Ai limiti del conoscere

«Considerate la vostra semenza: 
fatti non foste a viver come bruti, 
ma per seguir virtute canoscenza»

Dante, Inferno XXVI, vv.118-120 

Perché iniziare un articolo così? Perché è dalle grandi personalità che si può trovare l’ispirazione; e così è successo anche a me per questo testo.
Tuttavia, non ci occuperemo direttamente di Dante, ma di ciò di cui egli parla in questa significativa terzina.
Anzi, vi dirò di più: parleremo del dialogo proficuo, seppur inconsapevole, tra Dante e Kant.

È il canto ventiseiesimo dell’Inferno: Dante incontra Ulisse, che gli racconta la sua storia. Il naufrago greco parla di come ha convinto i suoi compagni a continuare il viaggio oltre le Colonne d’Ercole e, per farlo, utilizza proprio le parole che sono riportate all’inizio del testo.
In primo luogo, il poeta fiorentino parla di «semenza» e invita i propri compagni a riflettere, a pensare alla loro origine, al seme da cui sono nati, quindi alle caratteristiche del proprio essere, della propria identità. Poi, nel verso successivo, spiega che la loro vera natura, che si cela nella profondità del loro essere in quanto uomini, è quella di non «viver come bruti». Dante, con quest’espressione, afferma che l’essere umano non deve abbandonarsi alle istintualità della propria parte più animalesca, né deve accontentarsi di un legame superficiale con il mondo che lo circonda.
A questo punto, sul piano del discorso ci si aspetta l’alternativa a questa non-vita dei «bruti», e, in maniera chiara e armoniosa, Dante conclude la terzina svelando in che cosa consiste la vera-vita: «seguir virtute e canoscenza». Ora è chiaro che ciò che si oppone alla crudezza della non-vita: da una parte, l’altezza della virtù che permette di elevarsi moralmente rispetto ai «bruti» e, dall’altra, la luminosità della conoscenza che rende possibile ai veri-esseri umani di creare un legame autentico col mondo e dare un reale significato a ciò che si conosce.
Ma la conoscenza di cui parla Ulisse è una conoscenza curiosa, che non ha limiti. Proprio per questo, infatti, egli è stato relegato da Dante nell’Inferno: per il poeta fiorentino, il grande eroe greco ha osato troppo, spingendosi oltre i confini della conoscenza ammessa, e così facendo, oltre a perdere la vita, ha agito anche in maniera peccaminosa. 

All’interno di queste poche righe sono presenti spunti che la filosofia coglie e che aveva già colto molti anni prima, sui quali moltissimi autori hanno scritto e presentato molte riflessioni.
Spesso si è cercato un modo per conciliare le tematiche che emergono dal passo dantesco: l’antropologia e l’ontologia dell’essere umano, il problema dell’etica e il paradigma della conoscenza. A riuscire in maniera sistematica e soddisfacente nell’intento, mutatis mutandis, è sicuramente Immanuel Kant. Proprio questo autore riesce, in maniera estremamente raffinata, a spiegare l’importanza del limite della conoscenza.
Dante e Kant, pur facendo riferimenti a limiti diversi, parlavano di orizzonti oltre i quali non era consentito andare. Anzi, si potrebbe dire che, in maniera molto simile per entrambi, questi limiti avevano un ruolo fondamentale anche in merito del problema dell’etica, all’interno di un paradigma cristiano per il primo e di uno laico-razionale per il secondo.
Infine, sembra che anche il ruolo dell’essere umano e della sua natura non possa essere tralasciato; anzi, è proprio grazie allo statuto che viene dato ad esso da Kant o da Dante che in certa misura segue tutto il discorso. 

Allora, come suggerisce Dante stesso consideriamo la nostra “semenza”. Se si pensa a come Kant concepiva la semenza umana, bisogna in primo luogo concentrarci sulla centralità della dignità dell’essere-umano, connessa indissolubilmente con la sua ragione (Vernunft, in tedesco). Si potrebbe dire che tutto il lavoro del filosofo tedesco viene compiuto per stabilire in maniera rigorosa e inappellabile la fondatezza della dignità, che a sua volta si fonda sulla libertà. Quest’ultima, infatti, emerge inevitabilmente dalle sue riflessioni più generali riguardo la conoscenza e l’oggetto della conoscenza.
Ciò che rende questo autore così affascinante è il fatto che egli riesca a costruire una struttura nella quale tutto è perfettamente posizionato e tutto porta proprio alla possibilità della dignità umana.
Ma come riesce Kant in questa impresa che sembra così titanica? Semplice: pone dei limiti alla conoscenza. Questo dovrebbe farci pensare subito all’Ulisse di Dante, che invece, di limiti non ha voluto saperne.

Tornando al filosofo di Königsberg, nel suo scritto Critica della ragion pura (pubblicato nel 1781 e una seconda edizione nel 1787) egli racchiude il primo passo che permette l’apertura del varco da cui passerà poi la libertà. Ciò che di più è sorprendente è che questa feritoia è permessa proprio da alcune considerazioni gnoseologiche. 
Kant in quest’opera vuole che la ragione «istituisca un tribunale che la garantisca nelle sue giuste pretese, e che al contrario possa liquidare tutte le sue infondate presunzioni, non con un atto di forza, ma secondo le sue leggi eterne e immutabili» (Kant,1787). Facendo questo, la ragione riesce ad individuare i suoi stessi limiti ed in questo modo a identificare le conoscenze alle quali può giungere e quelle a cui non può avere accesso, ovvero quelle di cui non può avere una «esperienza empirica», vera e fondata sulla sensazione. L’idea geniale di Kant è quella di trovare nella ragione delle intuizioni e dei concetti puri che non abbiano nessun legame con l’esperienza empirica e che perciò siano propri solamente della ragione stessa, e, grazie a questi, capovolgere il mondo e la realtà che noi conosciamo.
Secondo il filosofo, il mondo che noi conosciamo non è il mondo così com’è, o, come direbbe lui, non è «la cosa in sé», ma è solamente la realtà in sé conosciuta attraverso la nostra ragione, quindi mediante le intuizioni pure e i concetti puri. Dunque, la realtà che conosciamo è (e non può essere altro) ciò che la nostra ragione legge del mondo così com’è. Non è più da ciò che ci circonda che dipende la nostra conoscenza, quanto piuttosto dalla nostra ragione. Questo vuol dire che tutto ciò che è possibile conoscere non è detto che sia esattamente come noi lo conosciamo. Questo grande rovesciamento, in cui il soggetto umano dotato di ragione viene preso come punto d’inizio della conoscenza rispetto alla realtà, viene chiamato rivoluzione copernicano-kantiana; in un certo senso si inverte così il rapporto tra realtà e soggetto. 

Questo mondo conoscibile, oggetto della conoscenza umana, viene chiamato fenomeno e si contrappone a quel mondo in sé che, invece, è nominato noumeno. Per meglio comprendere quella che io ritengo l’idea geniale di Kant, seguite questo esperimento mentale, se così si può chiamare. Pensate di avere un paio di occhiali, qualsiasi, che hanno però le lenti colorate, per esempio blu. Bene, ora, indossando gli occhiali, provate a guardare il mondo intorno a voi. Sicuramente tutto ciò che vi circonda vi apparirà blu, indipendentemente da ciò che voi state osservando. Se poi pensate che questi occhiali non possiate mai toglierli, allora la questione diventa più interessante. Si potrebbe dire che questi occhiali sono come le intuizioni e i concetti puri, componenti costitutivi della nostra ragione che non possono essere ignorati in quanto strumenti che la nostra ragione utilizza per conoscere la realtà.
In altre parole, la nostra ragione non può conoscere se non attraverso questi strumenti e perciò conosciamo il mondo filtrato da essi; un po’ come con gli occhiali potevamo vedere il mondo solo blu. 

Questa natura della conoscenza viene spiegata in maniera esaustiva e molto dettagliata all’interno della Critica della ragion pura, ma è necessario sottolineare almeno altre due conseguenze di tale pensiero.
L’essere umano, da un punto di vista teoretico, ovvero di conoscenza sicura e vera, non potrà mai arrivare al noumeno, perché la conoscenza umana è vincolata e limitata da quegli strumenti della ragione che le permettono di vedere il mondo solamente come fenomeno.
Il fatto che l’essere umano rimane completamente ignaro del noumeno è proprio ciò che permette di aprire lo spazio verso la libertà. La sentenza kantiana è chiara: la conoscenza ha un limite e questo limite è stato stabilito dalla ragione stessa; se si vuole avere un’esperienza vera bisogna accontentarsi del mondo fenomenico che la nostra ragione può darci a priori, riempito con quanto la nostra sensibilità ci fa recepire dall’affezione che riceve dal noumeno. Bisogna notare, però, che spesso la ragione tenta di andare oltre i limiti concessi, cadendo dunque in errore. In che modo questo però influenza la libertà?
Si arriva allora al secondo punto: non potendo conoscere effettivamente nulla del noumeno, si può postulare, sia come necessario punto di partenza sia come punto di arrivo della riflessione morale, la libertà dell’essere umano. A permettere questo è proprio il fatto che le leggi di causalità e determinismo che regolano il fenomeno, di cui parla Kant nella trattazione, non sono estendibili al noumeno, perciò, la cosa in sé può contenere in sé la libertà, caratteristica propria della dignità umana.
Sebbene il discorso del filosofo tedesco sia molto più complesso (basta pensare che tratta proprio di problemi etici collegati a questo all’interno dell’opera Critica della ragion pratica), per quanto interessa a noi è sufficiente notare che questa riflessione ci ha riportati ai concetti da cui siamo partiti: la semenza dell’essere umano kantiano e l’importanza della dignità fondata sulla libertà. 

Nel viaggio all’interno della conoscenza e dei suoi limiti, attraverso la natura e la libertà si è tornati a parlare dell’uomo, dall’Ulisse dantesco definito come un essere fatto per «seguir virtute e canoscenza», un’uomo che però ha osato troppo, spingendosi oltre i confini del sapere ammesso.
Certamente ora è chiaro che il limite inteso da Kant è diverso da quello inteso da Dante.
Il poeta fiorentino infatti alludeva ad un sapere che non era raggiungibile dalla ragione umana, non tanto per un suo limite costitutivo, quanto piuttosto per un limite religioso; è infatti solamente attraverso la grazia di Dio che si può avere accesso alle conoscenze a cui ambiva l’eroe greco.

Kant e Dante, sebbene siano pensatori così lontani temporalmente, sembrano avere ancora qualcosa di cui parlare. È bene però ricordare che il cammino che Dante sta intraprendendo nella sua opera, ha come punto d’arrivo il paradiso e la comunione con Dio, che, da un punto di vista speculativo, va oltre i limiti della conoscenza possibile per l’uomo.
Kant, d’altra parte, crea una struttura che permette di concepire un lavoro filosofico e scientifico che sia conforme ai limiti della ragione umana, portando alla luce la funzione puramente regolativa di quelle che lui chiama le Idee della Ragione, tra le quali troviamo anche Dio.
Ad accomunarli c’è il fatto che questi discorsi di carattere più teoretico influenzano anche l’azione e la condizione dell’essere umano in quanto tale, parzialmente definito in base alla sua posizione gnoseologica nel mondo e rispetto al mondo, permettendogli così di trovare uno spazio per la sua vera espressione e per la sua libertà. 

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