L’origine della disuguaglianza tra gli uomini

Quando si parla di Jean-Jacques Rousseau la sua fama lo precede: filosofo, scrittore, pedagogista e musicista di Ginevra, esponente di punta dell’illuminismo, tra i più studiati in ambito politico ed educativo e, in generale, uno tra i più influenti pensatori del XVIII secolo.

Che descrizione convenzionale direte voi: chiara, concisa e, nel suo essere tanto corretta, quanto poca esaustiva, perfetta per un retrocopertina qualsiasi.

Rousseau è un personaggio sfaccettato che fugge all’omologazione: egli, infatti, va sì inserito all’interno di un contesto illuminista, pregno di principi sociali massivamente razionali, plurali e diffusi, ma al sostanziale ottimismo, alla fiducia nel futuro e nel carattere progressivo della storia umana, il filosofo ginevrino preferisce un lucido pessimismo. Egli non vuole farsi illusioni sull’uso borghese della ragione e, non a caso, in tutte le sue opere emerge un sentimento diffuso di insoddisfazione, tant’è che tutti i suoi lavori sono indirizzati contro qualcosa:

  • Contro le arti e le scienze, che corrompono i costumi e sono lo strumento attraverso cui i tiranni esercitano il potere e controllano la popolazione. (“Discorso sulle scienze e le arti” del 1750).
  • Contro l’istituzione della società, che produce forme di disuguaglianza in virtù del tradimento compiuto ai danni della natura e della legge naturale, la quale dovrebbe guidare l’agire umano. (“Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini” del 1755).
  • Contro il patto che dà vita allo Stato, che si rivela essere iniquo e incapace di assicurare a ognuno il godimento dei legittimi diritti naturali. (“Contratto sociale” del 1762).
  • Contro i sistemi educativi tradizionali, i quali sono inadeguati nel formare rettamente un uomo in grado, poi, di frenare e contrastare le influenze di una società corrotta. (“Emilio o dell’educazione” del 1762).

Pertanto, in questo articolo ho deciso di andare “oltre la copertina” e, nel mio piccolo, parlare dell’originale e peculiare riflessione filosofica rousseauiana presente nel suo celebre Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”, opera pubblicata in seno ad un concorso indetto dall’Accademia di Digione il cui bando verteva sul seguente tema: “Qual è la origine della diseguaglianza tra gli uomini e se sia consentita dalla legge naturale”.

Il filosofo ginevrino, nello stilare il suo elaborato, parte da questa premessa e riflessione politica: la disuguaglianza non rappresenta un principio inestricabile e ingenito all’animo umano, ma nasce come conseguenza della socialità che, nella sua contingenza, ha guidato l’uomo a stabilire legami con altri esseri umani. Nel dimostrarlo, decide di adoperare le tecniche – e solo quelle, come vedremo – dei giusnaturalisti del Seicento: andare alle origini e delineare il cosiddetto “stato di natura” 1, precedente allo stato civile con le sue leggi e autorità.

Rousseau afferma che le differenze di condizione introdotte dalla storia e dalla cultura (civiltà) sono il segno della deformità prodotta nello scarto esistente tra l’indipendente condizione naturale e quella civile, incentrata sui vincoli sociali. Esistono secondo il ginevrino una disuguaglianza naturale e una disuguaglianza civile: la prima è stabilita dalla natura e comprende la differenza di età, di salute, di forze del corpo e di qualità spirituali, mentre la seconda è di natura sociale e consiste nei vari privilegi che alcuni godono a danno di altri, come l’essere più ricchi, più onorati e più potenti.

Tra le due disuguaglianze c’è uno scatto: la prima è “appena sensibile” e “la sua influenza è quasi nulla” – citando Rousseau –, la seconda è radicata e, cosa fondamentale, non ha la sua ragion d’essere nella prima. Se così fosse, tutte le disuguaglianze sociali sarebbero ammesse e legittimate da un’origine naturale: così è sempre stato e così deve sempre essere.

Occorre, nell’ottica di Rousseau, individuare il momento in cui alla disuguaglianza naturale è subentrata quella civile, ovverosia il momento in cui lo stato di natura si è trasformato in stato civile:

“Indicare nel progresso delle cose il momento in cui, il diritto subentrando alla violenza, la natura fu sottomessa alla legge; di spiegare per quale serie di miracoli il più forte ha potuto acconciarsi a servire il più debole e il popolo a comperarsi una pace teorica a prezzo di una felicità reale“. 2

Ma, direte voi, su cosa fondare questa ricerca? Rousseau non ha dubbi: bisogna basarla necessariamente sull’uomo.

È dell’uomo che devo parlare; e la natura del problema che devo esaminare mi fa conoscere che parlerò a uomini”.

Inizia esattamente così la prima parte del Discorso, mettendo in chiaro come il pensiero rousseauiano sia sostanzialmente antropocentrico in modo “originale e puro”. Infatti, quello che interessa a Rousseau è l’essenza più pura dell’uomo, tanto da dichiararlo sin dalla Prefazione, la quale si apre citando la frase del tempio di Delfi: “conosci te stesso”, il precetto più importante e difficile di tutti. Il ricorso all’immagine di Glauco – pescatore divenuto divinità nella mitologia greca – che Platone già aveva proposto nel libro X della Repubblica, rincara la dose e toglie ogni dubbio su quale sia l’atteggiamento adottato dall’autore. La statua di Glauco, infatti, stando sotto il mare, si è talmente incrostata da sembrare più simile ad una bestia che a un dio. È quindi necessario osservare attentamente, ricercare la purezza che giace sotto lo sporco che, come si vedrà meglio più avanti, è generato dallo sviluppo delle facoltà e dello spirito umani.

Dunque è necessaria un’attenta analisi, o, citando Spinoza, un’emendazione. In altre parole, il filosofo poggia la risposta alla domanda del bando (se la diseguaglianza derivi dallo stato di natura o dalla società) proprio sulla distinzione tra ciò che caratterizza l’essenza dell’uomo e le circostanze che hanno modificato il suo stato “primitivo”.

Chi era dunque l’uomo naturale? Come detto per poter rispondere bisogna effettuare una doppia emendazione, nello specifico:

  • da un lato sarà necessario trascurare tutte quelle conoscenze di stampo religioso, legate alla fede e ai testi sacri;
  • dall’altro lato non bisognerà erroneamente trasportare allo stato di natura idee attinte nella società, ovvero non fare come la maggior parte dei filosofi precedenti i quali, invece di descrivere l’uomo di natura, hanno descritto un uomo per certi versi già civilizzato:

Parlavano dell’uomo selvaggio e dipingevano l’uomo civile

Infatti, piaccia o non piaccia, la ricerca scientifica e filosofica è interna alla storia della corruzione umana: bisogna imboccare una strada completamente nuova, che implica un rigoroso esperimento mentale.

Così, spogliando l’uomo di tutti i doni soprannaturali della religione e di tutte le facoltà artificiali da lui acquistate soltanto grazie a lunghe evoluzioni, si giunge a quello che Rousseau definisce un animale privo di qualsiasi istinto particolare – ma proprio per questo in grado di imitare gli istinti di tutti gli altri animali – e dedito all’autoconservazione. Nello stato di natura, infatti, i bisogni sono ad un livello elementare – non come in Hobbes dove l’uomo è fin da subito bramoso di potere su tutto e su tutti – e si limitano al semplice impulso della natura: i soli beni ricercati dall’uomo selvaggio sono: il nutrimento, una femmina e il riposo. Questo modesto numero di esigenze che il selvaggio si trova a dover appagare lo porta a non avere alcuna necessità di sviluppare quelle tecniche utilizzate per costringere la natura “alle preferenze del nostro gusto” scrive Rousseau. Vige un rapporto tra uomini e ambiente pensato all’insegna dell’abbondanza, nel quale – privi di pensieri sul futuro e di ogni tipo di progettualità – essi vivono in un luogo dove il tempo non viene storicizzato.

Lo stato di natura rousseauiano si configura come uno stato in cui gli uomini sono indipendenti, bastano a loro stessi e conducono una vita nomade e vagabonda in un ambiente in grado di garantirgli l’indispensabile all’autoconservazione. Essi entrano in contatto gli uni con gli altri solo accidentalmente e, comunque, per un lasso di tempo talmente breve da non consentire il nascere di alcunché di continuativo. Dunque, scrive il filosofo di Ginevra, l’uomo primitivo:

vive errabondo nelle foreste, senza industria, senza favella, senza domicilio, senza guerra e senza amicizie, senza avere alcun bisogno dei propri simili e senza avere alcun desiderio di nuocere loro, forse persino incapace di riconoscerne individualmente qualcuno “

Dunque che tipologia di stato di natura va delineandosi? Uno stato di guerra tutti contro tutti – di hobbesiana memoria – o uno stato di pace? In Rousseau né l’uno, né l’altro: il suo stato di natura è uno stato di reciproca indifferenza. In esso l’uomo non ha impellenza che non possa soddisfare autonomamente. Il desiderio di socievolezza è dunque escluso con fermezza dal ginevrino:

“…si scorge almeno, dalla poca preoccupazione che la natura si è presa di avvicinare gli uomini per mezzo dei loro vicendevoli bisogni e di facilitare l’uso della parola, quanto poco essa ne abbia preparato la socievolezza e quanto poco di suo ci abbia messo in tutto ciò che gli uomini hanno fatto per stabilire i legami della società…”

Natura che continua a simboleggiare – qui in accordo coi giusnaturalisti e in particolare con Locke – un’istanza normativa, la quale delinea una precisa condotta. Tuttavia, in Rousseau questa stessa natura – ed è qui che il ginevrino si allontana criticamente dalla visione lockiana e dal giusnaturalismo tutto – viene nettamente divisa dalla ragione: legge naturale e ragione umana vengono scisse. Dove in Locke la legge di natura è la ragione e prescrive a tutti gli uomini – a patto che essi vogliano ascoltarla – il fatto di essere tutti uguali e indipendenti, in Rousseau, al contrario, quello che nello stato di natura “tiene il luogo di legge, di costume e di virtù” (così scrive l’autore) sono principi che precedono l’uso di qualsiasi riflessione. Infatti, l’uomo di natura rousseauiano, l’uomo che vive come un selvaggio, difficilmente è guidato dalla ragione. Porlo come essere prima di tutto razionale, oltre ad essere poco plausibile, mostra per l’appunto quell’atteggiamento erroneo verso cui il ginevrino ci ha messo in guardia: attribuire al selvaggio caratteristiche dell’uomo civilizzato e raziocinante.

Nello specifico Rousseau individua due principi naturali e prerazionali che guidano il selvaggio: l’amore di sé e la pietà.

L’amore di sé (amour de soi) è quel sentimento assoluto, naturale e buono per definizione in quanto assicura l’autoconservazione dell’individuo ed esprime il suo diritto alla vita. È a tutti gli effetti il sentimento più adatto allo stato di natura, poiché si sposa perfettamente col concetto di indipendenza, che è alla base della condizione naturale descritta dal ginevrino.

La pietà è quella qualità che provoca nel selvaggio un’istintiva repulsione nel veder soffrire l’altro. Essa, citando l’autore, :

“Tempera l’ardore che egli ha per il suo benessere con una ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile“.

Rousseau descrive la pietà come un moto empatico che nasce dall’identificazione con il dolore degli altri e porta l’uomo a rinunciare all’atto del causare dolore, qualora esso non sia strettamente necessario.

Certamente al lettore più attento non sarà sfuggita l’apparente contraddizione verso cui la riflessione del filosofo sembra dirigersi: prima viene sottolineato come il desiderio di socievolezza sia estraneo allo stato di natura, per poi introdurre la qualità della pietà che promulga un legame istintivo col prossimo. In merito a questo non c’è miglior risposta che quella data dallo stesso autore:

Non credo di correre il rischio di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù naturale che anche il detrattore più spinto delle virtù umane è stato costretto a riconoscere all’uomo: voglio dire la pietà […] virtù tanto più universale e tanto più utile all’uomo in quanto in lui precede l’uso di qualsiasi riflessione e tanto naturale che persino le bestie ne danno qualche volta dei segni sensibili “.

Il selvaggio qui descritto, pur essendo a-sociale, non è antisociale e, soprattutto, la socialità qui delineata andrebbe a legare tutti gli esseri viventi capaci di sperimentare la sofferenza. Lo spettro è troppo ampio per rendere la pietà il presupposto del legame sociale e dell’associazione tra individui. Al contrario, fondamentale nel passo qui sopra è il rimarcare rousseauiano rispetto alla naturalità e prerazionalità di tale qualità, rendendo lampante il motivo per cui natura e ragione sono nettamente divise:

“L’uomo che medita è una animale degenerato

L’uomo è un animale degenerato perché ha la possibilità di uscire dalla linea tracciata dalla natura e, con il suo agire libero, affrancarsi dal meccanicismo dei sensi.

“La natura comanda a ogni animale, e la bestia obbedisce. L’uomo prova la stessa impressione; ma si riconosce libero di consentire o di resistere“.

La libertà di agire in modo autonomo rende l’uomo capace di perfezionarsi; un animale, al contrario, dopo qualche mese, è quello che sarà per tutta la vita e la sua specie, dopo mille anni, è ancora quella che era nel primo anno di quel millennio. Tuttavia questa libertà – che può leggersi quasi come un surplus metafisico che distingue l’uomo dagli altri animali – rappresenta anche la condizione di possibilità per la rovina dell’essere umano. Proprio qui è il punto cardine del Discorso: Rousseau, con il concetto di uomo perfettibile, apre nello stesso tempo alla possibilità di una società virtuosa, in grado di svincolarsi dalla decadenza morale o, almeno, in grado di riequilibrare la crisi causata dall’uscita dallo stato di natura. Non vuole banalmente – come lo accusa Voltaire – riportare gli uomini nelle foreste.

Ma – direte voi – se la pietà non può essere presa a fondamento del legame sociale, come sono sorte le nazioni? Cosa ha segnato il passaggio da stato di natura a stato civile? In effetti, nella rappresentazione dell’uomo primitivo e dello stato di natura non pare esserci alcun elemento in grado di innescare il divenire storico e di conseguenza il divenire sociale.

La risposta è tanto naturale quanto originale rispetto alle analisi tradizionali del tempo: il concorso casuale di cause estranee. Nello scenario descritto da Rousseau, infatti, l’uomo naturale non si muove all’interno di un a-luogo anonimo e passivo, ma al contrario vive in un mondo che lo modifica e che egli stesso altera per soddisfare il proprio amore di sé. Entra dunque in scena la contingenza: il selvaggio non entra necessariamente nello stato civile grazie ad una presa di consapevolezza della propria condizione e poi delle proprie esigenze – come in Hobbes e Locke –, anzi, per uscire dalla condizione naturale, ha bisogno del concorso casuale di parecchie cause estranee accidentali che sarebbero potute benissimo non sorgere mai e senza le quali egli sarebbe rimasto nella sua condizione primitiva. Rousseau, di fatto, capovolge la narrazione.

Così il selvaggio, a seconda di dove vive, deve necessariamente rapportarsi e superare le prime difficoltà che quel preciso ambiente incontaminato presenta: l’altezza degli alberi, il clima, la ferocia degli altri animali e via discorrendo. E sono proprio i bisogni e principalmente i timori che lo portano a ragionare:

“qualunque cosa ne dicano i moralisti l’intelletto umano deve molto alle passioni

e lo sviluppo dell’intelletto porta ad un aumento sia in qualità che in quantità dei bisogni stessi:

“… le quali (le passioni) per comune consenso devono moltissimo all’intelletto”.

Vi è una circolarità perfetta che si lega a quella spinta al migliorarsi connaturata all’uomo.

Nascono cosi i primi strumenti come armi per la caccia, il fuoco e pellicce per ripararsi dal freddo, i quali introducono la capacità di definire confronti e allacciare relazioni tra gli enti prima, tra le persone poi. Qui si chiude il cerchio, in quanto è proprio nelle prime comparazioni e nei primi paragoni (ovvero nel riflettere) che si possono rintracciare i germi del pensiero, del guardare al futuro e della programmazione. L’indipendenza degenera in dipendenza, la felicità degenera in infelicità e l’amore di sé degenera in amor proprio3.

Nello specifico, il filosofo parla di “vera prima rivoluzione”, che porta alla nascita delle prime comunità, quali la famiglia, che radunano i selvaggi in uno spazio comune permettendo spontaneamente la nascita di confronti e paragoni da un lato, l’instaurarsi della dinamica del riconoscimento dall’altro. All’interno di questo sviluppo ciascuno pretende la stima dell’altro, pensando che sia un suo diritto: il mancato riconoscimento ora non può più essere lasciato impunito. Infatti, se tale stima non si accorda alla reputazione che ognuno ha di se stesso, lo scontro è inevitabile. Rousseau parla qui di proprietà di sé, ovvero l’affermarsi dell’abitudine costante a misurarsi con gli altri, che porta a considerare se stessi in base alla stima altrui.

Successivamente l’uomo scopre l’agricoltura ( “il grano“) e la metallurgia (“il ferro“) dando vita alla “seconda rivoluzione”, che imprime un’accelerata al processo di corruzione dell’uomo: si comincia a coltivare e dividere la terra e nasce l’idea di proprietà privata, fondata sul lavoro.

La dinamica del riconoscimento si trasla sul possedimento, e la convinzione del dare a ciascuno il suo diventa un principio di giustizia, sul quale si plasma una prima idea di diritto: la legge del proprietario. Infatti, nella lotta per i possedimenti, giocoforza c’è chi prevale e chi soccombe, ma entrambi reclamano il diritto alla proprietà, da conquistare in tutti i modi, anche con la violenza. Si vive quindi nel terrore costante, nella guerra tutti contro tutti di stampo hobbesiano, dove l’uguaglianza e l’indifferenza naturale sono un antico ricordo. Da qui, in armonia col procedere giusnaturalistico, emerge la necessità di un’istituzione con leggi e punizioni: uno stato positivo. Questo neonato stato sarà però fondato su un patto iniquo, che non farà che legittimare nella disuguaglianza imperante lo status dei forti, che ora diventeranno i proprietari, a danno dei deboli, che ora diventeranno o dipendenti salariati o fuorilegge.

In sintesi, la legge del proprietario/legge del più forte dà luogo ad una personalizzazione delle proprietà: l’offesa fatta ad un proprio bene è come un’offesa alla propria persona. Così come andava punito il mancato riconoscimento, ora va punito il danno alla proprietà, che altro non è che un’estensione del sé. Pertanto, queste leggi positive stabiliscono un’uguaglianza unicamente formale, in quanto si fanno portatrici, a conti fatti, di una condizione di forte diseguaglianza materiale che usa due pesi e due misure. Tant’è che quella stessa violenza che prima accumunava a-moralmente i due schieramenti, ora assume valenza opposta nei due casi: crimine per i deboli, diritto per i forti.

Ne consegue che la società civile, oltre ad essere figlia di una costrizione (essendo il risultato di una situazione contingente e non una conseguenza necessaria della natura umana), è soprattutto il confine ultimo dello stato di natura. Così, rispondendo al quesito di partenza, Rousseau afferma come la disuguaglianza non sia consentita dalla legge naturale, ma anzi sia proprio opposta a quest’ultima. Il diritto positivo non è la continuazione diretta di quello naturale, in quanto i due poggiano rispettivamente su presupposti inconciliabili: disuguaglianza e uguaglianza. La disuguaglianza, pertanto, viene prima legittimata dall’uomo o, per meglio dire, dal più forte con l’istituzione del concetto di proprietà e poi, con il diritto, creato apposta, viene mantenuta e difesa.

“Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno siete perduti!”.

Per concludere sembra che la riflessione rousseauiana all’interno del Discorso abbia, in relazione al concetto di stato di natura, una duplice valenza intrinseca: essa oscilla tra teoria e realtà storica, senza però identificarsi perfettamente con nessuna delle due. È una forma ipotetica che può comunque ospitare contenuti reali, permettendo a Rousseau di utilizzare la condizione originaria come termine di paragone per la situazione attuale dell’uomo civilizzato.

In questo stato originario per il pensatore svizzero giace l’essenza dell’umanità, rispetto alla quale tutti i cambiamenti e supplementi sono, per la grande maggioranza, solo peggioramenti figli della corruzione propria del vivere sociale. Confrontare lo stato prepolitico e lo stato di diritto assume così la fisionomia di tappa obbligata se si vuole giudicare bene intorno allo stato presente. Va da sé che considerare queste due condizioni come appartenenti a due piani di realtà completamente distinti, separati ed eterogenei, fa venire meno ogni legittima comparazione.

Agli occhi del filosofo di Ginevra, pertanto, apparirà lecita l’esigenza di cancellare il patto iniquo che ha dato vita allo stato positivo e scrivere un nuovo “Contratto sociale” 4, in grado di rifondarlo su basi più eque, così da riguadagnare quella libertà e quella felicità proprie alla prima età dell’uomo.

NOTE

[1] Il giusnaturalismo è quella teoria filosofico-giuridica che presuppone l’esistenza di una norma di condotta intersoggettiva universalmente valida e immutabile, fondata su una peculiare idea di natura, preesistente a ogni forma storicamente assunta di stato civile. Pertanto lo stato di natura è quell’ipotetica condizione oggetto d’analisi dei giusnaturalisti, in cui gli uomini non sono ancora associati fra di loro e disciplinati da un apparato governativo. I maggiori esponenti seicenteschi di questa corrente sono: Hobbes, Locke, Pufendorf e Thomasius.

[2] Tutte le citazioni presenti in questo articolo sono tratte da J.J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, Feltrinelli, Milano, 2009.

[3] Sentimento negativo, in quanto, nascendo dal confronto con gli altri, si configura come sentimento sociale, subordinato all’opinione.

[4] L’opera successiva al “Discorso sull’origine della diseguaglianza” sarà proprio intitolata “Contratto sociale”, pubblicata nel 1762, dove Rousseau delineerà, con sorprendente anticipo sui tempi, l’idea di stato democratico.

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