Il prezzo del ciclo

Lo stigma del ciclo mestruale ha origini antichissime e saldamente ancorate alla religione: l’impurità della donna che perde sangue è un concetto che mette d’accordo cristianesimo, islamismo ed ebraismo, e ognuno fa propria una precisa serie di istruzioni riguardo al comportamento da seguire ogni qualvolta il portentoso e ripugnante evento si verifichi. L’etichetta si declina generalmente in due aspetti: l’isolamento della donna durante il periodo di mestruazioni, e il divieto di avere rapporti sessuali con lei – pena la perdita della “purezza” anche per l’uomo. 

Questa millenaria discriminazione ha sicuramente avuto modo di evolvere nel corso dei secoli, e oggi ci fa quasi sorridere pensare a meccanismi di contaminazione tanto strampalati, da cui non si salvano in alcuni casi nemmeno i mobili. Ma sarebbe meglio non cantare vittoria troppo presto – per dichiararla estinta serve ancora tempo. 

In alcune aree dell’India e del Nepal ad esempio, dove la credenza religiosa – in questo caso il colpevole è l’induismo – si fonde con le tradizioni socio-culturali, donne e ragazze vengono tuttora isolate in specifiche capanne note come chhaupadi allo scopo di “non contagiare la società”. Sebbene la pratica sia stata dichiarata illegale nel 2018, essa continua a essere praticata e a mietere vittime, dovute alle terribili condizioni igieniche e di sicurezza in cui vertono le capanne. Ma non sono solo le aree rurali a soffrire simili comportamenti: i casi di donne che vivono la loro adolescenza soffocate in una serie di ridicoli tabù sono numerosissimi, e coinvolgono anche le città.  

Le maggiori difficoltà che affronta una donna durante il ciclo traggono sicuramente spunto dalla sfera culturale, ma si articolano in ambiti ben diversi. Oggi le principali riguardano il concreto accesso ai prodotti mestruali: in tanti paesi gli assorbenti non si trovano o sono venduti a prezzi che non tutti possono permettersi, costringendo chi ne ha bisogno a sostituirli con carta igienica, stracci o altri materiali inadeguati. E mentre il rischio che insorgano infezioni dell’apparato genitale o urinario aumenta, emergono anche le conseguenze a livello sociale: tantissime donne provano vergogna delle loro condizioni in questa fase e scelgono di non andare a scuola o al lavoro finché non sono terminate, spesso con l’aggravante di dolori mestruali impossibili da combattere senza medicine. 

Non serve necessariamente guardare altrove per storcere il naso. Anche in Europa degli stereotipi ci liberiamo in modo lento e goffo. 

A “mestruazioni” o “ciclo” si preferiscono spesso nomignoli ridicoli, da “marchese” a “le mie cose”, e al menarca si accompagnano ancora esclamazioni del genere “sei diventata signorina”. L’inventiva ha dato i suoi frutti ovunque: se noi italiani il dramma di pronunciare la parola “ciclo” l’abbiamo risolto così, in altri paesi il termine è stato sostituito con altro – città, cibi di colore rosso, parenti in visita per qualche giorno ed enigmatiche locuzioni quali “lavori in corso”. Con il rischio consistente che tutte queste brillanti trovate finiscano per risultare incomprensibili anche a chi ha le mestruazioni.

Alle definizioni problematiche, poi, si affiancano spesso comportamenti che dimostrano un imbarazzo innecessario. Durante l’adolescenza sono talmente comuni e ripetuti da diventare la normalità: la voce si abbassa nel chiedere un assorbente alle compagne di classe, e prima di andare al bagno ci si assicura di averlo nascosto nelle tasche dei pantaloni o nelle maniche – sia mai che la vista di un indecente involucro violetto possa turbare qualcuno. Ciliegina sulla torta, il perenne timore di sporcarsi i pantaloni o anche solo di lasciar intravedere la forma dell’assorbente attraverso le mutande. Per non parlare della lista interminabile di pregiudizi e supposizioni infondate e sessiste: se piangi, ti arrabbi o sei di cattivo umore, diventi il bersaglio perfetto di chi crede che avere le mestruazioni equivalga a essere incapace di gestire le emozioni. E di chi non ha idea di quanto l’influenza ormonale sulla sfera emotiva sia un dato variabile, complesso e personale. 

A me non stupisce che la nostra percezione delle mestruazioni sia tanto ambigua, perché le falle nel sistema ci sono, e non sono nemmeno troppo nascoste. 

Negli spot pubblicitari dei prodotti mestruali il sangue è stato introdotto solo di recente: nel 2018 il brand di assorbenti inglese Bodyform è stato il primo a sostituire l’innocente liquido blu che compare sugli assorbenti con un liquido rosso scuro, ovviamente non senza scatenare l’indignazione di chi crede che sia disgustoso e assolutamente inadatto ai bambini. Come se il sangue che appare sulle braccia di chi si ferisce nelle pubblicità di cerotti fosse blu. Come se il sangue non fosse sangue in tutti casi. Ma al di là della scelta del colore, di campagne pubblicitarie ambigue e poco realistiche ce ne sono parecchie, a partire dalle classiche in cui le donne saltano, roteano e si buttano con il paracadute per dimostrare quanto il certo prodotto le faccia sentire comode e leggere. Storielle tanto amabili quanto inverosimili, ma pur di vendere… 

Bisogna ammettere che attirare l’attenzione della nostra società sul tema delle mestruazioni è diventata negli ultimi decenni una sfida più impegnativa: il livello medio di benessere in occidente si è alzato, l’offerta sul mercato di prodotti mestruali è moltiplicata, i prezzi si sono abbassati e oggi la maggior parte delle donne vive il ciclo più serenamente. Il mondo è pieno di persone che in assorbenti non spendono più di dieci euro al mese, che evitano i crampi grazie agli antidolorifici e per cui, tirando le somme, sanguinare una manciata di giorni ogni tanto non significa granché e non rappresenta un problema. 

Ma non si può fare a meno di notare quanto siano lenti i passi avanti in materia di parità di genere, anche da questo punto di vista – e soprattutto che in alcuni casi, come il nostro, camminiamo all’indietro. 

In Italia gli assorbenti sono stati tra i più costosi a livello europeo fino al governo Draghi: l’IVA, originariamente del 22% – la stessa riservata ai cosiddetti prodotti di lusso – è stata abbassata nel 2021 al 10%, dopo anni e anni di proteste per aprire gli occhi sul fatto che tassare i prodotti mestruali al pari, ad esempio, di prodotti come i superalcolici, non è una gran mossa e che – purtroppo c’è bisogno di ricordarlo – sanguinare in media tra i 3 e i 5 giorni al mese per 40 anni della propria vita non è una scelta. 

Il governo Meloni nel 2022 ha ridotto ulteriormente l’IVA sui prodotti mestruali, dal 10 al 5%. Ora punta a riportarla al 10. È vero che in seguito al suo abbassamento i prezzi non sono diminuiti, perché i commercianti non l’hanno trasposto sul prezzo finale dei prodotti; ma è vero anche che adesso per il governo è più conveniente fare marcia indietro invece di agire per rendere effettiva la riduzione dell’IVA. E che quindi a perderci, ancora una volta, sono le donne. 

Alcuni sprazzi di luce in un panorama piuttosto scuro: l’Irlanda è ad oggi l’unico paese in Europa che ha eliminato l’IVA sui prodotti mestruali, e la Scozia ha fatto di più – è il primo paese al mondo a garantirli gratuitamente. 

Il Parlamento spagnolo ha approvato il 16 febbraio 2023 la Legge organica per la tutela dei diritti sessuali e riproduttivi e la garanzia dell’interruzione volontaria della gravidanza, che tra le altre cose prevede la possibilità di congedo per le lavoratrici che soffrono di dismenorrea, ossia di forti dolori durante le mestruazioni. In Italia una proposta simile giace invece in Parlamento dal 2016. 

In occidente la Spagna è il primo paese a presentare un progetto simile, mentre in Asia orientale sono diversi quelli che mettono in atto questo tipo di tutela, pur con variazioni sensibili rispetto al numero dei giorni di congedo e alla retribuzione associata. 

Il congedo mestruale dovrebbe essere considerato nell’ottica di una copertura eventuale e riservata a casi specifici, e non come un’agevolazione gratuita – eppure è lecito preoccuparsi di un ulteriore aumento del gender gap. Perché se l’eventuale congedo di maternità spinge già tanti datori di lavoro a non assumere le donne, un nuovo tipo di congedo potrebbe accrescere le loro preoccupazioni. 

Come se nascere donna – sì, c’è bisogno di ripeterlo – fosse una scelta.

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