Il Candido di Voltaire

“Sono convinto che l’unico metodo per salvare il buon senso degli uomini, o per preservare l’intelligenza nel mondo, sia di concedere libertà allo spirito critico. Ma lo spirito critico non sarà mai libero se viene soppressa la libertà di motteggio; perché contro gli eccessi di seriosità e gli umori malinconici non v’è altro rimedio che questo”.

È con questa citazione tratta dalla “Lettera sull’entusiasmo” di Anthony Ashley Cooper (1671 – 1713), allievo di John Locke e terzo conte di Shaftesbury, che ho deciso di aprire quest’articolo, che sarà incentrato sul famoso racconto filosofico di Voltaire (1694 – 1778), datato 1759: “Candido o l’ottimismo”.

Il pensiero di Shaftesbury, infatti, è estremamente funzionale all’introduzione dell’opera volteriana: contrappone al cosiddetto entusiasmo – che nel Settecento era sinonimo di fanatismo – di coloro che si credevano direttamente ispirati da Dio reputando, di conseguenza, vere solo le proprie credenze, la libertà di motteggio, vale a dire l’ironia. Egli, infatti, ritiene che il mezzo più efficace per combattere estremismi passionali di ogni genere, tra i quali spicca quello religioso, sia il good humor e non una critica seriosa e austera o una repressione con la forza, che chiamerà violenza. Il filosofo inglese ha dunque ben a mente l’insegnamento degli antichi, i quali ritenevano controproducente punire severamente ciò che meritava appena d’esser deriso.

Pertanto, l’ironia, unita ad un atteggiamento di tollerante e ragionevole buon umore, rappresenta l’antidoto perfetto per contrastare “gli eccessi di seriosità e gli umori malinconici” dei fanatici che, con il loro comportamento oltremodo intransigente e severo, si sono resi responsabili di tragedie e sciagure nel mondo. Il ridicolo, scrive Shaftesbury, anche se indirizzato male poi sicuramente colpirà nel segno.

Voltaire, nel suo soggiorno inglese1 , legge il terzo conte di Shaftesbury e fa sua quest’idea che vede l’ironia, unita al sarcasmo e alla satira, come lo strumento perfetto per, da un lato, rendere evidenti le assurdità e le contraddizioni del suo tempo e, dall’altro, evitare di ricadere in quell’atteggiamento di arroganza e intransigenza tipico dei dogmatici. L’ironia satirica, a ragion veduta, diventa la sua arma filosofica principale, tanto che tutti i suoi racconti – e nel Candido questo è evidente – sono attraversati da una forte vena satirica e sarcastica, capace di renderli, ancora oggi, estremamente scorrevoli, interessanti e avvincenti.

Nel “Candido o l’ottimismo” viene narrata la storia di Candido, un giovane ragazzo dal temperamento dolce e ingenuo, che cresce in un castello in Westfalia e viene educato dal filosofo ottimista Pangloss2, che rappresenta un discepolo ideale di Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646 – 1716) poiché convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. Candido, pregno di questa filosofia, guarda fiducioso alla vita, convinto che la provvidenza guidi il mondo e la sua stessa esistenza verso il bene; da qui, però, per lui inizierà un’odissea tragicomica che mostrerà la vanità dell’ottimismo razionalista leibniziano. Infatti, innamorato della figlia del barone Cunegonda, il giovane verrà cacciato dal castello e, successivamente, rapito; la sua amata sarà violentata e fatta prigioniera; sopravvivrà a terremoti, naufragi e pene capitali; subirà persecuzioni da truffatori e dall’inquisizione, sarà costretto a imbarcarsi in mirabolanti e assurde avventure che lo porteranno a Lisbona, Parigi, Londra, Venezia, Costantinopoli e persino nella leggendaria El Dorado, in America settentrionale.

Il racconto si può leggere in diverse chiavi:

  1. È una satira: il bersaglio principale sono gli adepti di un ottimismo metafisico di stampo leibniziano, un ottimismo semplice e scontato, figlio di un’osservazione cieca e ideologica del mondo. Esso, dipinto come il migliore dei mondi possibili, è al contrario attraversato da soprusi, violenze e sciagure di ogni genere, di cui il terremoto di Lisbona del 1755 non è che una delle manifestazioni più eclatanti.
  2. È una sorta di favola, in quanto ne riprende la struttura. Il castello, le disavventure, il ritrovamento dei personaggi, la presenza di una “morale” e di un “lieto” fine. Inoltre nel Candido viene meno ogni pretesa di realismo e sia i luoghi che i personaggi svolgono un ruolo simbolico fondamentale.
  3. È un racconto filosofico, o meglio, è un conte philosophique: ovvero un racconto fittizio che critica la società e il potere costituito. La sua caratteristica principale è la brevità e l’intelligente unione di una storia leggera con precise convinzioni filosofico-sociali.

Passiamo ora all’analisi più strutturale di questi tre punti.

Per entrare nel vivo del primo è necessario soffermarsi sul pensiero di Leibniz così da comprendere meglio la critica volteriana. Infatti, il pensiero del filosofo tedesco natio di Lipsia, si inserisce all’interno di un preciso panorama filosofico che vedeva convivere due visioni antitetiche: da un lato la visione tradizionale, quella finalistica, secondo la quale il mondo è stato creato liberamente da Dio in vista di un obiettivo, un fine; dall’altro la visione meccanicistica, secondo cui il mondo non ammetteva in sé la libertà. Dunque, se la visione finalistica salvaguardava la libertà, poiché delineava un uomo libero – specchio della libertà di Dio – responsabile della scelta di concorrere o meno alla realizzazione del fine divino (pagandone le conseguenze), nella visione meccanicista tutto seguiva precisi rapporti di cause ed effetti e l’agire umano non era altro che azione consapevolmente inserita nel sistema necessario del tutto (pensiero riassumibile nella sostanza spinoziana).

Leibniz cerca di trovare un compromesso tra queste due visioni, secondo lui, solo apparentemente contraddittorie. Nel farlo elabora il famoso esempio che segue. Si disegnino, dice, dei punti a caso su una lavagna, poi si uniscano con una linea: questa sarà giocoforza spezzata e disordinata. Tuttavia, se si inquadra questa linea in due assi cartesiani, è possibile trovare un’equazione che la descrive, in quanto tutte le linee all’interno di un sistema di riferimento possono essere descritte così. Questa, per il filosofo tedesco, è la prova che il mondo è ordinato, ed è un’ordine non necessitante, bensì contingente. I punti, infatti, essendo stati messi a caso, potevano essere disposti in infiniti modi diversi e, ciononostante, sarebbe stato possibile individuarne una regolarità interna.

L’obiettivo leibniziano, dunque, è quello di dimostrare la non necessità del mondo, ovvero in altre parole dimostrare che il mondo poteva essere diverso da com’è, che esistono infiniti mondi possibili in cui si può rintracciare una regolarità intrinseca. Tutti i mondi possibili sono regolari, così come tutti i punti possibili disegnabili su una lavagna sono inquadrabili all’interno di un’equazione matematica, una legge: libertà e ordine non sono tra loro in contraddizione.

Questo è fondamentale in Leibniz soprattutto in ambito divino: Dio, in quest’ottica, è libera volontà, che sceglie liberamente di creare il mondo in un preciso modo; tuttavia ciò non esclude la possibilità che potesse crearlo in infiniti modi differenti (come i punti sulla lavagna). Pertanto, dunque, il nostro mondo è solo uno degli infiniti mondi possibili. Ma tale scelta divina è frutto del caso?

La risposta del filosofo tedesco è negativa. Essendo Dio l’essere supremo, onnipotente e onnisciente, sceglie sempre il meglio. Da ciò segue la più perfetta delle libertà, quella che non trova ostacoli nello scegliere, in qualsiasi momento, il meglio. In sintesi, il mondo in cui tutti noi viviamo è quello più unitario, quello che presenta più varietà e diversità nell’armonia, quello in cui vi è il minore dei male e la maggiore possibilità di bene. Inoltre, quando Dio sceglie il meglio, il mondo per cui non ha optato (che pertanto è inferiore in perfezione) non cessa di essere possibile. Quando Dio sceglie ciò che sceglie, non lo fa in virtù di una necessità: questo, infatti, implicherebbe l’impossibilità di qualsiasi altra decisione, significherebbe confondere, scrive Leibniz, quello che Dio non vuole con quello che Dio non può.

Questa riflessione ha importanti conseguenze soprattutto all’interno della teodicea, cioè la branca della teologia che studia il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza nel mondo del male. Il filosofo tedesco, infatti, nel tentativo di tenere insieme la libertà umana con l’onnipotenza, l’onniscienza e la bontà divina, delinea un Dio creatore sia del bene, che del male; quest’ultimo assume quindi la fisionomia di condizione transitoria e, nel corso della storia del mondo, sarà compensato e rivelerà un senso e una sua vera funzione: il bene maggiore. Pertanto, tutte le tragedie e tutte le violenze sono tappe di un percorso necessario che conduce al bene, essendo questo il migliore dei mondi possibili scelto da Dio (e che dunque ha per forza in sé la più grande possibilità di bene). Si va così delineando il cosiddetto ottimismo metafisico di stampo leibniziano.

Voltaire, dal canto suo, è in profondo disaccordo con questa visione:

Egli (Leibniz) affermò, nel settentrione della Germania, che Dio non poteva fare se non un solo mondo […] rese dunque al genere umano il servizio di fargli vedere che dobbiamo essere tutti contentissimi, e che Dio non poteva fare di più per noi; che aveva necessariamente scelto, tra tutti i partiti possibili, incontestabilmente il migliore. – Che ne sarà allora del peccato originale? – gli obiettavano. – Ne sarà quel che si potrà, – dicevano Leibniz e i suoi amici; ma in pubblico scriveva che il peccato originale rientrava di necessità nel migliore dei mondi possibile. Come! Essere cacciati da un luogo di delizie, dove si sarebbe potuto vivere eternamente se non si fosse mangiato un pomo? […] Questa sorte è proprio la migliore che fosse possibile? Per noi non è certo molto buona; in che modo può essere buona per Dio? Leibniz capiva che non c’era niente da rispondere; così scrisse dei grossi libri, nei quali egli stesso non si raccapezzava.” 3

Il “Candido o l’ottimismo” incarna proprio la sprezzante critica con cui il filosofo francese punta a rovesciare la teoria leibniziana del migliore dei mondi possibili. Voltaire si erge a portavoce di quella sfiducia laica e razionale nei confronti dei progetti e dei disegni provvidenziali della metafisica, in particolare quelli di stampo religioso. Infatti, la satira del filosofo, figlia del libero esercizio della ragione e della graduale secolarizzazione del sapere, colpisce meglio di qualsiasi condanna o panegirico al pragmatismo, mettendo in risalto le incoerenze e assurdità che accompagnano la credenza in un mondo perfetto: il Candido mostra il peggio del mondo e lo sforzo disperato del suo eroe patetico di inserirlo in una visione ottimistica. L’idea di vivere nel migliore dei mondi possibili è talmente radicata nella mente del protagonista che, anche di fronte ad avvenimenti assurdi, grotteschi e tragicomici, egli è portato a difendere la veridicità e la fondatezza degli insegnamenti di Pangloss: questo genera un cortocircuito fortemente comico nel lettore, che non può non cogliere la netta frattura tra realtà e ideologia. Tuttavia, costretto a fare i conti con una numerosa serie di peripezie che, mano a mano, sgretolano le sue convinzioni provvidenzialistiche, Candido muta radicalmente la sua sterile concezione metafisica arrivando alla conclusione che l’inafferrabilità delle vicende umane non nasconde in sé un senso, un fine benevolo, e pertanto, credere alla massima leibniziana: “niente avviene senza ragione” è solamente un vano tentativo di autoinganno:

‘O Pangloss!’ – esclamò Candido – ‘tu non avevi previsto questo abominio; ora basta, bisognerà che alla fine io rinunci al tuo ottimismo.’ ‘Che cos’è quest’ottimismo?’ – domandò Cacambo. ‘Ahimè’ – rispose Candido – ‘è il delirio di sostenere che tutto va bene quando tutto va male‘”. 4

L’avversione di Voltaire all’ottimismo metafisico di Leibniz deriva dalla consapevolezza che non vi possa essere nessun fine entro la contingenza della natura materiale, che non si possa porre nessun senso, nessun bene divino, a fondamento della realtà. Il mondo non è né buono né cattivo: il mondo è ciò che è, vincolato da quelle sole leggi naturali che il metodo della scienza sperimentale sarà in grado di decifrare. Anestetizzare la “realtà del male” inquadrandola all’interno di un ordine universale rappresenta, agli occhi del filosofo francese, un oltraggio al buon senso e alla ragionevolezza; inoltre, come il disastroso terremoto di Lisbona del 1755 insegna, ricondurre l’impatto del male particolare sotto l’assioma rassicurante del “tutto è bene” non fa altro che negare vigliaccamente la realtà della sofferenza ed insultare tutte le vittime delle ineluttabili leggi di natura. Ecco perché l’ottimismo metafisico si presenta come uno sforzo impotente degli infelici che fingono di essere felici: il male nel mondo non può essere opera di Dio, poiché in questo caso non sarebbe buono e giusto, né può essere opera di altri, perché in questo caso non sarebbe un Dio onnipotente. Eppure il male esiste e ci dobbiamo fare i conti. Il filosofo sentenzia così all’interno del “Dictionnaire philosophique”:

Lungi dal consolare, questa teoria del migliore dei mondi possibile è disperante per i filosofi che la adottano. La questione del bene e del male resta un caos inestricabile per coloro che cercano in buona fede; è un semplice gioco intellettuale per coloro che amano disputare: sono dei forzati che giocano con le loro catene […] Così, con le nostre sole forze, non sappiamo nulla sulle cause del nostro destino. Mettiamo, dunque, alla fine di quasi tutti i capitoli di metafisica le due lettere dei giudici romani, quando non riuscivano a chiarire una causa: N.L., non liquet, la cosa non è chiara

In conclusione col “Candido o l’ottimismo” Voltaire ricorre alla pura ironia e satira per affrontare uno dei temi meno ridicoli della storia del pensiero filosofico: l’inconcepibile presenza del male in un mondo creato da un Dio benigno. L’obiettivo volteriano non era, nel demolire il sistema leibniziano, quello di definire un sistema alternativo, bensì attuare una rivalutazione del sapere pratico e del lavoro concreto, in grado di superare il tragico contrasto tra l’aspirazione alla felicità e l’impossibilità di conquistarla in modo definitivo.

La saggezza che egli persegue non è altro che il saper vivere dell’uomo nel mondo, ovvero il saper adeguare il proprio comportamento alla fatale mutevolezza delle vicende umane. Nell’ultimo capitolo, infatti, i protagonisti, giunti nella fattoria che diventa lo loro fissa dimora, sperimentano una noia tale da spingere a chiedersi se non sia peggio aver subito tutte quelle disavventure, oppure lo starsene lì a non fare nulla. La risposta dell’autore è affidata ad un vecchio contadino turco, il quale afferma come solo il lavoro sia in grado di allontanare dall’uomo i tre grandi mali della noia, del vizio e della miseria. Pertanto, all’ottimismo metafisico – che porta avanti la convinzione dell’esistenza di qualcuno o qualcosa che guida il mondo verso il bene – Voltaire contrappone una propria visione di “ottimismo5 molto più radicato nella fatica e nella terra, dove il compito dell’uomo è quello di cercare, con il lavoro, di coltivare, ovvero rendere abitabile e vivibile ogni giorno questo mondo.

Passando al secondo punto, è legittimo interpretare il Candido come una sorta di favola in quanto ne ha la struttura: il castello in Westfalia che rappresenta un non luogo – una specie di giardino dell’Eden da cui il protagonista è scacciato –, la lunga peripezia, il ritrovamento dei personaggi, il lieto fine, pur sempre tale in tono minore, con Cunegonda che non è più bella e con la fattoria dell’ultimo capitolo che è sì un rifugio sicuro, ma richiede lavoro e fatica. A questo, poi, si aggiunge il ruolo simbolico che tanto i personaggi quanto i luoghi svolgono. I primi, infatti, sono irrealistici e stereotipati: Candido, oltre ad intendersi con tutti in ogni paese, incarna il tipico avventuriero di bassa classe sociale che però riesce sempre a cavarsela; Cunegonda l’interesse sessuale; Pangloss il mentore navigato e Cacambo6 l’abile servitore factotum. Tuttavia a Voltaire servono così per dimostrare le sue teorie: hanno, quindi, un valore allegorico. I secondi, invece, si rifanno al cosiddetto motivo del giardino, inteso sotto una chiave simbolico-figurativa: metafora da un lato dei vari “mondi possibili” e dall’altro delle qualità personali, che richiedono cura per essere messe a frutto. Celebre, alla fine del racconto, il passaggio in cui il pensatore francese conclude con la massima: “dobbiamo coltivare il nostro giardino“.

Pertanto si passa dal giardino “incantato”, “edenico” del castello in Westfalia, da cui Candido e Cunegonda sono allontanati come due novelli Adamo ed Eva, al “giardino” di fine racconto, cioè la fattoria ( e quindi il mondo reale), entro il quale l’uomo è chiamato a rimboccarsi le maniche per rendere produttiva la propria vita. Così l’operosità, la dedizione e il lavoro pratico si oppongono alle speculazioni astratte e alle illusioni di felicità; il mondo, rispetto all’universo o agli infiniti mondi possibili di Leibniz, non sarà che una piccola parte che comunque rimane, inequivocabilmente, l’unico mondo che conosciamo e che abbiamo. Voltaire fa dunque appello a quell’individualismo virtuoso che spinge a fare a sé ciò che si vorrebbe che gli altri facessero a loro stessi, alimentando, con olio di gomito e fatica, un circolo che ricerca condizioni non superstiziose e desiderabili. Proprio questa, dunque, è la morale – legata a doppio filo alla condizione umana – che Candido impara a proprie spese, comprendendola e maturando di conseguenza.

Infine, a questi si aggiunge il “giardino illusorio e immaginario” di El Dorado, che assume nel racconto un ruolo centrale e fortemente simbolico poiché rappresenta l’utopia volteriana. Al suo interno si possono trovare molti topoi del genere: la separazione dal mondo esterno, la condizione di innocenza, l’abbondanza di ogni bene, il disprezzo per oro e pietre preziose, a cui si aggiunge l’esistenza di una religione senza dogmi, senza cerimonie e sacerdoti e l’assenza di giudici e prigioni. In altre parole un non luogo a tutti gli effetti, dove si praticano il deismo la tolleranza.

Giungiamo ora al terzo e ultimo punto. Voltaire, infatti, è considerato l’iniziatore del genere del conte philosophique in Francia (sulla scia di Jonathan Swift (1667 – 1745) e il suo: “I viaggi di Gulliver“).

In un periodo storico come il XVIII secolo che vedeva da un lato, con l’affermarsi della borghesia, l’imporsi del romanzo – un’opera di finzione la quale, attraverso una narrazione estesa e un intreccio ricco, simula la realtà coi suoi caratteri, costumi, sentimenti e passioni – e dall’altro una crisi della metafisica, un tempo regina delle scienze, a causa della diffusione dell’illuminismo e delle scienze positive, il racconto filosofico arriva ad acquistare particolare importanza all’interno dell’ambiente intellettuale. Questo genere letterario si impone in virtù della sua capacità di superare l’astrattezza del trattato filosofico attraverso un’esposizione breve, piacevole e romanzata (appunto) delle sue teorie, narrando cioè la vita di un personaggio in carne e ossa che, a partire dalle proprie esperienze, sviluppa una propria filosofia.

In effetti, il contesto in cui nasce il conte philosophique è quello dei salotti borghesi, nei quali primeggia la volontà di unire una storia leggera con precise convinzioni filosofico-sociali, atte a diffondere quelle idee di “rischiaramento della mente degli uomini”, ormai ottenebrata dall’ignoranza e dalla superstizione, figlie dell’età dei lumi.

Nello specifico, questo genere letterario ha tre caratteristiche principali:

  • È un genere composito. Voltaire, nei suoi racconti filosofici, da una parte si avvicina a caratteristiche riconducibili al genere teatrale della farsa, dove struttura e trama sono basate su situazioni e personaggi stravaganti ma, nonostante ciò, mantengono una sorta di realismo; dall’altra non mancano alcuni tratti propri del genere picaresco, come il fatto che l’eroe attraversi diverse classi sociali e vi siano molte avventure e spostamenti. Sono infine anche presenti elementi e riferimenti alla società contemporanea, in modo che il lettore possa meglio ragionare sulla riflessione che il racconto vuole portare avanti.
  • È un genere parodico-satirico. I personaggi sono spesso definiti da un singolo tratto caratteriale: Candido infatti, può essere caratterizzato semplicemente dal suo nome. Tuttavia, però, l’universo in cui si muovono i personaggi è reale e spesso si scontra con la società contemporanea dell’autore. Questa frattura è creata dalla parodia, ovvero l’artificio letterario che utilizza il diversivo, l’inversione, la riduzione, l’amplificazione, l’anacronismo, giochi di parole e caricature. Tutti questi espedienti riescono facilmente nell’intendo di far ridere il lettore fornendogli un’immagine esagerata della realtà, ma che al tempo stesso rende manifeste le sue contraddizioni e incongruenze. È con questo procedimento che Voltaire critica la nobiltà e denuncia il pensiero di certi filosofi. Ad esempio, Pangloss è una caricatura del filosofo tedesco Leibinz e insegna la “metafisico-teologo-cosmologo-stoltologia”.
  • È un genere polemico. Questo tipo di opera ambisce all’unione di una forma in grado di attirare il lettore, con un contenuto filosofico ben preciso, in questo caso fortemente radicato nella sensibilità illuminista. Pertanto, in ogni racconto è individuabile una tesi di fondo, un giudizio, che l’autore porta avanti e difende. A questo nel testo si contrappone la tesi contraria, ovvero quella confutata. Nel “Candido”, Pangloss è l’incarnazione del pensiero leibniziano, dell’ottimismo metafisico, il quale è attaccato da Voltaire lungo tutto il corso dell’opera. Per confutarlo e promuovere le sue idee, il filosofo francese utilizza argomenti, idee, cause, riferimenti, che sostiene e rende concreti attraverso esempi (il terremoto di Lisbona o il riferimento all’esecuzione dell’ammiraglio John Byng7). Ne consegue che il conte philosophique è a tutti gli effetti un testo di argomentazione indiretta che, attraverso una storia capace di sedurre il lettore, persegue un potente intento polemico.

In conclusione, alla luce di questo percorso all’interno del capolavoro di Voltaire, possiamo affermare che il suo protagonista omonimo, in fin dei conti, rappresenti per il francese ciò che il filosofo dovrebbe essere: qualcuno che non adatta la realtà alle proprie convinzioni, ma, al contrario, è pronto a correggere le sue posizioni, a rivederle, a metterle in discussione qualora i crudi e duri fatti sembrino invalidarle.

NOTE:

[1] Decisivo nella formazione del suo pensiero fu il soggiorno-esilio di Voltaire, tra il 1726 e il 1728, in Inghilterra. A Londra il filosofo francese entrò in contatto con la tradizione filosofica empirista di Francis Bacon (1561 – 1626) e John Locke (1632 – 1704); con gli scritti scientifici di Isaac Newton (1642 – 1726) e, soprattutto, con un sistema politico e sociale che nell’Europa del XVIII secolo rappresentava un unicum: la monarchia costituzionale. Essa garantiva divisione dei poteri e leggi a tutela dei cittadini.

[2] Il nome di Pangloss deriva dal greco πᾶν (pân, “tutto”) e γλῶσσα (glôssa, “lingua, linguaggio”). Da Pangloss proviene il termine panglossismo, ovvero l’inclinazione a credere di vivere nel migliore dei mondi possibili.

[3] Voltaire, Dictionnaire philosophique (1764); trad. it. Dizionario filosofico, a cura di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1995.

[4] Voltaire, Candido o l’ottimismo, trad. it. a cura di S. Gargantini, Feltrinelli, Milano, 2013.

[5] È difficile definire Voltaire ottimista o pessimista, piuttosto è più corretto sostenere che egli abbia avuto una posizione intermedia, con sfumature diverse nel tempo. La sua critica, infatti, è aspra e tagliente contro tutto ciò che si contrappone alla ragione e alla giustizia.

[6] Cacambo è il servo che dal Portogallo segue e aiuta Candido nelle sue imprese per ritrovare la sua amata. Introdotto da Voltaire per lanciare un vero e proprio messaggio contro il razzismo, è una figura fedele, saggia e intelligente.

[7] John Byng (1704 – 1757) fu un ammiraglio della marina inglese, condannato a morte dalla corte marziale e fucilato a Portsmouth il 14 marzo 1757, per essere stato sconfitto dalla flotta francese nella battaglia di Minorca del 1756.

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