“Peter Pan o il bambino che non voleva crescere”- riflessione sul libro di James M. Barrie

“I pasti per finta non sono un’idea di Wendy, anzi è rimasta piuttosto stupita nello scoprire, al suo arrivo, che Peter non sapeva che ne esistessero di tipo diverso, e nemmeno ora è sicura che mangi quelli di tipo diverso, anche se nessun altro sembra apprezzarli più di lui. Esige che i pasti per finta debbano essere consumati con gusto, e la sua banda fa il possibile per obbedire agli ordini.”

L’angolo del bigliettino dove è scritta questa frase spunta fuori dal libro che sto leggendo: “Peter Pan o il bambino che non voleva crescere” di James M. Barrie. Il libro contiene il testo originale, quello che Barrie scrisse in prima battuta e che successivamente modificò più volte per adattarlo alla rappresentazione teatrale. 

Il bigliettino lo ha scritto un mio amico, dicendomi che gli ricordavo Wendy. Lui, invece, si sente come Peter Pan: ama mangiare pasti che non esistono, e commentare spettacoli che non sono mai stati messi in scena. Eterno bambino, vuole continuare a giocare finché la mamma non lo costringerà a spegnere la luce. 

Quando mi regala il libro, forse, vuole dirmi che per lui io sono stata parte di quel suo emisfero, che non c’è, non è tangibile, ma è più bello del mondo reale. Così facendo però decide di scontrarsi con la paura che il protagonista del dramma sceglie di non affrontare: la possibilità di rimanere deluso.
Io, infatti, non sarò mai all’altezza della Wendy dei suoi sogni.

In effetti in Peter Pan , ogni volta che qualcuno dice di non credere alle fate, ne muore una: le fate esistono perché i bambini ci credono. Ecco, io non voglio dissipare le illusioni del mio amico. Non voglio che smetta di credere che la Wendy che ha immaginato esiste. Eppure, nel momento in cui ammette di aver vissuto nel “mondo che non c’è”, in parte , lo distrugge. 

Visto da questa prospettiva, il “mondo che non c’è” somiglia molto a una prigione. Una prigione meravigliosa dove tutto è possibile, ma pur sempre una prigione. Questo mondo ha, infatti, un carattere ricattatorio: ti costringe a sé e, una volta che ne sei uscito, non vi puoi più rientrare.  

É per questo motivo che quando mi mostra il biglietto mi commuovo, ma non so bene cosa dirgli. Tutte le osservazioni che potrei fare rischierebbero di sembrare poco in armonia con il suo gesto, troppo imperfette e reali … insomma, lo rovinerebbero.
In un primo momento, non sono in grado di capire cosa intenda il mio amico con queste parole. Come credo facciano un po’ tutti, tendo a rendermi protagonista della sua storia e a pensare che stia cercando di dirmi qualcosa su di me, ovvero che anche io vivo nel mondo della fantasia.
Invece, per lui, io sono l’elemento che lo concilia con la realtà, come Wendy per Peter Pan.
Questo lo scopro solo dopo qualche giorno, quando inizio a leggere il libro e nella prefazione c’è scritto che Wendy è per Peter un po’ come un totem della maternità e dell’affetto e si identifica con il buon senso.

Allora, mi sorge un dubbio: a quale dei due personaggi assomigliamo di più?

Rispondere a una domanda del genere è difficile perché nella realtà la connotazione assoluta dei protagonisti non esiste ma vive solo nella narrazione, nel “tipo ideale” che Barrie vuole descrivere attraverso il personaggio.
Di conseguenza, né io né il mio amico siamo del tutto Wendy o del tutto Peter Pan. 

Pertanto, sembra più corretto dire che “il bambino che non vuole crescere” è, in maniera latente e con intensità diverse, parte di ognuno di noi: concerne quel lato dell’immaginazione che ci aiuta ad evadere dalla complessità del reale. 
In questo spazio della mente fatto di “rappresentazioni”, dove il nostro bisogno di completezza è appagato, i personaggi iniziano e finiscono negli atti della messa in scena e ogni cosa ritrova la sua conclusione.
Lo stesso avviene nei libri, o nei film. 
La vita, invece, spesso è più difficile: non tutte le cose hanno un inizio e una fine. Ciò nonostante, la nostra mente, ma anche quella degli altri, ci può aiutare a costruire alcuni dei pezzi mancanti della nostra storia.

Rinunciare alle fantasie, per vedere il mondo come un posto dove non c’è spazio per l’immaginazione, appare quindi sciocco tanto quanto rifiutarsi di crescere. Forse le due cose hanno persino la stessa natura: tutte e due scaturiscono da una visione bambinesca che ci porta a leggere il mondo in bianco e nero.
Invece, diventare grandi forse significa saper conciliare i due mondi, saper cogliere le sfumature delle cose, distinguere la realtà dalla fantasia senza però rinunciare a nessuna delle due.
A vent’anni, questa può sembrare un’ impresa eroica. Eppure è necessaria per poter conservare quelle aspettative verso il futuro che ci permettono di immaginarlo come costellato di tante “isole che non ci sono”, rimanendo però ancorati alla nostra nave che, benchè talvolta somigli più ad una zattera, è l’elemento che ci tiene a galla.

Come tutte le altre, questa è solo una conclusione momentanea, ma vi prometto di aggiornarvi a breve.

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