Donne, vita, libertà: a che punto della storia?

Ad oggi, in Italia, sono più di novanta le vittime di femminicidio nel 2023. Sebbene questo numero faccia pensare, resta soltanto un frammento nel mosaico di violenze che le donne subiscono quotidianamente e che, spesso, si presenta sotto le mentite spoglie di normalità. «Un’intollerabile barbarie sociale», così il Presidente della Repubblica ha definito il fenomeno per cui, in Europa, l’Italia spicca tristemente; «Non c’è libertà, oggi, quando una persona è vittima di molestie e violenze fisiche o morali» Mattarella ha continuato.

La violenza non si limita alla sua declinazione fisica, ma si dipana pervasiva attraverso gesti, parole e sguardi in uno spettro dalla vastità sovente trascurata. Risulta insufficiente, infatti, pur se necessario, il disegno di legge approvato in via definitiva a Montecitorio, il quale è atto a rafforzare la risposta giuridica al fenomeno di femminicidio, piccola punta di un iceberg di violenza della cui portata siamo ancora troppo poco consapevoli.

E’ miopia la nostra, un limite per la messa a fuoco dell’origine del fenomeno: non si tratta di casi sporadici, di ormoni impazziti, di raptus, o bestialità avulse dalla quotidianità collettiva; noi tutti siamo complici e coinvolti, anche se involontariamente, nelle diverse manifestazioni di un fenomeno dalle intensità e forme molteplici, manifestazioni accomunate da radici cancerose, le quali, indisturbate, mietono vittime inconsapevoli, incapaci di individuare quelle anomalie di sistema dalla parvenza ingannevole.

Tali anomalie sono e restano cristallizzate in una parvenza di ‘normalità’ perniciosa e fallace, la quale viene costantemente corroborata da narrazioni distorte e da un vociferare cieco.
Focalizzare la propria attenzione sul problema dei femminicidi non è costruttivo, distrae, infatti, dalla profondità di una ferita sistemica a cui poco è utile il ‘cerotto’ giuridico, raffazzonato tentativo di lenire il dolore e lo sgomento dei ‘rimasti’, che assistono distaccati alla stessa realtà di cui sono parte pur senza riconoscerlo.

Serve dunque un intervento sostanziale e strutturato di prevenzione, perché le falle si annidano nelle inosservate piccolezze del quotidiano; è un dato di fatto, ‘non c’è libertà’ e manca, insieme ad essa, la comprensione della realtà che le donne oggi, tanto in Italia quanto nel resto del mondo, continuano a vivere. Quello che esperiscono con costanza è un disagio esistenziale accompagnato da sferzate di limitazione concreta in ogni sfera sociale, soprattutto in termini di prospettive e di opportunità, e questa condizione non è che espressione di strascichi attempati di sessismo ancora troppo persistenti.

Cosí schiava. Che roba!
Cosí barbaramente schiava. E dai!
Cosí ridicolmente schiava. Ma insomma!
Che cosa sono io? Meccanica, legata, ubbidiente, in schiavitù biologica e credente.

«Schiava», così si definisce Patrizia Cavalli nella realizzazione più consapevole della propria condizione di donna. Poetessa e figlia della contemporaneità occidentale, ha avuto voce e ha posseduto l’arma della parola nella scrittura del nostro presente. Insomma, ha goduto di privilegi che secondo l’immaginario collettivo potrebbero essere emblema di rivendicazione, di progresso, di evoluzione e di conquista per il suo intero genere. Nulla di più sbagliato, da questi suoi lapidari versi, emerge che a incombere nella sua vita di tutti i giorni è una condizione di schiavitù, una schiavitù cui è soggetta per la natura fisica della sua persona che ha plasmato e ridotto la sua identità in ceppi.

Nonostante il ridotto numero di parole utilizzate, ripetute in un’anafora incisiva, è palpabile il peso di un’esistenza incatenata. Viene espressa l’essenza di una libertà fittizia, una libertà ancora parziale perché ridotta alla superficie, ostacolo che, come rivelano i versi successivi, la Cavalli vede smaterializzarsi solo nell’intimità del sogno che la libera dalla maschera soffocante della sua forma femminile.

Nadia Hashimi, scrittrice americana di origini afghane, definisce questa condizione «il fardello dell’essere donna». L’autrice ha sempre dedicato il proprio impegno letterario a dare voce a quante donne afghane non potessero averne, così da far conoscere realtà poco note all’occidente. Il fardello di essere donne è un riferimento diretto alla condizione comune a molti paesi medio-orientali in cui la prima fonte di sottomissione femminile è la legge; tuttavia, anche in occidente, pur godendo di una formale parità di diritti, la sostanza tradisce l’apparenza di facciata e quel fardello grava sulla vita di tutte noi. Nel medio-oriente, però, la condizione di subordinazione è normata – ancor prima che normalizzata – dalla cultura pervasiva di una strumentale ortodossia religiosa. In questo modo, viene legittimata l’espropriazione della libertà femminile, una libertà inesistente che muove dalla preclusione al controllo sulla propria immagine fino alla negazione di diritti politici, sociali e civili. Dell’asimmetria di libertà in cui riversano le loro vite rispetto ai concittadini uomini, le donne sono spesso pienamente consapevoli. Da questa consapevolezza, infatti, si sono sviluppati diversi tentativi di elusione dei limiti imposti, tra cui la tradizione afghana delle bacha posh. Il termine definisce quante bambine afghane, spesso ultimogenite, hanno la fortuna di esperire, nel breve tempo dell’infanzia e solamente poiché sotto le mentite spoglie di bambini, quella che è una prerogativa esclusivamente maschile: la libertà. Poi anche per loro l’infanzia passa, le fattezze cambiano, il sogno si interrompe e l’ineluttabile prende forma nella prigionia in un corpo che non è mezzo, ma condanna.

Anche le donne iraniane, da un anno a questa parte, sono coraggiosamente scese in piazza, rompendo la gabbia di anonimato cui erano state costrette; loro, che hanno toccato con mano la contraddizione che le investe in quanto donne, vivendo in prima persona la devoluzione repentina (a partire dalla rivoluzione khomeinista del 1978-1979) di ogni diritto e libertà conquistati a fatica, da allora sono state relegate in un presente anacronistico e a loro indifferente. In Leggere Lolita a Teheran, Azar Nafisi, scrittrice iraniana poi trasferitasi negli Stati Uniti, parla della difficoltà di esprimere apertamente il proprio dissenso di cui, alle pretese della tirannia, unica espressione possibile erano inizialmente silenzio e indifferenza; il regime, infatti, come avviene nel romanzo di Nabokov Invito a una decapitazione, ha indotto ‘i condannati’, le donne, a ballare con propri ‘carcerieri’ e carnefici, il regime. Da un anno a questa parte, però, il paradigma è cambiato e le donne hanno intrapreso una lotta per l’emancipazione, con l’obiettivo di sottrarsi a questa danza della morte finalizzata a riconquistare la vita che spetta loro; stanno cercando di sancire una netta rottura con l’idea di donna cui il regime le spinge a conformarsi, gridando ad alta voce l’inno di questa rivoluzione: ‘Donne, vita e libertà’. Tre sole parole, così convintamente pronunciate, sanno di consapevolezza, determinazione, forza e rivendicazione di una vita confiscata, un’identità che le iraniane stanno cercando di riconquistare a partire dalla sovranità sulla loro immagine, primo passo per la riappropriazione anche di parole, pensieri ed emozioni troppo a lungo soffocati. Quella che combattono è una lotta esistenziale, una lotta che mira a scardinare un’identità artefatta e impersonale, costruita secondo gli imperativi morali di un potere dispositivo brutale che ha modellato, marcando linee già tracciate e che la storia stava sbiadendo, una concezione della donna che, nel concreto, non stenta a manifestarsi nello stesso Occidente.

In Occidente, nonostante quest’idea manchi di formalizzazione giuridica, permane un sostrato culturale fondamentalmente machista e patriarcale che continua ad avere ripercussioni evidenti ancora difficilmente riconoscibili. Infatti, fregiandoci delle conquiste formali raggiunte, e avendo sempre come termine di confronto le realtà del resto del mondo, siamo miopi di fronte alla persistenza di un senso comune che continua a violentare l’identità di moltissime che, quindi, continuano a vivere a pieno ‘il fardello di essere donne’. Il fardello è materiale, è di natura fisica e estetica, e non fa che produrre un ottundimento che si riflette nell’interiorità, attraverso un disagio esistenziale ancora troppo poco compreso e ascoltato. Feriscono catcalling e sguardi insistenti di sconosciuti; disintegrano il senso di sicurezza, prerequisito della libertà di movimento; distruggono l’illusione di una libertà di cui è facile riconoscere l’inconsistenza, ma di cui parlare è spesso difficile perché, pur se vittime, ci accompagna un senso ingiustificato di colpevolezza. Tale senso di colpevolezza è commisurato all’entità della violazione subita e, talvolta, solo la cura del tempo lo attenua, permettendo alla vittima di metabolizzare e sfogare un dolore troppo a lungo serbato e che mai se ne andrà completamente; di questo sono testimoni Michela Marzano e Amelie Nothomb che, solo di recente, sono riuscite a liberarsi di quell’ombra minacciosa che dall’adolescenza incombe sulle loro vite, soffocando loro ogni parola, costringendole a nascondere una ferita che a lungo è restata aperta. Poi, piano piano, anche quell’evento incombente ha trovato il suo posto nella loro memoria personale e, parlandone e poi scrivendone, hanno compiuto uno step ulteriore, contributo importante per la società tutta, ma soprattutto per quante combattono contro uno stesso dolore spesso ingestibile.

Ingestibile è stato ad esempio per Alice, suicida a 17 anni (due anni dopo lo stupro di gruppo subito), la cui scomparsa pesa insopportabile sulla nostra coscienza collettiva soprattutto alla luce delle parole da lei lasciate: “Nessuno di voi sa e saprà mai con cosa ho dovuto convivere da un periodo a questa parte. Quello che mi è successo non poteva essere detto, io non potevo e questo segreto dentro di me mi sta divorando. Ho provato a conviverci e in alcuni momenti ci riuscivo così bene che me ne fregavo, ma dimenticarlo mai”.
È inaccettabile quello che è stata costretta a vivere: di quello stupro non era responsabile, era vittima, e non meritava, né si sarebbe dovuto permettere che quel peso, divorandola da dentro, soffocasse la sua identità fino a farle decidere di sparire per sempre. Quello di Alice non è un caso unico, e nemmeno un caso estraneo al nostro quotidiano; questi fenomeni sono da sempre integrati nella nostra realtà.

La necessità di un cambiamento nella storia, infatti, non è tardata a manifestarsi talvolta violenta e talvolta vittoriosa; e le sferzate date nella lotta per i diritti hanno trovato come risposta un progressivo evolvere della superficie sociale da cui, recidive, alcune punte di resistenza non sono ancora state smorzate. Eppure, l’attualità rivela come queste resistenze non siano isolate, non siano avulse dal sostrato comune; e così, nemmeno l’evoluzione da un’epoca di pretese ortodosse e inflessibili sul modo di essere e apparire del genere femminile a quella della liberalizzazione dei costumi ha portato agli effetti sperati.
Se prima era il corpo femminile ad essere tenuto in ostaggio, oggi sono le donne, in quanto individui, ad essere tenute in ostaggio dal proprio corpo, dalla propria forma, di fronte a cui è stata l’identità a soccombere. Quel corpo, che è stato mezzo di rivendicazione dei propri diritti e delle proprie libertà di individui nel percorso di conquista della parità di genere, in un’epoca dell’apparenza e dell’estetica che ha portato con sé una parossistica sessualizzazione delle immagini, è diventato uno dei limiti maggiori nell’attuale processo di emancipazione.

Veline, modelle, concorsi di bellezza e social sono tutte manifestazioni di un ancoraggio persistente a quel sistema di credenze che la storia stava sbiadendo nel percorso di conquista della parità. Per questo, bisogna chiedersi se l’iper-esposizione del corpo femminile abbia travalicato il limite della funzionalità, sfociando in un eccesso controproducente nel percorso femminile di affermazione di diritto all’identità, diritti sociali, diritti civili, comprensione, sicurezza, credibilità, opportunità eguali e tutela.

‘Io non sono carne’, questo lo slogan che sui social ha spopolato come risposta alle molte violenze che la cronaca ha riportato perché, è un dato di fatto, oggi la sovranità dell’immagine femminile è sfuggita dalle mani delle legittime proprietarie, divenendo mercé di quel senso comune fondamentalmente sessista che vanifica il senso del consenso: a cosa serve questo, infatti, se la donna piuttosto che persona, è primariamente concepita come un oggetto?

Nell’idea della donna come carne, ancor prima che individuo, si instilla quella logica di possesso ricorrente nelle storie di violenza, storie esito di una concezione dell’amore incuneata nei rapporti di potere che, altro non è che l’espressione di un’eredità culturale anacronistica.
A questo limite, va aggiunto che, oggi, il corpo femminile rappresenta per le donne un ulteriore ostacolo (sempre relativo all’ espropriazione della loro immagine): il confronto con il canone estetico.

Ed eccoci, nuovamente ‘ridicolamente schiave’, complici attive nell’alimentazione viziosa di una condanna che ha preso forme nuove; usucapito dal senso comune e strumentalizzato nella fallace liberalizzazione mediatica, il corpo femminile è diventato uno dei mezzi di affermazione di sé.
Infatti, è nel confronto col canone che molte si sono trovate a definire il proprio valore, un valore fittizio che deriva da un’approvazione sociale fondata sul mero carattere estetico.

Da qui deriva un senso di inadeguatezza che si spiega alla luce di un’ostinata persecuzione di immagini che non ci rappresentano e che non parlano di Noi, che non ci hanno liberate ma rese dipendenti dall’occhio altrui. Forza, intelligenza, competenza, ironia, tutte qualità secondarie: l’importante è essere belle, l’unica forma di prestazione che in molti contesti è canale di affermazione per le donne; e noi, complici, spesso siamo le prime a perpetrare la pratica del giudizio superficiale che disintegra quella solidarietà e sorellanza che dovrebbero legarci.

A supporto di questa realtà un sondaggio di Save the Children del 2020 riporta che il 57% degli intervistati pensa che la bellezza femminile possa essere uno strumento per il successo (il dato maschile sale a 63%), una percezione che si conferma nel 46% degli intervistati che affermano che per le femmine essere attraenti è più importante che per i maschi (il 39% delle ragazze intervistate ne è convinta, percentuale che aumenta al 53% nei coetanei maschi). Così si innesta il circolo vizioso che comporta un aumento di insicurezze, senso di inadeguatezza, paura di esprimersi, senso della contraddizione tra realtà e imperativo del dover essere, o meglio, apparire, che fa dimenticare la vera necessità: quella della comprensione di sé.

γνῶθι σεαυτόν, «conosci te stesso». Solo perseguire questa massima renderebbe possibile un affrancamento dall’auto-limitazione che il corpo spesso determina; solo così il corpo non sarebbe che corpo, mezzo per esistere, muoversi, scrivere, parlare, scoprire, conoscere, amare, leggere, viaggiare, piacersi, esprimersi liberamente ed essere finalmente se stesse, individui. Questa è la sfida che dobbiamo porci in prima istanza: affermare la nostra soggettività, comprendendone la natura più profonda al fine di trovare la chiave per portare avanti un cambiamento nella prospettiva che le donne iraniane gridano tentando di esorcizzare la tenebra che le soffoca. Oggi, infatti, nel generale appiattimento superficiale, è troppo facile dimenticare il valore della profondità. Così perdiamo la capacità di entrare in connessione con l’altro e di dedicarci alla riflessione, premessa per la comprensione empatica del mondo che ci circonda, premessa per uno sradicamento cosciente dalle radici che ci avvinghiano a una mentalità incoerente col nostro presente.

Bisognerebbe partire dall’educazione alla parità, al rispetto, al ragionamento e all’analisi critica delle manifestazioni di ciò che perpetuiamo inconsapevolmente; in questo modo renderemmo possibile una cristallizzazione delle conquiste e un’apertura dello sguardo ad una nuova prospettiva di normalità per tutti accogliente. Per concludere, riprendendo le parole di Mattarella, «l’intollerabile barbarie sociale richiede un’azione più consapevole di severa prevenzione, concreta e costante a cui va affiancato nell’intera società un impegno educativo e culturale contro mentalità distorte e una miserabile concezione dei rapporti tra donna e uomo»; il nostro futuro, come si evince dalle parole del Presidente della Repubblica, dipende soprattutto da noi, dalla volontà collettiva di decostruire la comoda distorsione su cui si fonda la struttura della nostra realtà. Per farlo basta davvero poco: predisporci al cambiamento ed essere pronti a mettere in discussione gli assunti fallaci del nostro presente.

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