L’età del caos

Alcuni sono tornati a parlare di terza guerra mondiale imminente, altri di terza guerra mondiale già in corso o, per citare Papa Francesco, una terza guerra mondiale a pezzi. Dopo l’ultimo, violentissimo episodio dello scontro tra Israele ed Hamas, ciò che è certo è che ormai da una decina d’anni, un po’ ovunque nel mondo vecchi conflitti si stanno riaccendendo e nuovi prendono vita. Dal Nagorno Karabakh alla Siria, dal Venezuela alla Libia, da Taiwan al Sahel arrivando all’Ucraina e all’ultimo tremendo episodio di questi giorni, ovunque si respira un’aria di corsa alle armi.

Difficile pensare che il mondo sia di colpo impazzito. Allora perché le armi tuonano e la diplomazia tace? Qualcuno direbbe che istituzioni preposte al mantenimento della pace, come l’ONU, l’UE ed altre non hanno mai parlato a voce particolarmente alta. Eppure, solo trent’anni fa – strano effetto pensare agli anni che passano – un intervento della comunità internazionale aveva dato una precaria stabilità all’inferno che erano stati i Balcani dopo la dissoluzione della Jugoslavia. Senza scendere nei dettagli di quelle vicende intricate, dopo bagni di sangue e orrori di ogni genere un intervento risolutivo aveva costretto i vari attori al tavolo dei negoziati. Allora perché la comunità internazionale oggi sembra afona?

Forse perché quella comunità internazionale non esiste più. Era una comunità internazionale in cui una certa parte del mondo, l’Occidente, aveva a disposizione uno strapotere tale di mezzi e capacità da imporre con relativa facilità un accordo. Le varie forze schierate sul terreno dalla NATO prima e dall’ONU poi, tra Kosovo, Libano ed altre regioni ancora segnalavano una capacità dell’Occidente, e della sua principale potenza – gli Stati Uniti – d’imporre una pace, discutibile sicuramente, ma che pace era.
Quella che gli esperti delle relazioni internazionali chiamerebbero pace egemonica.

Dov’è finita questa pace, o meglio, la forza dietro di essa? C’è ancora, intendiamoci – se a Taipei non sventola la bandiera della Repubblica Popolare è per questo, lo stesso valga per la bandiera russa su Kiev.
Si potrebbe allora dire che gli Stati Uniti non hanno perso il loro posto al vertice. Ciò che è successo è che i suoi inseguitori, chi ambisce al podio, hanno ridotto di molto le distanze. Questo ovviamente ha significato, per miliardi di persone, l’uscita dalla povertà, l’accesso all’acqua potabile e ad una vita dignitosa. Ma allo stesso tempo ha significato l’aumento della forza di tanti Paesi, ognuno con la propria storia e le proprie ambizioni. È calato, in poche parole, il potere relativo dell’Occidente, che nel bene e nel male si era imposto per anni come il poliziotto globale – il saggio ritiro americano da un’Afghanistan divenuto ormai indifendibile ne sia una prova.

Se ancora nel 2011 l’Occidente interveniva nei conflitti arabi a supporto di forze più o meno democratiche; se ancora nel 2013 la Francia era in grado di levare l’assedio jihadista a Timbuctu, in Mali; se ancora l’Italia era in grado di guidare una missione per stabilizzare l’Albania negli anni Novanta, o il Libano nel 2006, oggi questo è sempre meno vero. Nuove potenze, agguerrite e revisioniste, emergono in varie parti del globo – da una Pechino determinata ad imporsi sulla scena globale, ad un’India in pieno risorgimento nazionale (e nazionalista), passando per una Russia desiderosa di riaffermare l’impero perso con la fine dell’URSS, finendo con la Turchia e l’Iran, quest’ultimo attore fondamentale in questi anni e nelle vicende israeliane.

Si è chiuso insomma il momento unipolare dell’Occidente. Se questo sia un bene o un male può ricevere varie risposte, a seconda delle persone cui si chiede. Ciò che però è incontestabile è che, con la chiusura di questo periodo, conflitti tenuti a bada dalla forza europea ed americana si sono riaperti, e stanno incendiando varie parti del mondo. Il solo fatto che la Cina possa ambire al primo posto ci dà l’idea di quanto siano cambiati i tempi rispetto alla Cina che vent’anni fa entrava, debole, nel WTO.

Da questa analisi, e da questi ormai dieci anni di caos, possiamo trarre un paio di conclusioni.

Come Occidente, che potenze revisioniste sono pronte ad imporre i propri interessi a scapito dei nostri – e qui banalmente parliamo di avere il gas per tenere accese le lampadine, o il grano per poter fare la pasta, senza addentrarsi nei commerci globali che reggono l’economia del nostro Paese. Allora, diventa necessario collaborare con tutti, senza stare troppo a guardare alle credenziali di questi Paesi, per contenere minacce che avanzano su tutti i fronti, dal cambiamento climatico al terrorismo passando per potenze determinate ad imporre nuovi e brutali imperi.

Come Europa, o siamo in grado di unirci e spalleggiarci tra noi, o saremo destinati a veder erodere sempre più la nostra capacità di trattare a livello globale. Su molti temi, pensiamo alla difesa della privacy e dell’ambiente, l’Unione Europea è già una potenza regolatrice, e vari passi avanti sul voto all’unanimità ci danno una crescente capacità di coordinamento – ma in un mondo sempre più caotico, non si può essere erbivori se circondati da carnivori.

Infine, come Italia, che nel Mediterraneo è e che del Mediterraneo vive – che siano commerci, pesca, risorse naturali – per noi si è aperto un periodo ricco tanto di pericoli quanto di opportunità. Il Mediterraneo è tornato ad infiammarsi, e se ad esempio la fine dei flussi gasieri dalla Russia è sicuramente un’opportunità di diventare il nuovo polo energetico dell’Europa con i flussi arrivanti dall’Africa, altri flussi, quelli migratori ad esempio, pongono gravi rischi alla tenuta della nostra pace sociale. Basti ricordare le proteste del 2016/2017, con cittadini che sfidavano le forze dell’ordine e costruivano barricate.
In assenza del poliziotto globale americano, impegnato in Asia e con l’Ucraina, altre potenze colgono la nostra difficoltà ad accettare questa nuova era di tensioni e scontri – il legittimo dibattito italiano sul pacifismo ne sia una prova – e sono pronte a occupare il nostro vicinato e ad erodere i nostri spazi e le nostre risorse. Allora, così come per l’Europa, anche per noi è giunto il momento di capire che il ritorno della Storia impone scelte difficili ma necessarie, come essere dotati di tutti i mezzi per fronteggiare minacce crescenti e cogliere le opportunità che si creano.

Benvenuti nell’età del caos

Indro Furlanetto

Studente del corso triennale in Studi Internazionali. Appassionato di relazioni internazionali, geopolitica e storia.

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