Non siamo più intelligenti degli animali

In questa intervista mi confronto con Giorgio Vallortigara, uno dei più importanti neuroscienziati italiani e professore presso il CIMeC di Rovereto. Parleremo della straordinaria intelligenza di molti animali – che non ci sono inferiori – e proveremo a comprendere cosa significa avere un cervello come il nostro.

Ho notato, scorrendo tra i suoi articoli, che lei ha numerosi interessi: dalla scienza alla filosofia, fino all’arte.

Sì, ma non ne so nulla… Sono rozzo, come dico sempre. Ho un interesse, ma sono un dilettante. Sono un lettore, non un esperto. Però mi piace frequentare ambienti diversi da quelli usuali, forse perché i colleghi mi annoiano, sono sincero.

Ho letto un suo articolo in cui parlava di Von Uexküll insieme al professor Brentari: entrambi condividete l’interesse per l’etologia...

Carlo (Brentari, ndr) l’ho conosciuto proprio perché studiava Von Uexküll e ha scritto un libro importante sull’argomento. È anche venuto per un talk sull’etologia nel mio laboratorio e ora alcuni suoi studenti di filosofia – sedotti dalle neuroscienze – vengono a fare il tirocinio da me.

Mi è capitato di intervistare il professor Paternoster, non so se lo conosce.

Sì, grazie alla rivista sui sistemi intelligenti. Però ci conosciamo superficialmente.

Gli ho detto che l’avrei intervistata e lui mi ha detto di fargli subito arrivare l’audio dell’intervista perché gli sarebbe molto interessato. Ma anche il professor Senigallia parla spesso di lei. Insomma, le sue ricerche interessano diversi ambiti, come lei è interessato a diversi orizzonti.  

Corrado è ormai più uno scienziato che non un filosofo, mi unisce a lui l’amicizia con Giacomo Rizzolatti. Negli ultimi anni ha partecipato a diversi esperimenti. Lo prendo sempre un po’ in giro su questo e lui mi risponde: “No, rimango un filosofo”. Ormai è un filosofo un po’ sui generis, che ha capito di aver sbagliato mestiere.

Vede una differenza così netta?

No, non vedo differenza. Credo che l’unica differenza riguardi la possibilità di parlare di interessi in comune senza fraintendimenti. Trovo che questo sia un “difetto” tipico del nostro sistema scolastico e universitario, che è molto rigido. Io racconto sempre ai miei studenti che uno dei miei eroi scientifici è stato Roger Sperry, teorico dello split brain e premio Nobel. Lui aveva cominciato gli studi nella letteratura inglese per poi passare alla psicobiologia. Nel nostro paese questi “salti” sono difficili, non perché alcune persone si oppongono, ma perché il sistema è così rigido che diventa tecnicamente difficile farlo.

In alternativa una persona può andare all’estero per acquisire competenze diverse e poi tornare in Italia. E magari questo può portare a qualcosa di nuovo in Italia che non c’è ancora.

Anche in Italia ci sono delle eccezioni. Ci siamo noi, al CIMeC, che al master abbiamo una forbice abbastanza ampia. Non facciamo troppa distinzione. Non chiediamo una laurea specifica per entrare nella nostra magistrale. Abbiamo di tutto, ragazzi che vengono da citologia, biologia, filosofia e qualcuno da fisica. Molto bello, secondo me. Tuttavia, a volte emergono dei problemi, nel senso che in alcuni casi è necessario conoscere un po’ di fondamenti istituzionali: comunque, studiarsi un manuale non richiede molto tempo.

Qual è, secondo lei, la cosa importante per un neuroscienziato? Qual è la capacità fondamentale?

È una disciplina talmente variegata che ognuno può trovare ciò che si adatta meglio alle sue capacità. Per esempio, nel mio laboratorio lavorano 8 post-doc e 3 studenti di dottorato. C’è una ragazza che ha studiato fisica, una che ha studiato filosofia a Torino con Vattimo e Ferraris… E altri, insomma. È impossibile definire la “capacità fondamentale” perché ci sono alcuni che passano la giornata al microscopio a guardare vetrini e contare neuroni, altri che programmano, altri ancora che passano il tempo vicino a un animale cercando di addestrarlo… Ciascuno ha la possibilità di esprimersi e di capire qual è il suo particolare talento. Per intraprendere il percorso “behaviour” ci vuole un’enorme pazienza e una capacità di leggere il comportamento degli animali – cioè di capirli – e non tutti hanno questa sensibilità. Per restare al microscopio devi essere affascinato dal micromondo, per lavorare al computer è necessaria una certa passione… Ognuno può mostrare il proprio talento.

A questo punto, viste le sue ricerche nell’ambito etologico, le chiedo qual è la differenza principale che c’è tra l’uomo e l’animale. Se c’è, ovviamente.

Prima di tutto ricordo all’interlocutore che noi siamo animali. C’è una famosa battuta che inizia ponendo la domanda: ”Che animale vorresti essere?”. Risposta: “Tu sei già un animale”. E quindi? Tutti gli animali sono diversi, quindi il problema sta nella categorizzazione così generale. Che vuol dire animale? 

Parliamo di uno scimpanzé, della pulce, del capibara o del canguro? Del topo o dell’ape? Tutti gli animali hanno, come dire, le loro specializzazioni adattative, soprattutto per quanto riguarda il comportamento e l’attività cerebrale. Poi esistono altre capacità comuni nel sistema nervoso. Nel cervello ci sono parti che sono fondamentalmente conservate. Mi è difficile rispondere alla domanda in generale. Pensiamo alla domanda: “Cos’è che ha di speciale il ragno?”. Come diceva il filosofo Steven Pinker, i ragni tessono le tele. E l’uomo? Ecco, gli uomini parlano. La differenza è che noi siamo specializzati nel linguaggio, esattamente come i ragni sono specializzati a tessere la tela. Quindi devo chiedermi: tutto ciò ha conseguenze diverse? Certo che sì, però non è che abbia un valore diverso. È solamente nei nostri termini valutativi e particolari in quanto speciali e contingenti. Un pezzettino di storia evolutiva, che è quella che conosciamo noi, è minima. Sul lungo periodo non è detto che noi saremo qui e che i ragni spariranno: è più probabile il contrario.

Viste le sue ricerche, a questo punto, vorrei porle una domanda più specifica. Ad esempio, qual è la differenza – dal punto di vista cerebrale – tra il pulcino e l’uomo?  

Fino a non molti anni fa esisteva un punto di vista molto diffuso in neuroanatomia. Mentre nell’uomo – e nei mammiferi in generale – c’è una corteccia, questa struttura non esiste nel cervello degli uccelli. Da questo “dogma” deriva l’insensata assunzione che gli uccelli erano meno intelligenti dei mammiferi. In realtà, le persone memorizzano allo stesso modo di pesci e rettili. Pochi sanno che i mammiferi sono comparsi prima degli uccelli, quindi gli uccelli dovrebbero trovarsi all’ultimo posto in termini di comparsa temporale. Questo, però, è totalmente irrilevante. Quello che è interessante, invece, è che questo tipo di dato neuroanatomico confliggeva chiaramente con i dati di tipo comportamentale. Agli studi di psicologia comparata e di etologia sembrava strano che un sacco di uccelli – soprattutto i corvidi e i pappagalli – avessero capacità del tutto confrontabili a quelle dei mammiferi, talvolta superiori a quelle di uomini e scimpanzè. Allora si è cominciato a pensare che ci fosse un fondamentale errore di base. Quella che noi definiamo corteccia è semplicemente lo strato più dorsale e superficiale del cervello, quello più vicino al cranio. La corteccia, effettivamente presente nei mammiferi, possiede una struttura molto particolare, composta da sei lamine posizionate una dopo l’altra. Si tratta di una specie di segregazione tra corpi cellulari. Se consideriamo il cervello di un uccello, non troviamo una struttura come la corteccia: nello strato più superficiale neuroni e fibre sembrano ammassate, non hanno una struttura a lamine. La struttura che osserviamo è formata da “bolle” in cui si concentrano i neuroni e le fibre che connettono queste “bolle” sono relativamente corte. Quindi, sono due tipi di architetture diverse. Quello che abbiamo capito è che, nonostante la differenza architetturale, si tratta comunque di una corteccia a tutti gli effetti, la cui struttura svolge le stesse funzioni sia negli uccelli sia nei mammiferi. Questa scoperta ci mostra due aspetti. Prima di tutto, ci sono molti modi per costruire un cervello che funziona bene da un punto di vista strutturale e l’opzione laminata non è l’unica possibile. In secondo luogo, ogni tipo di architettura ha i suoi vantaggi e svantaggi, ma questi devono essere piuttosto sottili. Probabilmente certe funzioni cognitive vengono favorite da una struttura laminata, mentre altre da una struttura nucleare. Quindi, per rispondere alla tua domanda, ritengo che ci sia tutta una parte riguardante i meccanismi di base, i processi di memoria e di problem-solving che non presenta fondamentali differenze tra uomo e pulcino, perché il cervello di tutti i vertebrati è identico. Come sostengo nel mio ultimo libro, le differenze che si osservano nel numero assoluto dei neuroni si riflettono negli archivi di memoria. Non nei processi di base del pensiero, che probabilmente sono identici in tutti i vertebrati, ad eccezione delle specializzazioni adattative (come il linguaggio negli uomini). Comunque, a prescindere da queste specializzazioni adattative, la dotazione di base è fondamentalmente la medesima. Una cosa stupefacente emersa in questi anni riguarda proprio la questione del numero di neuroni delle specie animali. Spesso si afferma che il cervello umano contenga 10×108 neuroni. Tuttavia, la collega Suzana Herculano-Houzel non riusciva a trovare conferme nella letteratura scientifica. Tale stima approssimativa si basava sul metodo classico: si tagliava il cervello a “fettine”, si contava ogni fettina e poi si estrapolava il numero di neuroni. L’estrapolazione rischiava di essere molto imprecisa: la densità di neuroni, infatti, può variare a seconda della “fettina” considerata. Per risolvere questo problema, Herculano-Houzel inventò un metodo per contare con precisione il numero di neuroni per gli animali. Il metodo consiste nel creare una specie di “zuppa” di neuroni, in cui la membrana cellulare viene tolta: rimane solo il nucleo. Il tutto viene scosso per ottenere una soluzione isotopica, cioè con la stessa densità in tutte le posizioni. Infine, vengono contati i neuroni. Secondo Herculano-Houzel, ne abbiamo 86 miliardi. Le sorprese sono comparse considerando il cervello degli altri animali. Il pollo, ad esempio, ha un cervello volumetricamente piccolo. Tuttavia, se consideriamo la densità di neuroni per unità di peso – confrontando, ad esempio, un grammo di cervello di pulcino e un grammo di cervello di scimmia – scopriamo che il cervello del pennuto ha il doppio dei neuroni del cervello della scimmia. Molto piccoli e compatti: soluzione ingegneristica per unire la leggerezza, funzionale ai polli, con capacità cognitive elevate.

Prima ha detto che non ci sono differenze assolute nel modo in cui pensano uomini e animali; ha inoltre detto che da un punto di vista cerebrale sono piuttosto simili. Allora le chiedo se una differenza possa emergere a livello mentale. In altre parole, c’è differenza tra il cervello e la mente?.

Per me la mente è semplicemente quello che il cervello fa. Il concetto di “mente” non dovrebbe essere usato come sostantivo, ma solo come verbo, cioè “mentare”: non esiste un’entità “mente” distinta e separata delle funzioni cerebrali.

Il motivo per cui ero riuscito a convincerla a fare questa intervista riguardava l’articolo che lei aveva scritto sul libro di Damasio. Damasio parla di una caratteristica che accomuna gli esseri viventi, quindi le volevo chiedere di spiegare questa caratteristica e esprimere la sua opinione a riguardo.

Il suo punto di vista parte dal concetto di omeostasi, definitorio per gli organismi biologici. L’omeostasi è il meccanismo che sarebbe alla base della vita. Per me, da recensore, che cosa sia e che cosa voglia dire esattamente rimane un mistero. Comunque, sottoscrivo pienamente la rilevanza che Damasio attribuisce ai sentimenti. Il nostro sistema cognitivo è diviso in due classi, due categorie. Le funzioni “coscienti” del cervello si formano nella mente e siamo liberi di accedervi; altre funzioni – che sono la gran parte – non sono accessibili alla nostra coscienza. Queste ultime agiscono come una specie di pilota automatico e non riguardano – come si è pensato a lungo – le cose più semplici, come i riflessi. I meccanismi mentali inconsapevoli sono collegati a processi cognitivi più sofisticati: quando facciamo dei ragionamenti, spesso non ne abbiamo davvero l’accesso. Abbiamo una specie di accesso superficiale cosciente; per tutto il resto, c’è un lavoro interno di cui non abbiamo consapevolezza. Pensiamo, banalmente, a cosa accade quando facciamo un calcolo matematico: abbiamo appreso un certo algoritmo a scuola, ma nessuno di noi sa che cosa stia accadendo dentro la “scatola nera”. In alcuni casi questa opacità è particolarmente evidente. Spesso colleghi da altre discipline lamentano il fatto che è difficile stabilire la differenza tra coscienza e consapevolezza. In realtà, noi sappiamo perfettamente cosa sia la coscienza. Essa è la consapevolezza, è sentire qualcosa, è provare qualcosa. Ci accorgiamo della natura dell’esperienza nelle circostanze in cui essa non c’è. Le persone guidano l’automobile per tornare a casa e per tutto il tragitto percorso non sono state consapevoli di una serie di azioni che hanno fatto. Durante le conferenze, quando faccio notare agli ascoltatori che si trovano seduti, questi iniziano a percepire il proprio corpo appoggiato su una superficie. Quella sensazione viene elaborata sensorialmente, ma non si trova nella loro coscienza d’accesso, nella loro esperienza fenomenica. Perché non abbiamo il pilota automatico perenne? È l’argomento dello “zombie filosofico”: facciamo tutto quello che è necessario, senza farlo apparire nel teatro della coscienza – come lo chiama Dennett -, cioè senza sentire alcunché. A cosa serve l’esperienza consapevole? Il miracolo è trasformare i fenomeni fisico-chimici in quella cosa che chiamiamo esperienza. E c’è un problema funzionale: se l’evoluzione biologica ha inventato questa cosa, ci deve essere una ragione importante, no?

Lei si è soffermato, nel suo articolo sul Sole 24 Ore, sul ruolo attivo dell’agente nel formare la conoscenza. Le chiedo, quindi, di spiegare questa posizione.

Nel libricino che ho scritto mi domando quando e perché è comparsa l’esperienza. Non so dire ancora niente sul contenuto dell’esperienza. Per me è importante la questione della sua natura e della sua origine. Secondo me, il momento della transizione da non-coscienza a coscienza è avvenuto quando, nel Cambriano, gli organismi hanno cominciato a muoversi in maniera attiva. Quando ci muoviamo in maniera attiva ci troviamo di fronte al problema di separare due modalità: sensazione e percezione, come le chiamava Thomas Reid, il filosofo della stimolazione. Dal suo punto di vista, l’esperienza indica una differenza tra quel che accade a me e quel che accade fuori. La luce che cade sulla superficie del corpo è stato l’evento che ha permesso la sensitività degli organismi, il primo stimolo come segno che c’è qualcosa là fuori. Oggi, nella gran parte delle circostanze, questa distinzione non è evidente, sono un tutt’uno. Tuttavia, esistono delle condizioni patologiche che mostrano in maniera chiara questa distinzione: ciò che accade a me è connotato affettivamente, è buono o cattivo, è esperienza o coscienza. Quello che accade fuori non è necessariamente accompagnato da questo aspetto di valenza, quindi possiamo riconoscere una cosa all’esterno senza esserne consapevoli: questo è quello che accade nella “vista cieca”. Penso che questo sia stato il momento più importante per la nascita della coscienza. Ipotizzo anche che ci sia un meccanismo che sostiene questo tipo di distinzione, il cosiddetto meccanismo di copia efferente. Consideriamo di stimolare tattilmente un verme: vedremo l’animale contorcersi, reagendo difensivamente. Niente di sorprendente. Ora, riposizioniamo il verme per terra: questo comincerà a muoversi e a strisciare, sarà stimolato tattilmente dalla terra. Nel primo caso l’animale era stimolato passivamente. Qualcosa può averlo toccato, oppure può essere il verme ad aver colpito qualcosa. Come viene realizzata questa distinzione fisiologicamente? Attraverso il meccanismo di feed forward: tutte le volte che mandiamo al cervello un segnale motorio, un secondo segnale in copia carbone – la copia efferente – viene inviato al sistema sensoriale. Un’informazione viene scartata perché viene prodotta dal nostro stesso movimento. Questa è la ragione per cui, ad esempio, non possiamo farci il solletico da soli.

Uexküll diceva una cosa molto simile riguardo alla percezione delle lumache...

Lui è stato uno degli anticipatori dell’idea di copia efferente. Alcuni suoi colleghi si ispiravano a lui senza citarlo. Si pensa che la ragione fosse politica perché erano sostenitori del nazismo, mentre lui era un oppositore del regime.

Quali sono i suoi ultimi lavori e a che conclusioni sta arrivando?

La gran parte degli attuali lavori in laboratorio – possibili grazie ai finanziamenti dell’UE – riguardano le basi neurologiche del numero. Stiamo studiando quella specie di stima della numerosità pre-simbolica e pre-verbale che sembra essere posseduta da moltissimi animali. E la stiamo studiando, in particolare, in un animale molto comune in biologia molecolare: il pesce zebra. Stiamo cercando di identificare i meccanismi nel cervello, dove e come vengono stimate le numerosità. Nel pesce zebra possiamo produrre linee transgeniche attraverso raffinate tecniche di editing genetico, silenziare o attivare dei geni specifici responsabili di alcune malattie del neuro-sviluppo come la discalculia. Nella seconda parte del lavoro sui numeri ci chiediamo se la sensibilità alla numerosità rifletta un processo di apprendimento o sia parzialmente pre-impostata nel cervello, richiedendo un’eventuale stimolazione animale. Per questo tipo di ricerca usiamo dei pulcini di pollo domestico: stiamo registrando dei singoli neuroni del cervello dei pulcini per vedere se troviamo già delle risposte al numero. Questo è quello che stiamo facendo.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi