Hooligans: Mathieu Kassovitz lo chiamava “L’odio”

Uno dei tanti cliché carissimi al mondo del calcio è quello per cui “non è solo un gioco”, una frase consumata, al punto da finire per perdere il suo vero significato, lo spirito originale – se così possiamo definirlo – sembrerebbe essersi perso da un po’. I social sono i nuovi bar, con molti più commentatori e molta meno sincerità: nessuno guarda la realtà in faccia, tutto viene romanticizzato nelle pagine che raccontano lo “sport più bello del mondo”, violenza compresa. Un gruppo di tifosi che si massacra diventa un ritratto degli ultimi martiri di uno sport ormai dominato dal Dio Denaro, l’ultimo campionato dilettantistico – dove ogni settimana un giovane arbitro viene aggredito – diventa il Carioca e così via. Riflettendo su questa ferocia totalmente gratuita, la prima associazione per molti sarebbe quella con la Malattia Inglese: gli hooligans, gente che darebbe – in senso letterale – la propria vita per la squadra che supporta. Ripercorrere la storia dei tifosi più “sfegatati” di sempre richiederebbe scavare fin troppo lontano, arrivando quasi alle radici del gioco stesso, quando tra fazioni locali si risolveva durante le partite, sul campo e non; l’esempio perfetto è quello dell’Old Firm Derby in Scozia, tra i cattolici del Celtic e i protestanti dei Rangers. La situazione nel Regno Unito è poi sfuggita di mano, giungendo al culmine tra anni ’80 e ’90: sono state tante le vittime e l’intervento da parte dell’organo statale è diventato poi necessario. L’approccio per stravolgere la situazione fu quello di “umanizzare i tifosi”, come possiamo leggere in Sport Policy and Politics, opera del duo Williams-Vannucci: via le grate tra campo e spalti e “safety over control”, c’è attenzione per la sicurezza del tifoso, ormai considerato come cliente, non c’è più un costante tentativo di controllo sull’hooligan, trattato in precedenza come una bestia. Oltre alla diversa concezione dell’elemento umano, ci ha pensato poi il digitale a stroncare il numero di tifosi che in precedenza osavano spingersi in trasferte da delirium tremens; molti preferiscono l’esperienza da pub, non ci si accalca più di fronte allo stadio, c’è chi ancora rimane a casa con il proprio servizio streaming o – se si parla di big match – c’è sempre la possibilità di utilizzare maxi-schermi, anch’essi di certo non privi di rischi. I tifosi britannici hanno dato, a proposito, avvisaglie di essere tornati alle proprie cattive abitudini, tra gesti violenti e un tentativo sistematico di propagazione del caos, un po’ come durante la scorsa finale di Champions League, tra Real Madrid e Liverpool, durante la quale i brutti ricordi dell’Heysel sembravano aver trovato un degno rivale: i tifosi Reds si sono ammassati senza biglietto al botteghino, non hanno chiaramente imparato la lezione storica del massacro belga, ma questa volta – “almeno” – non si è trattato di violenze tra gruppi organizzati, a differenza di quanto andato in scena a Napoli nel ritorno degli ottavi di finale di Champions, tra partenopei ed Eintracht Frankfurt. Il capoluogo campano è stato assaltato dai tifosi tedeschi, capaci di provocare una vera e propria guerriglia con quelli locali, finendo per compiere danni per due milioni di euro. La differenza sostanziale di questo caso dagli scontri tra, per esempio, tifoserie proprie di un derby, quindi con un’idea ben chiara e un motivo quasi storico, è che gli ultras di entrambe le parti sono rinomati per le idee poco ortodosse: i giornali titolavano di una guerra tra fazioni, con supporto di altri gruppi organizzati, tifosi di altre squadre ma legati al Napoli o al Frankfurt per dei gemellaggi. Il tema dei gemellaggi è importante per tracciare una linea tra hooligans e ultras, termini impropriamente usati allo stesso modo: gli hooligans non hanno un target specifico, sono per la loro squadra e contro il resto del mondo, gli ultras hanno creato quella che in sociologia sarebbe chiamata una sottocultura, hanno etica e morale proprie, sono poi più precisi nell’indirizzare le proprie azioni, ma le conseguenze rimangono comunque catastrofiche, come la morte dell’ultrà napoletano Ciro Esposito per mano di un romanista, prima della finale di Coppa Italia 2014, giocata tra Napoli e Fiorentina.  

La problematica della violenza che ruota intorno agli stadi non è solo una responsabilità localizzata al singolo stato, c’è un numero tale di gare sul piano europeo da avere gruppi di tifosi che si muovono ogni giorno da un paese all’altro, con più foga che per le trasferte nazionali, in parte considerate come filler di una stagione calcistica, in parte per il controllo migliore che le polizie nazionali possono avere sui propri cittadini, senza finire in querelle internazionali per la giurisdizione sui colpevoli. Proprio per questa impossibilità di arrestare il fenomeno, tornato in auge nelle discussioni ai piani alti europei, per via dei sempre più numerosi scontri tra polizia e tifosi o tra tifosi e tifosi stessi, è bene cercarne una possibile causa, capendo dove è necessario intervenire; un ottimo spunto è quello offerto dai tre ricercatori polacchi Antonowicz-Kossakowski-Szlendak. I tre sottolineano come la violenza nello sport rifletta il periodo storico che si evolve attorno, un po’ come per l’arte e la musica, gli ultras sono quindi definiti come “ragazzi persi nella dinamica della trasformazione della società”, un’etichetta ben esplicativa ma comunque non adeguata a giustificare le loro gesta. Tutte le azioni mosse potrebbero essere proprio frutto di una rabbia – che Mathieu Kassovitz aveva scelto di chiamare “odio”: un cocktail di sentimenti negativi e frustrazione che, mischiato con le droghe – elemento imprescindibile in tanti eventi sportivi secondo numerosi report – non possono che portare a gesti violenti. Queste azioni fungono poi da termometro per l’agitazione sociale nelle curve europee: le statistiche riportano che i crimini negli stadi abbiano toccato dei picchi importantissimi dopo la caduta del Muro di Berlino nei paesi influenzati, così come dopo il lockdown da Covid-19 abbiamo avuto un salto indietro nel numero di violenze, che erano in discesa dal 2010; sono entrambi eventi chiave nella nostra timeline, con chiare conseguenze sulle relazioni tra persone. Numeri alla mano – i dati sono raccolti dal governo inglese stesso – dalla stagione 2019/2020 a quella 2021/2022, nel Regno Unito, i numeri sono cresciuti in maniera vertiginosa: 2500 arresti non si vedevano dal 2013, il daspo – divieto di ingresso alle partite – è tornato ai numeri del 2018, senza considerare la stagione 2022/2023 perché ancora in corso, ma i numeri attuali non lasciano ben presagire. Tanti tifosi si augurano di poter rivivere ancora una volta gli anni ’80 calcistici, così ricchi di aneddoti, momenti d’oro e campioni, ma forse di quel periodo abbiamo ripreso solo la parte peggiore: non succede solo in Premier League, l’Europa ha avuto una ricaduta di English Disease.

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