Drill, Trap, Rap: Il canto del cigno dell’hip hop o le ceneri di una fenice? Tra Censura, Sparatorie e il “Badabum Cha Cha”

La musica del ventunesimo secolo non è il pop, il pop – a modo suo – c’è sempre stato: se è pop lo è a prescindere dal periodo storico, poteva essere pop Gianni Morandi negli anni ’70, può esserlo la Pausini, come Irama, oggi. La musica che veramente è capace di definire il nostro periodo storico, come la fine di quello chiuso prima del nuovo millennio, è il rap. Nel 2023 non dovrebbe essere più necessario aprire una parentesi a mo’ di glossario per ogni articolo che ne parla, ma è sempre bene, perché l’argomento è delicato e la maggior parte della produzione giornalistica a tema finisce per essere inesatta, o comunque lontana dai fatti: l’hip hop è una cultura, un mondo a sé stante, fatto di varie discipline, come l’MCeeing, o rap che dir si voglia, o anche i graffiti, la trap è un prodotto musicale di questa cultura, come esiste la trap sono centinaia le diramazioni che il “tradizionale” rap ha assunto, negli States è una questione di regioni ormai, è solo che “non siamo abituati”. Il rap è generazionale, nonostante il folto pubblico della musica Rock e le varie parentesi quasi stagionali, come il periodo Emo o la nuova ondata Post-Punk, ma perché? La risposta è più semplice del previsto: è la voce delle strade, delle persone che le vivono e quando “è tutto ghetto intorno” – per citare Inoki, nel pezzo cult “Giorno e Notte” il rap dilaga. Alla fine degli anni ’90 è stato Tupac Shakur il game changer: il rap si innalza a strumento politico, e nessuno ha riassunto meglio di lui, nel bene e nel male, la figura del gangsta rap a cui poi ci siamo “dovuti abituare”. Tupac fa politica, “predice” il suo futuro (tra tutti  in “I Ain’t Mad At Cha” parla della sua ascensione in paradiso, in altri pezzi dipinge la propria morte), racconta le strade da cui cerca di allontanare la sua gente, sicuramente uno dei più “real” nella storia. Questo concetto dell’essere real si è un po’ perso dopo i primi duemila, specialmente negli ultimi anni, il salto – nell’arco di due decenni – è infinito: il rap diventa pop e in maniera un po’ reazionaria abbiamo visto tante “derive del rap” diventare importanti, la trap ieri, la drill oggi. Ma qual è il problema con questa musica? C’è qualcosa di nuovo nelle critiche, nei tentativi di censura? Nell’urlo di allarme di una generazione cresciuta con la violenza nelle strade – gli anni di piombo, il G8 e sai quanti altri casi –, come se fosse qualcosa di nuovo? Per capire se la situazione è nuova possiamo considerare il “nostro” rap, il “nostro” Badabum Cha Cha, “che tira forte in Francia, Usa e Canada”, ma mai davvero in Italia, per quanto ne abbiamo fatto tanto e meglio di molti altri stati, se messi in parallelo. Il nostro rap nasce quasi come una macchietta di quello che rappresentava da anni: quando nel ’93 Jovanotti era al Festivalbar (tutti abbiamo sentito la storia per cui lui è stato il primo rapper in Italia, qualcuno ci ha addirittura buttato dentro Faber come primo rapper e l’idea è molto più piacevole), negli Stati Uniti andava in radio la faida tra Eazy-E e Dr. Dre, giusto per dirne una.

Partiamo dal presupposto che il nostro non è un paese fatto per il rap, le periferie ci sono, di strada ce n’è tanta, ma le dimensioni fanno quasi fatica a rendere accettabile per l’ascoltatore medio di eventi come Sanremo – almeno fino a qualche anno fa, il rap è arrivato anche lì a modo suo – che il degrado possa essere messo in rima in questa lingua di terra che è la nostra penisola. Soprattutto, non c’è mai stato un ricambio generazionale vero e proprio, nemmeno nel settore: i nomi sono sempre gli stessi, sia a gestire che a fare la musica, tutti punti a sfavore di un genere che tenta di farsi strada. Il “nostro” rapporto con armi, violenza e quant’altro è – fortunatamente – molto debole se messo a paragone con quello che invece rappresenta negli Stati Uniti, casa del rap, da quando mixava Dj Afrika Bambaataa (tra i “papà” del genere), ma lo stereotipo per cui i due mondi siano necessarimante connessi vive comunque, altri punti a sfavore. E così via: il rap non si è mai presentato bene in Italia, Eminem sale sul palco e viene censurato, Fabri Fibra non passava in radio, il Truceklan (storico collettivo romano) è stato conosciuto dal grande pubblico per un presunto maxi blitz (si parlava di 18 arresti tra membri e persone vicine, la label Propaganda ha poi smentito il tutto). Il carattere totalizzante dei media, poi, non ha di certo aiutato, perché di pari passo con la loro espansione il rap è cresciuto, si è sviluppato, ramificato ed è diventato sempre più “cattivo”, un po’ come se fosse un urlo, nato direttamente dal basso, perché – per quanto la lamentela sia comune sulla credibilità dei personaggi – molti di quelli che cantano, rappano, leggono, raccontano, la propria storia, purtroppo un passato così, o un presente, ce l’hanno avuto. La drill nasce così negli Stati Uniti. In un interessante approfondimento per la BBC, Sam Davies ha raccontato nel dettaglio la storia della Drill americana, di quella inglese, di come alcuni dei suoni utilizzati nelle basi, sempre più importanti negli anni se messe a paragone con i testi, richiami effettivamente i colpi dei caricatori fumanti di cui si parla, o di come siano stati creati neologismi – come per tutto, in ogni momento della storia dell’uomo – per parlare dei butterfly knife inglesi, ma anche delle indagini per istigazione a delinquere, della guerra mediatica a chi con quel genere, e con queste vicende, ci ha costruito la propria vita. Quello che non può passare inosservato è che le produzioni, sempre più veloci, come la crescita dei mezzi tecnologici che le permettono, sono diventate un campo di battaglia per uno scontro generazionale che si sta venendo a definire sempre meglio. Ora, è doveroso prendere un respiro profondo e porsi l’ennesima domanda: “Questo conflitto diverse età, è un fenomeno nuovo per il rap?”, la risposta è no: il rap nasce prima da uno scontro tra classi, nasce nel sottobosco dell’hip hop quando la black community trova una maniera di scappare, di proteggersi e – per certi versi – di “attaccare”, ma quando le differenze sociali vanno via via scomparendo, il discorso è sempre meno “etnico” e Marshall Mathers può entrare nello storico 313, cosa resta del rap? La protesta, il dissenso, il conflitto diventa sempre generazionale, sono gli ultimi a fare di questa musica quello che è: la spirale diventa vorticosa.

Ad Atlanta, Chicago, il rap diventa gangster, le major si interessano al fenomeno, chi per un fattore economico e chi per un vero interesse verso al musica (le etichette diventano degli artisti stessi) ed ecco che quando si canta il malessere arriva un tabloid a incollarci sopra un’etichetta con scritto “pericoloso”: il rap non è il mezzo per cui si finisce in strada, è lo strumento per cantarla, per raccontarla, spiegarla e soprattutto per lasciarsela alle spalle. Ma quando si parla di armi e violenza, l’occhio del “mondo dei grandi” non può essere benevolo e così, tutto d’un tratto, quando Neffa cantava della sua signorina, l’occhio del ciclone in qualche anno risucchia Fabri Fibra, con i suoi testi violenti, spregiudicati. Come è toccato a Fibra, col cambiare del sonoro e del mood, i Dogo diventano facili bersagli, come il Truceklan, e solo qualche anno dopo la Dark Polo Gang. Nulla di diverso per gli FSK, Paky, Baby Gang, Simba La Rue. Non è possibile parlare di censura perché non succede che a un rapper venga richiesto di rimuovere da Spotify i propri testi, ma i live sono osteggiati e la politica ha preso più di una volta una posizione chiara: bisogna ristabilire l’ordine delle cose, dimenticando sempre che ogni forma d’arte nata da un certo tipo di disagio non è pericolosa in sé, lo sono le cause che portano un ragazzo di venti anni a raccontare di spaccio, associazione e mattoni. Chi si concentra sull’aspetto lirico, parlando dei testi sempre più scadenti è chiaramente fermo su una prospettiva vecchia, figlia di discorsi sterili: i testi ci sono, basta cercarli a volte e sforzarsi di capirli e apprezzarli per l’arte che sanno emanare. Dire che il “vero” rap sia morto, come se ce ne fosse mai stato uno puro, che nessuno abbia mai criticato o messo in dubbio per moralità – per quanto alcune delle nuove leve siano ver’e propriamente indecenti, come tanti altri in altre ere geologiche del rap – non esiste, né mai esisterà. Scartiamo l’ipotesi che le ultime trappate apprezzate per contenuti siano il canto del cigno di un genere morente, il sonoro si evolve un po’ come internet: senza che si riesca a stargli dietro, Sick Luke era un rivoluzionario, ora dopo l’ultimo album di Mecna nessuno ci sta pensando, come per Tha Supreme e molti altri. Lo scenario in cui invece molti sembrano sperare è che, come per altri periodi, sostengono, il rap “rinasca”, quando poi in realtà non è mai morto: i primi anni 2010 sono stati anni bui? Per chi non ha mai ascoltato Quello che vi consiglio (Gemitaiz), Guilty (Noyz) e Controcultura (Fibra, entrambi del 2010), è una questione di informazione mancante, un po’ come quella sessuale: se nessuno te lo spiega, come ti aspetti di capire come funziona un mondo intimo come quello della musica?

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