Come percepiamo il mondo?

Presentiamo la prima parte dell’intervista al professor Alfredo Paternoster, professore di filosofia della mente e del linguaggio ed esperto di intelligenza artificiale e informatica. In questo articolo tratteremo principalmente come avviene la percezione, se esiste una mediazione o se attingiamo direttamente a un mondo puramente oggettivo. Verso la fine cercheremo di comprendere qual è il ruolo del cervello e dell’ambiente.

Buongiorno, vorrei iniziare dal fatto che noi stiamo comunicando attraverso uno strumento tecnologico, il computer. E quindi c’è un mezzo che permette la nostra comunicazione. Le chiedo cos’è la percezione? Come avviene la percezione quando c’è un mezzo che si frappone nella comunicazione?

Queste sono domande molto difficili. Beh, la percezione è, in prima istanza, la raccolta d’informazioni dal mondo tramite dei sistemi e dei sottosistemi specializzati che si sono evoluti per questa ragione; il fatto che esista un mezzo che apparentemente potenzia o modula il tipo di relazione informazionale senza farci uscire dall’ambito del fenomeno percettivo. C’è una dicotomia importante da considerare: quella tra realismo diretto e realismo indiretto o anti-realismo. In poche parole, potremmo considerare il realismo diretto come la tesi secondo la quale ciò che ci è dato dall’esperienza è il mondo stesso. Per il realismo indiretto, invece, abbiamo solo una rappresentazione del mondo e quindi non lo possiamo percepire pienamente. Quindi, nel caso della percezione attraverso strumenti artificiali, verrebbe da pensare che si tratti di una classica situazione di realismo indiretto. In un certo senso è così perché ci sono degli strumenti artificiali e si tratta di una situazione indiretta. Ci sono dei media rappresentazionali tra me e lei in questo momento. D’altra parte, lo scopo del mezzo è proprio quello di facilitare e potenziare la nostra interazione. Quindi si potrebbe sostenere, da un altro punto di vista, che si tratti comunque di una relazione diretta. È una cosa su cui non avevo mai ragionato molto, ma è un tema interessante.

A questo punto le chiederei, quindi, se noi percepiamo direttamente la realtà o se ci sono delle mediazioni che filtrano la nostra percezione della realtà.

Partiamo dalla definizione di mente enattiva. Per descrivere il fenomeno della mente chiamo in causa Shaun Gallagher, che parla di mente enattiva come filosofia della natura. Il suo ragionamento mi sembra interessante: i processi mentali emergono da cervello, corpo e ambiente. Quindi, cervello, corpo e ambiente costituiscono nel loro insieme gli stati mentali che emergono spontaneamente da questo sistema. Ed è una questione piuttosto problematica e oscura a mio modo di vedere.

Si tratta di un problema di definizione?

No, intendo dal punto di vista della chiarezza delle tesi. Cosa significa che gli stati mentali emergono dal sistema cervello-corpo-ambiente? Proprio la relazione tra queste tre componenti risulta problematica e difficile da affermare. Senza avventurarci in interpretazioni particolari, immaginiamo di capire a livello pre-teorico le nozioni di cervello, corpo e ambiente. Comunque, quando si parla di emergentismo, spesso si parla anche di olismo, perché le proprietà emergenti sono proprietà non riducibili alla combinazione meccanica delle proprietà sottostanti. Quindi, quando ci sono delle proprietà emergenti, il tutto va al di là della somma delle parti. C’è questa impressione che le proprietà mentali costituiscano qualcosa che va al di là, appunto, della loro base. Seguendo Gallagher, l’olismo non si può operazionalizzare, non si può trasformare in una teoria scientifica, in tutto e per tutto, e quindi è più corretto e appropriato vedere la mente enattiva come una filosofia della natura. La mente enattiva afferma che l’ambiente in cui viviamo è una costruzione congiunta della mente e del mondo stesso – tesi che ha qualche rimando kantiano. Per concludere, la mente enattiva è una sorta di filosofia della natura che ha la sua tesi centrale in questa idea di costruzione. Non si può comprendere la natura ignorando i processi attraverso i quali noi la costruiamo. Ma da dove sono partito per arrivare fino a qui? Mi ripeta la domanda iniziale…

Si, il rapporto tra realismo diretto e indiretto… Se noi, secondo lei, possiamo percepire direttamente la realtà – e quindi accedere all’oggettività attraverso i nostri sensi – oppure no. 

Questo è un falso problema perché non esiste la realtà oggettiva per come noi comunemente la intendiamo. Non c’è un mondo che trascende l’ambiente-mondo, che possiamo chiamare “costruito”. Questa idea del falso problema è molto ricorrente nell’enattivismo perché ha un’affiliazione storica con il pragmatismo americano. Uno dei tratti caratteristici del pragmatismo americano è il rifiuto di tutti i dualismi (cioè la divisione della realtà in due parti completamente inconciliabili), come mente/corpo, mente/mondo, soggetto/oggetto, fatti/valori e altri ancora. Mi riferisco in particolare a John Dewey. Io non mi considero integralmente enattivista, anche se alcune idee mi piacciono molto. Per me quello del realismo diretto e indiretto è un problema assolutamente aperto. Uno dei problemi filosofici più classici e complicati perché se si crede – come credo io – che esista un mondo oggettivo, esterno, indipendente da noi e datoci attraverso la mediazione dei sistemi sensoriali, non si capisce come il realismo diretto possa trovare conferme. Per questo credo nel realismo indiretto. Quando io ho un’esperienza percettiva – come quella del tavolo rotondo che si trova alla mia sinistra – è poco credibile pensare che ciò che vedo sia un simulacro del tavolo, una rappresentazione del tavolo e non il tavolo in sé. Possediamo delle intuizioni realiste dirette che dovremmo rispettare. Tuttavia, anche la necessaria mediazione dei sistemi sensoriali è altrettanto indiscutibile: il problema resta irrisolto e non so come sia possibile uscirne.

[Suona l’orologio a cucù]

Mi scuso per il suono del cucù…

Ah, non ci avevo fatto caso… Questo è un esempio di coscienza, di coscienza fenomenica, ma non di accesso, come si dice. Vale a dire, il cucù l’avevo sentito, ma non intellettualmente. Non me n’ero accorto.

Quindi lei ha filtrato delle informazioni e non altre. Aveva fatto una selezione?

Sì, diciamo che i processi percettivi di basso livello avevano perfettamente percepito il cucù, ma in quel momento la mia attenzione era focalizzata altrove, cioè su quello che stavo dicendo; quindi, l’informazione non è emersa ai livelli più alti. Però è rimasta lì in qualche modo; tant’è vero che quando lei si è scusato per il cucù, io mi sono reso conto a posteriori che l’avevo sentito.

Wow, interessante.

Questa è una delle cose più affascinanti della coscienza.

In che modo vengono selezionate le informazioni che emergono dalla coscienza e quelle che invece rimangono dormienti?

Beh, questa non è una cosa che sappiamo. Esistono dei sofisticati modelli della coscienza. Forse uno dei modelli più popolari è quello di Dennett, che sostiene che la coscienza costituisce la “fama” del cervello. L’informazione che emerge è quella che riesce maggiormente a diffondersi a livello cerebrale.

Quindi, restando sul rapporto tra mente e cervello, si può ridurre una persona al suo cervello?

La prima impressione potrebbe essere quella che molti neuroscienziati accetterebbero, mentre la grande maggioranza dei filosofi rifiuterebbe. In realtà, discutendo insieme questa opposizione così forte si smusserebbe. Non sono così convinto che molti neuroscienziati la metterebbero su questo piano. E personalmente, per quel che può contare, non penso che la persona si riduca al suo cervello: ritengo che sia un errore categoriale. Ci sono dei predicati che si possono attribuire e delle proprietà che si possono predicare nelle persone, ma non dei cervelli. Di conseguenza, ridurre le persone al loro cervello è un errore categoriale. Bermúdez, un bravo filosofo di origine colombiana, definisce il problema dell’interfaccia. Il problema dell’interfaccia è il problema di stabilire il rapporto tra le teorie “ingenue” della mente – cioè quelle del senso comune – e le teorie scientifiche della mente, espresse in un vocabolario neurofisiologico, psicologico o filosofico. E questo, di nuovo, è un problema irrisolto. Il cervello determina sicuramente in parte i nostri stati mentali. Tuttavia, alla base del concetto di persona c’è poi il concetto di io, il concetto di self. Io e alcuni colleghi, tra cui Massimo Marraffa e Michele Di Francesco, sosteniamo che il self sia un processo di cui non siamo nemmeno consapevoli, un processo psico-biologico che continua a svilupparsi nel corso della vita di una persona. Il self non è una sostanza o un’entità, quasi trascendente, bensì un processo psico-biologico che ha una funzione principalmente – anche se non esclusivamente – autodifensiva. Si tratta dell’ansia di perdere la nostra unità. Dietro al concetto di persona c’è il concetto di self, e il concetto di self non è riducibile a uno stato mentale semplice. C’è un processo complesso che mette in gioco delle componenti biologiche, psicologiche e di esperienza personale. Credo che basti questo per poter dire che una persona non si può ridurre al suo cervello.

Quindi, tornando magari alla teorie enattiva, qual è il rapporto che c’è tra l’azione, la mente e il cervello?

Questo è un indice, una spia del fatto che non tutto è chiaro nell’approccio enattivista. Gli enattivisti non sono dei riduzionisti perché – se proprio vogliamo dirlo – nella triade cervello-corpo-ambiente il cervello non è l’elemento più importante di tutti. Certamente senza il cervello non ci sarebbe nulla, ma l’enfasi degli enattivisti viene posta maggiormente sull’ambiente. Nelle pubblicazioni dei filosofi della scienza cognitiva si parla spesso di espansione verticale ed espansione orizzontale. L’espansione verticale è quella per cui – radicalizzando la tendenza riduzionistica del funzionalismo filosofico degli anni Settanta – gli stati mentali dipendono ontologicamente dagli stati cerebrali e quindi non si può studiare la mente facendo astrazione dagli aspetti cerebrali. L’espansione verticale comporta uno sviluppo e un raffinamento della neuroscienza. È un tentativo di fondare una neuroscienza cognitiva o una neuroscienza computazionale, utilizzando modelli cerebriformi come le reti neurali. L’espressione orizzontale, invece, è quella della mente verso il corpo e l’ambiente, e raggiunge tesi estreme come quella della mente estesa, secondo cui la mente travalica i confini epidermici del corpo. Ecco, l’enattivismo appartiene a questa seconda proposta: più ambiente, più corpo, meno cervello.

Come fa a esserci più ambiente se alla fine le informazioni vengono rielaborate dal cervello?

Nella scienza cognitiva tradizionale mente e mondo sono sono due entità ben distinguibili. Per gli enattivisti, invece, la mente è immersa nell’ambiente e quindi non è mai possibile fare astrazione dall’ambiente stesso. Ce lo portiamo sempre dietro, anche senza rendercene conto. Da qui si sviluppa l’idea di sviluppare dei modelli che tengano conto di questo fatto. Tipi di ricerca basati sull’intelligenza artificiale – come la robotica situata o la robotica ambientale – sottolineano che molte volte non abbiamo bisogno della mediazione di rappresentazioni mentali per innescare il nostro comportamento. Un input sensoriale percettivo si traduce immediatamente in un nesso diretto all’azione, cioè in robot. Semplifico: quando il robot incontra un ostacolo, lo percepisce e corregge automaticamente la propria traiettoria in modo da evitarlo, senza farsi una rappresentazione dello spazio nel quale si trova a operare. La fonotassi è un esempio di questo fenomeno nel mondo animale. Le femmine dei grilli si dirigono automaticamente verso il maschio che canta meglio perché le oscillazioni create dal canto sono direttamente collegate alle zampette da organi effettori. Il grillo, quindi, opera senza rappresentazioni.

Quindi, non essendoci rappresentazione, manca la mediazione di cui parlavamo all’inizio? E quindi c’è un realismo diretto e si fa direttamente esperienza, agendo sul nostro ambiente e potendo agire anche su noi stessi?

Direi di sì. Nella misura in cui il soggetto è 0embedded, cioè immerso nell’ambiente, non è possibile fare un’operazione su un ambiente senza che in qualche modo l’organismo non sia coinvolto e viceversa.

Mi collegherei alla plasticità neurale per parlare del modo in cui il cervello viene influenzato dall’ambiente esterno.

Seguendo la versione modularista, pensata dalle scienze cognitive classiche, il cervello è organizzato per sub-aree con compiti specifici. Ci sono tante funzioni, ciascuna delle quali ha a disposizione un “pezzettino” di cervello per realizzarla. Secondo l’enattivismo, invece, parti del cervello smettono di svolgere le funzioni per cui erano predisposte per svolgere nuove funzioni.

La questione è un po’ nel mezzo: basta considerare il fatto che a fronte di gravi lesioni il cervello non recupera facilmente. Non riusciamo a prendere un pezzo di cervello e fare in modo che venga riutilizzato per una nuova funzione. La plasticità è rilevante perché l’interazione con l’ambiente modula le sinapsi: persone diverse avranno sinapsi diverse in relazione al tipo di esperienze che hanno vissuto. Tuttavia, affermare l’esistenza di una plasticità assoluta è fuorviante. Il cervello è plastico, ma entro certi limiti.

Per vederla da un punto di vista laterale, possiamo pensare a Damasio e alla sua teoria delle immagini che percepiamo. Lo scopo delle nostre capacità cognitive è quello di riorganizzare le immagini che provengono dal mondo esterno?

Sì, direi di sì. Damasio parla di immagini facendo riferimento a tutti i tipi di informazioni che possiamo ricevere dall’esterno attraverso i cinque sensi. La metafora è corretta: quelle che potremmo definire “rappresentazioni cerebrali” sono quelle che Damasio chiama “immagini”. Non è detto che siano immagini nel senso intuitivo del termine, perché molto spesso si tratta anche di immagini inconsce. Sembra quasi un ossimoro, ma se ne parla spesso in questi contesti.

Vorrei chiederle come si forma, secondo lei, la conoscenza. A partire da queste rappresentazioni, da queste immagini? E qual è la differenza tra conoscenza ed esperienza?

La percezione e l’esperienza percettiva sono all’inizio della conoscenza. Secondo il modello classico – che reputo generalmente incontestabile – l’esperienza ci consente di fissare delle rappresentazioni interne. Queste rappresentazioni sono delle strutture informative e non bisogna pensarle necessariamente come delle immagini: possono essere viste come schemi di “nuovo”, per chiamare in causa un concetto kantiano. Entra in gioco la memoria, naturalmente, perché la conoscenza è costruita, almeno in parte, anche da una serie di ricordi di esperienze passate.

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