Democrazia in crisi

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno Stato di organizzarsi sono arrivato alla conclusione che la democrazia è il sistema più democratico che ci sia. Dunque, c’è la democrazia, la dittatura, e basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura in Italia c’è stata e chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. […] Del resto, come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che “democrazia” significa “potere al popolo”. L’espressione è suggestiva e poetica. Ma in che senso potere al popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Si sa però che dal 1945, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto al voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” che dopo alcune geniali modifiche fa sì che tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi è, e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni, e che se lo incontri ti dice giustamente: “Lei non sa chi sono io!”. Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Il referendum, per esempio, è una pratica di “Democrazia diretta”, non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio, ha effettivamente qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire solo “Sì” se vuol dire no, e “No” se vuol dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Un altro vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari si chiama “propaganda” e tu non puoi mai sapere la verità. In Democrazia si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma sappiamo anche il contrario di tutto. […] E quando saremo scemi tutti allo stesso modo, la Democrazia sarà perfetta.

Giorgio Gaber, La Democrazia – un’idiozia conquistata a fatica

La classe del ‘99, alla quale appartiene anche l’autore del presente articolo, è simbolicamente l’erede di quella che cent’anni prima, tornata dalle trincee e provata dall’esperienza dei totalitarismi del Novecento, creava un assetto politico da dare alle proprie nazioni.

Il tema di questo lavoro nasce come spunto di riflessione in seguito alle note vicende relative al fallimento del progetto di “esportazione della democrazia”. Oltre a imperniarsi sulla concezione di democrazia e sulla sua impossibilità di essere pienamente concretizzata, l’elaborato vuole essere una personale riflessione indotta dalla lettura di un articolo di Dacia Maraini comparso sul Corriere della Sera:

[…] Perché la democrazia crea tante difficoltà? Perché la giustizia funziona così male? Perché tante risse e tante frantumazioni? Perché il personalismo vince sulle scelte che riguardano il bene comune? Perché da noi non funziona la meritocrazia? Perché le leggi ci sono ma nessuno controlla che siano applicate? […]

Dacia Maraini, 2018

Nell’ultimo periodo sono scoppiati diversi scandali circa le elezioni tenutesi negli Stati Uniti nel 2016, riguardo i brogli elettorali in Russia, la situazione attuale in Siria e le elezioni tenutesi in Venezuela.

In tali esperienze politiche viene messo in luce il problema della legittima governabilità, che si ripercuote sul mantenimento di un ordine da parte delle istituzioni politiche compatibilmente col rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Nel “mondo reale” della Democrazia si manifestano con forza le ragioni che da tempi antichi hanno indotto i pensatori, primo fra tutti Platone, a diffidare di essa o di un suffragio universale senza restrizioni. Si oppongono poi alla detta forma di governo trasformazioni sociali, economiche, culturali e tecnologiche, la scomparsa di distinzioni culturali che avevano dato origine ai partiti, crescente individualizzazione e frammentazione della società, sia sotto il profilo degli interessi che degli orientamenti valoriali e, da ultimo, il travolgente sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. L’affermarsi della Democrazia nel Novecento è stata alquanto faticosa (si ricordino le uccisioni di esponenti politici quali Rathenau, il capo del governo svedese Olof Palme, i fratelli Kennedy, Martin Luther King, Gandhi, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, e per l’Italia l’on. Aldo Moro) e oggi viene data come qualcosa di scontato, ma in realtà rimane ancora traccia della sua vulnerabilità. Citando l’on. Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta sul caso Moro, “Moro – una delle vittime dei nemici della democrazia – è stato ucciso perché sarebbe diventato un buon Presidente della Repubblica e avrebbe guidato il paese efficacemente in modo veramente democratico”. Del resto, come sostiene Corrado Augias in Questa nostra Italia. Luoghi del cuore e della memoria, “la nostra è diventata una democrazia di massa, come i tempi chiedevano, com’era giusto che fosse” e lo si può notare negli interventi dei parlamentari, nei quiz televisivi, nel comportamento delle persone e nella diffusione delle notizie, nella scuola. La scuola, si dirà. Riformata più volte e in modo mediocre, lasciata sulle spalle degli insegnanti è così definita: “la scuola democratica”, che di democratico però ha assai poco perché ha perso o cambiato completamente i criteri di valutazione del merito avvantaggiando quelli che generalmente hanno lavorato meno, i cosiddetti fortunati. Ma non si può nemmeno accusare la scuola di tutte le colpe: si impara e si disimpara anche per contagio sociale perché “se la società è incolta, non legge, non sa parlare né pensare, non se ne preoccupa, non se ne vergogna, se anche la politica dà prova di sciatteria nel linguaggio e nel pensiero, non c’è scuola che possa fungere da rimedio”.

COSTITUZIONE

L’uomo era un animale sociale prima di essere politico. (Cfr. Hannah Arendt, 1958)

Partendo dal pensiero di Hobbes, l’esistenza dello Stato è giustificata dal temuto Stato di Natura, situazione in cui non vi è autorità alcuna e l’individuo teme di essere aggredito dal prossimo. L’originale metodo greco per uscire dalla fragilità dello Stato di Natura era stata la fondazione della polis.

Secondo il pensiero di Hannah Arendt, la polis aveva due funzioni principali: aiutare a trovare “fama immortale” garantendo le opportunità per distinguersi e dando una soluzione utile (per la comunità) sia all’azione, sia al discorso. In epoca antica non vi erano infatti molte possibilità per ricordare imprese degne di nota, ma gli esempi di Omero e Pericle ci mostrano come agire esattamente in modo democratico elogiando l’uno le imprese della Guerra di Troia, l’altro i caduti della Guerra del Peloponneso.

In epoca moderna è lo Stato, e in particolare lo Stato Democratico, a voler essere il superamento del “tutti nel timore”, così come è stato ideato nel Settecento, per garantire maggiore libertà.

La nascita dello Stato è sancita nella maggior parte dei casi dalla costituzione, che ne descrive le regole fondamentali, la struttura e l’attività. Oggi essa è considerata numinosa e inviolabile in quasi tutti i paesi del mondo. Questo perché, delineando nella maggior parte dei casi i principi guida, essa è ciò che un popolo si dà nel momento della saggezza per farlo valere nel momento della confusione. Ma è anche vero che una sua modifica nel corso del tempo è un elemento inevitabile, atto a non vincolare una generazione alle leggi dei propri avi, come sostenne un padre fondatore degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson.

Effettivamente, chi mai si sarebbe aspettato delle situazioni eccezionali, come quella che stiamo vivendo. La democrazia ci dà in mano proprio quello: la possibilità di scegliere se seguire rigidamente quanto stabilito dalla carta costituente oppure far spazio a uno “stato d’eccezione” per dirla con Carl Schmitt. La Costituzione francese del 1791 prevedeva proprio il su citato principio della rettificabilità, introducendo inoltre la possibilità di indire le elezioni di altre assemblee costituenti a distanza di vent’anni l’una dall’altra.

DOVERI E DIRITTI

Uno degli elementi costitutivi di una democrazia sono i diritti e i doveri, le cui correlazioni vengono delineate nella costituzione.

Il dovere si caratterizza in dovere morale (ought to), obbligo legale (must) o pressione sociale (should).

Inizialmente, nelle società antiche la legge dello Stato coincideva con la legge divina (must e ought to). Lo stesso sovrano era considerato un dio o ereditava il potere da quest’ultimo, avvicinandosi così all’assolutismo. Poi il Giusnaturalismo introdusse la concezione di un diritto che universalmente stabiliva le relazioni umane ed era strettamente collegato alle leggi della natura. Norberto Bobbio fece notare come il termine “natura” si riferisse a molteplici significati, dai quali sarebbe impossibile attingere un’unica morale. Ma già circa due secoli prima di Bobbio anche Immanuel Kant aveva attaccato la ragione pratica, ovvero la morale fondata sull’esperienza e sulle massime. Le massime sono delle regole morali soggettive: la massima di ciascuno è diversa rispetto a quella dell’altro. La morale legittima, secondo Kant, è quella pura, fondata solo sulla ragione. In contrapposizione alla tesi positivista, anche David Hume propose un’interessante teoria: Hume notò come la descrizione di un dato fenomeno non coincidesse per forza con la previsione dei fenomeni naturali, e tantomeno un dovere morale sarebbe derivato da una legge naturale universale e previsionale.

Un ragionamento analogo a quello di Bobbio si può condurre anche per il diritto. La legislazione democratica è fondata su un insieme di diritti uguali per tutti gli uomini, come recita l’articolo 2 della Costituzione italiana: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo […]”. L’uso del termine riconosce sottolinea la preesistenza di tali diritti (Diritto di Natura) a prescindere dallo Stato. Solo in un secondo momento si stabilisce l’insieme di tali diritti come una categoria aperta perché essi cambiano col passare del tempo, aggiornandosi a eventi, stili di vita, ideologie.

La legittimazione democratica è imperniata sui diritti, e in particolare sul diritto al voto, attraverso il quale il demos si esprime. Secondo l’articolo 48 della Costituzione italiana l’esercizio del voto è considerato un diritto; anche se poche proposizioni prima si legge: “Il suo esercizio è dovere civico”. E qui incorre un’altra discrepanza tra dovere e potere, infatti il potere (godere di tale diritto) si è tradotto in un dovere: puoi, dunque devi (ought to/must).

Nella democrazia indiretta, i partiti tendono a pilotare la già diluita rappresentanza offerta. In particolare, con le liste bloccate la scelta ricade sui partiti i quali solo successivamente decidono quali persone al meglio rappresentano la popolazione. È un po’ il gioco di Caligola che, dopo essere diventato imperatore, nominò senatore il suo fidato cavallo Incitatus. Quindi le elezioni non eleggono rappresentanti ma partiti; e in simile partitocrazia quello che alla fine conta sono i numeri, le proporzioni, le percentuali. È il caso delle elezioni avvenute in Germania nel 2017: al partito vincitore, la CDU, mancava una manciata di voti per raggiungere la maggioranza in parlamento; si instaurò una dialettica diatriba risolta solo dopo sei mesi tra chi sosteneva la “Jamaika-Koalition” e chi preferiva una consolidata “Groβe Koalition” con l’SPD.

Il voto può essere considerato come una riconferma di un ordine già consolidato di un sistema politico precostituito, ma che difficilmente si può cambiare e questo è l’alibi del diritto al non-voto. Il non-voto indica un senso di non appartenenza allo Stato. L’astensionismo non risolve certo i problemi, anzi non crea alcun sostrato fertile per le idee perseguite. La democrazia si è sempre concretizzata nelle elezioni e nei referendum, che ormai hanno raggiunto il suffragio universale in quasi tutto il mondo.

[…] Eppure, mentre una volta si lottava per ottenere il diritto al voto, oggi, che sia diventato un diritto, l’hanno capito tutti, che sia anche un dovere, l’hanno capito in pochi.

Giorgio Gaber, 1999

Votare non è una radicale rigenerazione ex novo, come lo sarebbe una rivoluzione, bensì un momento discriminante di una società fondata su tale potere. Si potrebbe diminuire l’astensionismo introducendo l’obbligatorietà del voto come in quasi il 7% dei paesi in cui non votare comporta delle penalità: la sanzione pecuniaria, la rimozione dalle liste elettorali o la perdita di alcuni diritti (fruizione dei mezzi pubblici ad esempio), l’incarceramento. L’abulia ad andare a votare è un risultato sia della mancanza del precedente climax (7% di votanti in più rispetto ai paesi in cui non c’è l’obbligatorietà al voto), sia della qualità dei governi, sia, come sostiene il politologo Gianfranco Pasquino, della crisi mondiale dei partiti incominciata nel 1989.

In Democrazia, la realtà del mondo è garantita a ciascun uomo come è garantita a tutti gli altri e perciò si richiede un’esplicita apparizione degli individui sulla scena politica. Da notare che una simile libertà non è mai stata pienamente presente: né per lo schiavo, per lo straniero, per il barbaro, né in epoca più recente per l’artigiano, l’operaio, l’impiegato e l’uomo d’affari. “Garantire a tutti uno stesso potere, la Democrazia lo permette. Ma noi ce lo permettiamo?” scrive Dacia Maraini nel suddetto articolo.

Si vede quindi quanto sia difficile inquadrare, come si vuole in democrazia, il dovere e il potere (e il volere) all’interno di una precisa e coerente struttura date le molteplici interpretazioni fatte.

I TRE POTERI, O PIÙ

L’uomo cercò di liberarsi della demagogia aristocratica con la Rivoluzione Francese lottando contro la concentrazione in poche mani di tutti i privilegi dei nobili e proponendo la separazione dei tre poteri.

Il primo a formulare la suddetta tripartizione fu Montesquieu: ispirandosi alla Bill of Rights del 1689, formulò la democratica scissione del potere in potere legislativo, potere giudiziario, potere esecutivo.

Oggi la tripartizione è minacciata da altri poteri che si vogliono aggiungere, il primo è il potere mediatico, probabilmente arrivato oramai a una forma di assolutismo. Basti pensare ad esempio alla notevole influenza esercitata dalle reti sociali durante le campagne elettorali: cito in particolare quella americana fondata su una serie di scherni e infiltrazioni via internet (Russiagate). Il Quarto potere, così coniato da Edmund Burke e rappresentato nell’omonimo film di Orson Welles del 1941, si riferisce alla stampa, alle tecnologie e alla televisione, della quale alcuni programmi sono anche chiamati “la terza camera del Parlamento”.

“Io sono un’autorità su come far pensare la gente” dice Kane nel film di Orson Welles, e infatti i media riescono sia a diffondere fake news sia ad agire come un filtro sulle notizie da trasmettere a seconda degli interessi del pubblico, comportandosi in modo poco onesto intellettualmente. Secondo il Cicerone Britannico Burke il potere dei media, al tempo rappresentati solo dalla stampa, doveva salvaguardare la propria autonomia rispetto al parlamento, al governo e alla magistratura. In realtà è una cassa di risonanza delle tre istituzioni, nonché del Quinto potere, l’economia, che già Karl Marx considerava motrice di tutti i processi storici. Secondo Piergiorgio Odifreddi “la legittimità dei media si trova solo nei media stessi”, un po’ come la corona imperiale zarista che gli eredi al trono si ponevano in testa con le proprie mani. In realtà l’autorevolezza dei mezzi di comunicazione di oggi viene confermata dal numero di copie vendute, di ascolti oppure di Mi Piace. Anche il filosofo della “società liquida”, Zygmunt Bauman, si pronunciò sul potere della rete, usata “non per aprire la propria visione ma per chiudersi dietro degli steccati”, i propri steccati, alimentando peraltro il carattere “populista” di alcuni movimenti politici. Lo stesso Pasolini evidenziò come i telespettatori stessero in un rapporto da inferiore a superiore rispetto alla televisione, in quanto parole e immagini colano su di loro dall’alto, senza l’utilizzo di una ragione critica.

IO VS NOI. VERSO L’AUTONOMIA

Tralasciando i vari poteri che minacciano la compostezza dello Stato, vi è un altro principio tanto contrastato dalla filosofia della Arendt. Il carattere operativo della democrazia si fonda infatti sull’intersoggettività, ovvero la relazione tra i singoli soggetti. Se un solo soggetto si chiudesse nel suo ego non accettando né il prossimo né il diverso minaccerebbe appunto la democrazia, fondata al contrario sulla ricchezza della diversità e sul confronto.

Il tratto caratteristico dell’autonomia è la presenza di maggiore libertà e sicurezza, nonché di una propria identità oltre che sul piano culturale, anche su quelli economico e politico. In contrapposizione all’autonomia vi è l’eteronomia, espressa da Kant per indicare la stretta dipendenza di un individuo rispetto ad altro. Esistono esempi letterari che mostrano la ricerca di un’autonomia: Robinson Crusoe costruisce una società altamente efficiente composta solamente da un individuo e divisa dal resto del mondo, nonché l’irriconoscibile essere de La Tana di Kafka che impiega molto tempo ed energie per costruire una tana sicura mettendosi nei panni persino di un possibile insidiatore.

I movimenti secessionisti si fondano sulla ricerca di una propria identità e del proprio ego. Paesi e popolazioni hanno sempre cercato una propria indipendenza sia nella storia passata (Irlanda, Paesi Baschi) sia al giorno d’oggi. Esemplare è il caso della Catalogna, che rivendica a sé un’indipendenza politica giustificata dalla grossa differenza culturale ed economica rispetto al resto della Spagna. La prima rivolta catalana si verificò nel 1931, pochi anni prima della Guerra Civile spagnola, ma il suo fervore ardeva da secoli, durante i quali si era formata un’identità propria della regione. Spesso i movimenti indipendentisti non hanno progetti realistici o concretizzabili e nel frattempo molte risorse vengono sprecate, ad esempio con l’allontanarsi dei turisti e con il consumo di denaro per eventuali referendum.

Il tema dell’autonomia è, in parte, trattato nel saggio di Miguel de Unamuno En Torno al Casticismo: Unamuno sta ricercando un’integrità umana al di là dell’appartenenza etnica, una totalità etica. Tale purezza morale dell’uomo viene chiamata dall’autore “Casticismo”, termine strettamente collegato al concetto di castità, presente nello spirito di una nazione. Ogni nazione è casta perché presenta la propria identità culturale non contaminata, eppure aperta: si noti come il filosofo basco ripudi i concetti esiziali di popolo e razza introdotti successivamente agli inizi del ventesimo secolo, concentrandosi piuttosto su una sorta di solidarietà e apertura totale. Nell’opuscolo si trova la celeberrima incitazione rivolta alla Spagna a uscire dalla propria “malattia” di chiusura rispetto all’Europa (generalmente la Spagna è sempre rimasta distaccata rispetto ai grandi eventi della storia europea). Per Unamuno il legame con la terra natia rimane sempre e comunque inviolabile, in quanto “lo particularmente español ya no se descubrirá mediante lo generalmente europeo, sino gracias también a lo particularmente poético y lo míticamente español”. La virtù si trova anche nella regionalizzazione, ma senza perdere di vista l’unica patria, quella universale, umana; al principio del terzo millennio si sbaglia a sottovalutare il dibattito sugli stati nazionali, non tanto perché essi siano una risposta alla globalizzazione quanto perché essi si definiscono inevitabilmente in rapporto anche a un principio di umanità e solidarietà.

A parere di chi scrive, la continua ricerca di maggiore autonomia non fa che alimentarsi fino a provocare la chiusura di tutte le relazioni tra i singoli individui e a generare così il temutissimo Stato di Natura. L’ego è la base dell’autonomia, dell’egoismo e dell’egocentrismo e una tale ipertrofia dell’io demotiva l’impegno politico portando l’individuo persino al malcontento o alla depressione.

Forse si dovrebbe tornare a identificarsi come zȏon politikòn per superare il bivio tra uomo socievole e individualità affermata. Forse si dovrebbe ripartire proprio dalla definizione di animale politico, citata sia da Marx in tempi moderni, sia da Aristotele alla fine dell’Etica Nicomachea e nella Politica per evidenziare la forte connessione tra l’individuale e il collettivo. L’incontro tra libertà e democrazia deve quindi avvenire nella cooperazione libera tra gli individui, come nel jazz, dove ogni suonatore coopera liberamente al prodotto musicale: una politica che sia agire di concerto.

La difficoltà nel comprendere una crisi della Democrazia sta nel fatto che essa è da sempre, per sua natura, soggetta a crisi. Lo era in tempi antichi nella sua forma diretta, lo era durante l’Ottocento, ristretta a un solo gruppo di persone colte, lo è oggi con i suoi attributi mediatici e leaderistici. Al giorno d’oggi non esiste più l’analfabetismo nella maggior parte del mondo ma, come sostiene Dacia Maraini nel suddetto articolo, spesso si presenta nella sua forma di ritorno come un mancato esercizio di quanto imparato. Ciò comporta una mancanza di riconoscimento e difesa dei veri interessi. La democrazia lo permette: solo attraverso un confronto sereno si può giungere alla chiarezza, trasparenza e meritocrazia tanto desiderate dai più. Solo così si può evitare la crisi della Democrazia.

E se la Democrazia è realmente in crisi forse è per la troppa diversità di opinioni e idee, che essa stessa assicura, che creano spaccature e divisioni. Ma una democrazia sana, incentrata sul potere della Costituzione, è il terreno comune sul quale convergere e concordare soluzioni insieme (Cfr. Valerio Onida, 2018). È il caso della crisi, tanto discussa al giorno d’oggi in Italia e all’estero, tra maggioranza e opposizione, ora personificazione di un intransigente “no”, ora con un autorevole senso di responsabilità, ora alla ricerca del cosiddetto “compromesso storico”, esempio di una Democrazia dove non è la maggioranza a decidere, ma la ricchezza di tutte le idee divergenti.

In conclusione, quali le prospettive per la Democrazia? È ampiamente condivisibile il pensiero di Zygmunt Bauman, il quale sostiene che “per quanto invasive siano le forme di manipolazione che dobbiamo affrontare, nessuno potrà mai privarci della libertà di scegliere e immaginare altri mondi possibili”. Esprimere il proprio pensiero di uomo e saper vivere con uomini è democrazia vera.

BIBLIOGRAFIA

Antonio Macaluso, Il senso dello Stato. Un valore del dopo-elezioni, “Corriere della Sera”, 20/03/2018.

Dacia Maraini, Noi, complici (forse) inconsapevoli, “Corriere della Sera”, 20/03/2018.

Piergiorgio Odifreddi, La Democrazia non esiste. Critica matematica della ragione politica, Rizzoli, 2018.

Valerio Onida, Uno sforzo per ridurre i veleni reciproci, “Corriere della Sera”, 13/03/2018.

Michele Salvati, Le conseguenze della crisi e le ragioni degli elettori, “Corriere della Sera”, 27/03/2018.

Mauro Bonazzi, Atene, la città inquieta, Piccola Biblioteca Einaudi, 2017, cap. V.

Elio Franzini, Teoria della “Crisi”. Un’analisi filosofica, “Il Rasoio di Occam”, 22/12/2015.

Corrado Augias, Questa nostra Italia. Luoghi del cuore e della memoria, Einaudi, 2017, cap. I.

Hannah Arendt, Vita Activa, 1958.

SITOGRAFIA

http://www.treccani.it/vocabolario/crisi

https://www.ilpost.it/2014/03/05/crisi-democrazia-economist/

Monologo “Il Voto” di Giorgio Gaber: https://www.youtube.com/watch?v=X-QXXOiUVXw

Intervista a Pasolini sulla televisione: https://www.youtube.com/watch?v=CpFJK3LI4Vs

Monologo “La Democrazia”: https://www.youtube.com/watch?v=3iccz42Yfxs

http://www.redalyc.org/articulo.oa?id=322127618012

https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/sogno-indipendenza-catalogna-costa-caro-un-miliardo-euro/5a236514-2ebe-11e8-bf8b-26a1a7e4d9dd-va.shtml

https://www.corriere.it/methode_image/2018/05/09/Esteri/Foto%20Esteri%20-%20Trattate/venezuela_0-klDE-U43480886202808PtD-1224×916@Corriere-Web-Sezioni.png?v=20180509112911

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