strutture. Si prenda la proposizione “Socrate è mortale” del linguaggio naturale. Frege ribalta la prospettiva aristotelica, applicandovi un linguaggio formale di tipo matematico. In quest’ottica “è mortale” non è altro che una funzione ƒ(x), alla cui occorrenza “Socrate” la proposizione acquisisce un significato. In altre parole esiste un termine a per cui sostituendo a alla x della funzione, si ottiene ƒ(a):Socrate è mortale1.
  2. “Scrittura delle idee”. Linguaggio in grado di coniugare non più solo i numeri ma anche le idee, i concetti e le parole.

Ora, all’interno di questo progetto mastodontico di perfezionamento del linguaggio naturale e creazione di un metalinguaggio – che prende il nome di Ideografia –, uno dei rilievi più significativi fatti da Frege è sicuramente quello rispetto alla distinzione tra senso e denotazione.

Per comprenderla a pieno tale separazione è estremamente utile rifarsi al suo celebre articolo chiamato proprio “Senso e denotazione” del 1892. Sin da Agostino2, le parole del linguaggio denominavano oggetti e gli enunciati3 erano connessioni di tali denominazioni. Di conseguenza, in tale prospettiva, il significato di una parola è l’oggetto per il quale la parola sta; comprendere una parola, cioè sapere cosa significa, equivale a sapere per quale oggetto essa stia.

Frege ritiene insufficiente una concezione di questo tipo, poiché facilmente soggetta a equivoci da un lato, incapace di rendere conto delle evidenti differenze tra gli enunciati rispetto al loro valore informativo dall’altro. L’idea alla base è che, per chiarire come funziona il linguaggio, si debba sostituire la nozione preteorica di significato con due nozioni più precise. Pertanto, a una concezione binaria del segno (basata sul solo rapporto segno-significato) egli argomenta a favore di una concezione triadica (segno, senso, denotazione).

In altre parole, quello che porta avanti Frege è la consapevolezza che nel linguaggio naturale le parole hanno un doppio ruolo: denotano qualcosa e significano qualcosa. Le due cose possono coincidere, ma nella maggioranza dei casi ciò non avviene e crea ambiguità.

Dunque, ne segue che la denotazione è l’oggetto per cui la parola sta, l’oggetto giudicato. Essa si riferisce al rapporto tra il linguaggio e la realtà extralinguistica. Il senso, al contrario, è il suo valore informativo, è il modo particolare in cui l’enunciato descrive l’elemento denotato. Esso si riferisce ai “contenuti” che ogni individuo, per poter comprendere e utilizzare il linguaggio, deve essere in grado di cogliere con la mente e associare alle diverse categorie di espressioni.

Facendo affidamento al testo “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio4 di Paolo Casalegno, riporto un esempio molto utile per comprendere l’intuizione di Frege in merito a tale distinzione. Consideriamo i seguenti enunciati:

  1. L’autore di Capitani Coraggiosi era astemio
  2. Il vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1907 era astemio

Si può essere sicuri che (1) e (2) siano entrambi veri o entrambi falsi (abbiano cioè lo stesso valore di verità) anche se questo ci è sconosciuto. Il motivo è semplice: ciascuno dei due enunciati è vero se l’individuo denotato dall’enunciato era astemio, ed è falso se invece l’individuo in questione non era astemio. Ma è evidente come i due enunciati denotino lo stesso individuo: Rudyard Kipling.

Pertanto, per quanto riguarda il valore di verità, la presenza di due sensi diversi non crea nessun tipo di problema: sono entrambi veri se Kipling era astemio, entrambi falsi se non lo era. Tuttavia, la differenza di sensi è però molto importante da un altro punto di vista: (1) e (2), pur avendo lo stesso valore di verità, dicono cose diverse. Qualcuno che non sapesse che l’autore di Capitani Coraggiosi e il vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1907 sono la stessa persona potrebbe benissimo conoscere il valore di verità di (1) e ignorare quello di (2), o viceversa: manca un senso univoco che faccia venire meno ogni tipo di fraintendimento.

Questo diventa ancora più interessante quando si analizzano i nomi senza denotazione, che permettono – muovendosi all’interno della distinzione senso/denotazione appena riportata – di notare in modo evidente il progetto filosofico-logicista di Frege.

I nomi senza denotazione sono quei nomi senza un oggetto/persona corrispondente nella realtà: ad esempio, “il più grande numero naturale” o il protagonista di un’opera di finzione come “Odisseo“. A queste parole che non denotano nulla non è possibile attribuire nessun valore di verità, perché di fatto non parlano del mondo: io posso creare degli enunciati con il nome Odisseo, ma quest’ultimi non avranno nessun valore di verità o falsità. Questo perché un linguaggio formale funziona – è importante tenerlo a mente – tramite forme e disposizioni, combinando strutture del linguaggio e strutture matematiche, ma, soprattutto, un linguaggio formale lavora mediante funzioni. Quest’ultime, per definizione, sono proprietà che associano in maniera univoca a valori di un certo dominio valori di un certo codominio, in modo tale da ottenere un risultato di verità o falsità delle variabili. Ne segue che, a un enunciato in cui compare un nome che non denota alcunché – non appartenente al dominio – non sia assegnabile alcun valore di verità, non è cioè né vero né falso. Tuttavia, tale formulazione è dotata di senso e questo la rende comprensibile.

Ma – direte voi – in Frege un’univocità del senso esiste o è pura utopia? Ecco, secondo il filosofo e logico tedesco esiste al di fuori di noi: esiste, come definisce l’autore stesso, un terzo mondo – riconducibile al mondo delle idee platonico – che racchiude l’oggettività, l’univocità e l’eternità dei concetti, delle idee e delle parole.

In sintesi, il filosofo e logico tedesco ammette che uno stesso nome (Rudyard Kipling) possa avere sensi diversi per parlanti diversi e addirittura per uno stesso parlante in momenti diversi. Nonostante questo, è necessario che un nome abbia un senso: se non ce l’avesse, non potrebbe avere una denotazione, poiché ciò che un nome denota è l’entità che il senso ad esso associato identifica. In questo modo Frege rende conto dell’esistenza di un patrimonio comune di conoscenze.

In conclusione, dopo aver ripercorso alcuni tra i punti cardine del pensiero di Frege, una domanda sorge spontanea: riuscì il filosofo a portare a termine il suo enorme progetto logicista? La risposta, in linea con la scarsa fortuna accademica, è negativa. Una lettera di Bertrand Russell sancì la fine del progetto logicistico del filosofo tedesco, rendendo immortale il celebre “paradosso del barbiere” 5 . Il paradosso fece fallire tutto l’impianto freghiano e il boato del crollo portò ad una vera e propria crisi dei fondamenti della matematica, il cui termine ultimo saranno i due teoremi di incompletezza di Gödel. Questi teoremi arriveranno ad affermare che, oltre la logica, anche la matematica non può essere fondata e avere basi solide in sé.

Al lettore più attento non sarà sfuggita “l’amara ironia” del tutto. L’intento freghiano era, infatti, quello del logicismo: definire una nuova logica che avesse la limpidezza, l’oggettività e l’univocità della matematica. Alla fine, oltre ad aver fallito nella creazione di una logica di questo tipo, il suo lavoro ha persino dato il là ad una serie di considerazioni responsabili verso la confutazione della matematica come disciplina fondata in se stessa, limpida e perfetta.

Il punto, dopotutto, è che Frege incarna perfettamente il manifesto di quello che la Filosofia deve essere: farsi domande, ricercare il perché di tutto. Una fame di sapere mai fine a se stessa, ma motore per infinite e nuove riflessioni.

NOTE

[1] A onor del vero la notazione qui proposta non è che una derivazione lontana di quella introdotta dal filosofo nell’opera Ideografia, ma utile a trasmettere la carica di novità dell’impianto freghiano. La notazione di Frege è estremamente complicata e ritenuta assai scomoda, tanto da essere stata subito semplificata da figure di spessore quali Giuseppe Peano, Bertrand Russell e Alfred North Whitehead

[2] “Quando (gli adulti) nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo e ritenevo che la cosa si chiamasse col nome che proferivano quando volevano indicarla. (…) Così, udendo spesso le stesse parole ricorrere al posto appropriato in proposizioni differenti, mi rendevo conto poco a poco di quali cose esse fossero i segni e avendo insegnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà.” Confessioni I,8

[3] Una espressione chiusa, non contenente cioè variabili libere, che denoterà quindi uno dei due valori di verità, V (vero) o F (falso).

[4] Paolo Casalegno, “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio”, Carocci Editore, Roma, 2011

[5] “In un villaggio c’è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato. Questo barbiere taglia la barba a tutti gli uomini del villaggio che non si radono da soli e solo a loro. La domanda è: il barbiere si fa la barba oppure no?” Il paradosso corrisponde in termini logici a chiedersi se un insieme che contiene tutti gli insiemi che non appartengono a loro stessi, appartenga a se stesso. Frege si rese conto di trovarsi davanti, nonostante l’utilizzo di un linguaggio formale, ad un paradosso irrisolvibile.

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