Cosa significa essere forti?

Si dice che ciò che non ci uccide ci rende più forti, che riuscire a portare a termine tutti i nostri doveri pur sentendoci sopraffatti ci rende grandi, perché non abbiamo mollato, ma quanto di questa narrazione ha a che fare con la nostra salute mentale e l’effettiva felicità? In questo nuovo episodio esploriamo, In punta di piedi, l’argomento nelle sue varie sfaccettature e arriviamo infine a definire una forma ottimale e coerente di benessere.

Iniziamo riconoscendo che nel pensiero comune è piuttosto immediato collegare alla “forza mentale” qualcuno che si mette alla prova, che è coraggioso e non si lascia scalfire dalle avversità; al contrario, alla debolezza sono associati, che ci piaccia o meno, il pianto, la nullafacenza, la paura e l’ansia. Tendiamo, insomma, a ragionare a compartimenti stagni, soprattutto quando si tratta di noi in prima persona. Sarà capitato a tutti, almeno una volta, di supportare un amico o un familiare in difficoltà durante una sfida o un percorso di crescita personale – magari ricordandogli che quella giornata negativa è solo una piccola parte di un percorso più ampio – e di essere troppo severi, invece, quando siamo noi quelli travolti da questa sensazione. 

Un altro evidente sintomo di questa distorta percezione di tempra psicologica è l’incapacità di abbandonare un impegno preso anche se ci rende infelici: una volta partiti, noi arriviamo fino in fondo. Immaginiamo, ad esempio, di aver scelto Giurisprudenza ispirati dal lavoro dei nostri genitori e dalla passione del professore delle superiori. Verso la fine del primo anno iniziamo però ad avere dubbi sulle nostre motivazioni e, semestre dopo semestre, questi vanno crescendo, finché non arriviamo esausti a poco più di metà corso di laurea. Certo che questo è un percorso davvero tosto e ci ho già investito tanto tempo e denaro… e poi, se mollassi, cosa potrei fare?, così decidiamo di resistere. Trascorsi gli ultimi anni, con la corona d’alloro in testa, ci guardiamo allo specchio e sembra evidente che, dopo tutta la fatica fatta per ottenere il titolo, di certo non lo vogliamo buttare via, così iniziamo a lavorare nell’ufficio della mamma, rendendo lei e papà molto orgogliosi. Piano piano iniziamo a guadagnare e ci acclimatiamo tanto che improvvisamente siamo in piena età adulta, alimentati da un moto per inerzia: non eravamo mossi da passione all’inizio, non lo siamo tuttora e siamo infelici in un ambiente di persone che, motivate invece da una dedizione sincera, faticano a capirci. Tornando ora a metà percorso accademico, quando i nostri dubbi avevano raggiunto una lievitazione tale da non passare più inosservati, come sembra, con senno di poi, il confronto tra qualche mese di smarrimento e metà vita su un percorso insoddisfacente?  

Ebbene, lungi da questo esempio suggerire di mollare l’università quando ci rendiamo conto che è difficile, anche perché è improbabile che questo momento non arrivi. La sua chiave di lettura più proficua è invece racchiusa in quella fatica nello studio non appagata in alcun modo dalla soddisfazione della conoscenza. Possiamo aggiungere inoltre, come prova del fatto che il problema è non necessariamente il percorso accademico in sé, che è plausibile anche tornare sulla medesima carreggiata una volta terminata la pausa, magari motivati da convinzioni più solide o liberi da questioni personali esterne che ci avevano fatto mettere tutto in dubbio. 

L’esempio della carriera universitaria ci torna utile anche per far luce su un altro ostacolo con cui facciamo spesso i conti: la mentalità della società in cui viviamo, in cui ogni messaggio che ci arriva nasconde l’insegnamento che più rapido è meglio, maggiore caparbietà porta maggiore successo, che la felicità viene solo da grandi sacrifici e che è forte chi non molla mai. Non solo: queste correlazioni tendono anche ad inquinare altri ambiti della nostra vita, dai rapporti con la famiglia e gli amici a quello con un ipotetico partner. Tendiamo a perseverare in una direzione evidentemente sbagliata per noi perché non vogliamo sentirci sconfitti, sebbene la vera sconfitta sia quella che ci vede succubi di ciò che ci accade.

Lo scenario finale ci vede dunque spesso affannati e impegnati in grandi fatiche per provare tanto al mondo quanto a noi di essere forti e bravi e, nel momento in cui il nostro corpo grida aiuto – che sia con episodi d’ansia, pianti improvvisi, perdita di appetito o binge eating – auto-giudicati come deboli dato che, comprensibilmente, accusiamo i colpi di un percorso non adatto a noi o assurdamente pesante; in alternativa molliamo perché, se tanta deve essere la fatica da fare, noi evidentemente non siamo fatti per quello, per quanto genuina possa essere la passione che ci muove. Riassumendo: se non rientriamo in una assurda etichetta a misura di robot siamo inclini a rivolgerci verso estremi non necessari, a ragionare in termini di o tutto, o niente.

Realisticamente, però, a renderci forti non è tanto quello in cui ci impegniamo, in quale tempo record lo concludiamo e i risultati tangibili che ci troviamo tra le mani: è l’approccio con cui affrontiamo le nostre emozioni e le scelte prese. Talvolta, sia chiaro, è effettivamente opportuno parlare di forza: alla fine di una relazione o in seguito a un lutto, ad esempio, vivere quel dolore, per quanto sia faticoso, è l’unico modo per superarlo e andare avanti, così come stringere i denti mentre studiamo è lodevole quando quella conoscenza ci appaga e ci rende felici. Ma sottoporci a sofferenza gratuita solo per resistere, perché questo è ciò che fa chi è forte, non porta ad altro se non a un dolore maggiore. É questo ciò che vogliamo per noi?

Concludendo, insomma, non possiamo permetterci di essere troppo specifici e severi, di far coincidere la nostra idea di forza con la linea di traguardo di un percorso intrapreso, altrimenti saremmo solo ciò che facciamo, il che non è esattamente vero. A renderci tenaci è invece sempre, a prescindere dagli impegni presi, la capacità di affrontare tutte le nostre emozioni e di non farci sopraffare, l’abilità di viverle completamente e di trarre da loro i suggerimenti per i nostri prossimi passi.

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