Non è bello ciò che piace

Il filosofo Umberto Eco affronta il concetto di bellezza nel suo libro “Storia della bellezza” affermando che bello è un aggettivo che usiamo spesso per indicare quel che ci piace. Ma è davvero così? È davvero bello ciò che piace o, meglio, è davvero bello ciò che ci piace? E, ammesso e non concesso che sia così, che cos’è allora la bellezza? E, di conseguenza, che cos’è la bruttezza? Perché insomma una cosa, per esempio un affresco, un vestito, un paesaggio, un film, un libro, è bella e un’altra è brutta?

La parola “estetica” deriva dal greco αισθεσις, che significa “sensazione”, e dal verbo αισθάνομαι, che significa “percepire per mezzo dei sensi”. La parola “estetica”, checché se ne dica, fu introdotta dal tedesco Alexander Baumgarten, che fra il 1750 e il 1758 pubblicó per l’appunto un trattato sul bello col titolo “Aesthetica” denominando così la “scienza del pensare in modo bello” perché consideró la bellezza come una percezione, come un sentimento, come una conoscenza sensibile perfetta. E, così facendo, quel tale avvió quel che poi è passato alla storia come il secolo d’oro dell’estetica tedesca, che inizia appunto con Baumgarten e finisce poi con Hegel. In particolare modo il seguente articolo vuole evidenziare alcuni dei caratteri principali della dottrina estetica che ricollegano le riflessioni sull’arte, sul bello e sul sublime da Kant fino a Hegel passando per il romanticismo di Schiller. Del giudizio sul bello Kant scrive principalmente, ma non solo, nella “Critica del giudizio” proponendo un’analisi secondo le sue quattro categorie: la qualità, la quantità, la relazione e la modalità. Secondo la qualità Kant afferma che “il bello è l’oggetto di un piacere mediante il quale si giudica qualcosa senza interesse”, secondo la quantità che “il bello è ciò che piace universalmente senza concetto”, secondo la relazione che “il bello è ciò che viene percepito secondo una finalità alla quale manca la rappresentazione di uno scopo” e, infine, secondo la modalità che “il bello è ciò che in assenza di concetto è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario”. Non è quindi un caso che l’estetica kantiana non è tanto una dottrina dell’arte quanto una dottrina del bello, giacché per Kant l’estetica studia essenzialmente “il giudizio che si chiama estetico appunto perché la sua causa determinante non è un concetto, ma il sentimento (del senso interno) di quell’accordo nel giuoco delle facoltà dell’animo”. Il bello è dunque, per Kant, la percezione disinteressata, ma avente carattere di necessità e di universalità, di una finalità delle cose che sia in armonia con le facoltà del nostro animo. Anche il bello quindi non è una proprietà che le cose hanno di per sé, bensì è un rapporto tra le cose e il soggetto che le percepisce. E secondo Kant il soggetto percepisce le cose distinguendo due tipi di bellezza: la bellezza libera o pulchritudo vaga, e la bellezza semplicemente aderente o pulchritudo adhaerens. “La prima non presuppone un concetto di ciò che l’oggetto deve essere; la seconda presuppone questo concetto e la perfezione dell’oggetto alla stregua di esso”, cioè la prima è una bellezza accostata a un’opinione, che proprio in quanto opinione è per l’appunto libera, e, invece, la seconda è una bellezza accostata a un giudizio, che secondo Kant non può essere relativo ma deve essere universale. Detta ancora in altri termini quel che Kant sta dicendo è che un conto è il gusto proprio di ogni essere umano, che potremmo esplicare nella frase “mi piace”, ma altro conto è la bellezza, che invece potremmo esplicare nella frase “è bello”. Così per esempio se si immagina la visita di un uomo presso il Museo degli Uffizi a Firenze non potremmo non essere concordi nel constatare che di fronte alla “Primavera” del Botticelli quell’uomo rimarrà stupito dalla meraviglia, dalla forza, dall’armonia di quella tela nonostante possa non essere di suo gusto, cioè nonostante possa quella tela possa anche non piacergli, ma ciò non implica che di conseguenza la tela sia brutta piuttosto implica che la tela semplicemente non gli piace. Così, sebbene ognuno di noi sia diverso o, comunque, abbia dei gusti diversi in ragione dei quali dice che una cosa gli piace e una cosa non gli piace quando è convocato dalla bellezza o, per converso, dalla bruttezza non può far finta di nulla fingendo di non essere toccato da quello stupore che l’una e l’altra suscitano. Non può pensare insomma che siccome non gli piace sia brutto o che, viceversa, siccome gli piace sia bello perché la bellezza e la bruttezza non rispondono kantianamente tanto a un’opinione quanto a un giudizio sul bello. Inoltre, distinto dal bello, Kant delinea anche il concetto del sublime che non è una qualità delle cose di per sé, bensì del sentimento che determina il giudizio su di esse. Perciò il sublime è “il simbolo del bene morale” che finisce così per attestare l’esistenza di una facoltà dall’animo superiore a ogni misura dei sensi: la ragione, intesa come facoltà dell’incondizionato e sede dell’idea di libertà. Dunque per Kant l’arte è anche il prodotto del genio: esso è innato ed è la facoltà di trovare le idee estetiche e di saperle comunicare. E quest’idea, insieme a quella del carattere disinteressato dell’arte, è forse quella che più influì sull’estetica romantica: quindi la ritroveremo nella serie di teorici dell’estetica che popolò la Germania subito dopo l’apparizione della “Critica del giudizio”. 

E, infatti, il primo grande continuatore dell’estetica di Kant è stato indubbiamente Schiller, che riprendendo e sviluppando in modo originale l’estetica kantiana, apre le porte non solo al romanticismo, che si può considerare laconicamente la romanticizzazione dell’aspirazione schilleriana all’armonia, ma anche all’idealismo. Egli, infatti, costituisce un passaggio decisivo nella parabola del secolo d’oro dell’estetica tedesca, quello che, come si diceva poc’anzi, inizia con la fondazione di questa disciplina da parte di Baumgarten e culmina con quel filosofo, Hegel, che parlerà di Schiller come di un suo precursore. Nelle lettere XI-XVI delle “Briefe über die ästhetische Erziehung des Menschen” (1793-1795), Schiller individua due istinti fondamentali dell’uomo: l’istinto sensibile, volto a immettere l’io nell’ambito della sensibilità, e l’istinto della forma, che cerca d’innalzare all’universalità della forma la dispersione dell’empiria, cioè dell’esperienza. Questi due istinti, pur non contraddicendosi, sono opposti e la mancanza d’un equilibrio tra di essi impedisce sempre un’armonia dell’uomo. I due istinti hanno dunque bisogno di una limitazione reciproca; ma questa non sarà possibile se non v’è in noi un terzo istinto, che li riassuma e li equilibri in sé. Schiller ritenne di aver trovato quest’istinto nell’istinto del gioco, da cui deriverebbe l’arte. Esso è quindi il culmine della vita umana: “L’uomo gioca (cioè è artista) solo quando egli è uomo nel pieno significato della parola, ed è interamente uomo solo quando gioca (cioè quando è artista)”. Così secondo Schiller “il delicato fiore della bellezza si aprirà soltanto laddove l’uomo nella propria casa sia tranquillo con se stesso e, tosto che n’esce, si trovi in comunione con tutto il genere umano”. Infatti solo e soltanto così l’anima dell’uomo e del mondo è un’anima in cui la sensibilità si accorda finalmente con la ragione e in cui la legge morale non ha bisogno di presentarsi kantianamente come un imperativo perché ormai il principio che può condurre all’armonia tra ragione e sensibilità, cioè i due istinti contrapposti di cui si diceva poc’anzi, è l’arte. Tuttavia non tanto l’arte tout court quanto invece l’arte bella capace, proprio perché bella, armoniosa e ordinata, di educare l’uomo a sintetizzare o, se si preferisce, a conciliare l’inconciliabile, cioè quei due istinti di ragione e sensibilità. Insomma, senza bellezza non c’è armonia, non c’è ordine, non c’è pace, quindi l’uomo ancora una volta senza la bellezza è perso vittima di un dissidio insanabile fra l’istinto sensibile e l’istinto formale. E non a caso già nello scritto “Grazia e dignità” si ritrovava quel progetto antropologico di una maturazione integrale dell’umanità che di lì a breve avrebbe trovato ulteriore e più ampia formulazione nella forma di una pedagogia estetica, di una filosofia della storia, e di una riflessione sul sublime capace poi di suscitare l’interesse anche dei maggiori filosofi dell’idealismo tedesco Hegel su tutti. 

Di fatto la maggiore novità dell’estetica di Hegel nei confronti delle altre estetiche idealistiche e di quelle romantiche è costituita dal fatto che, per Hegel, l’arte s’inserisce nel processo logico-storico dello Spirito assoluto, per cui essa viene ad avere sia un passato sia un futuro, in senso logico e storico. Questa è appunto la posizione sostenuta da Hegel nell’“Enciclopedia” e nelle “Vorlesungen über die Ästhetik”, tenute da lui a Berlino nel 1828-29. Ma, se la prima parte delle “Vorlesungen” descrive l’emergere dell’arte dal mondo finito della vita, che costituisce il suo prima, l’arte poi è nel reale in quanto si sviluppa, si determina nel corso del suo svolgimento, cioè l’arte non nasce già fatta ma nasce ancora da farsi. I tre gradi fondamentali di questo svolgimento o per l’appunto di questo farsi sono: l’erstreben, il “tendere”, al quale corrisponde l’arte simbolica dei primitivi e della mitologia; l’erreichen, il “raggiungere”, a cui corrisponde l’arte classica, sintesi di oggettività e di soggettività; infine l’überschreiten, il “superare” a cui corrisponde l’arte romantica, caratterizzata dal ritorno della soggettività e del contrasto tra forma e contenuto. Quest’ultima rappresenta, per Hegel, il dissolvimento stesso dell’arte e il suo passaggio alla religione, dove la verità si dà nella fede, e nella filosofia, dove la verità si dà finalmente nella forma propria, quella del concetto, al di là di ogni estraniazione. Perciò, “la forma romantica dell’arte toglie nuovamente la compiuta unità dell’idea e della sua realtà, e si pone essa stessa, di nuovo nella differenza e nell’opposizione di entrambe le parti, che era rimasta insuperata nell’arte simbolica”, cioè l’alba dell’arte romantica segna il passaggio dall’unità di idea e realtà o, se si preferisce, dall’unità di forma e contenuto propria dell’arte simbolica, cioè per fare un esempio a quell’unità fra l’immaginarsi una cosa e il riprodurre la stessa, alla disunità di forma e contenuto o, comunque, di idea e realà. Ma in tal modo l’arte romantica si trova incapace di superare la propria aporia, cioè di oltrepassare il conflitto fra ciò che pensa e ciò che produce, dissolvendosi nella fine stessa dell’arte, perciò secondo Hegel “l’arte è e rimane per noi un passato”. Dunque secondo Hegel in virtù del principio secondo cui “tutto quel che è spirituale è superiore a ogni prodotto naturale”, l’essenza della bellezza risiede nell’arte in quanto prodotto dello spirito. Tuttavia siccome “non esiste bello o vera arte che non si caratterizzi per l’adeguamento del sensibile alla verità divina, quando ciò non è più possibile, come accade oggi, non esiste più arte”, cioè non essendo più possibile essere ispirati da ciò che è massimamente bello, massimamente ordinato, massimamente armonioso com’è la realtà divina allora non c’è più spazio e non c’è più tempo per l’arte. 

Da qui, in conclusione, l’esigenza mano a mano più impellente di accostare, rifacendosi ancora a Umberto Eco, a una “Storia della bellezza” anche una “Storia della bruttezza”, a una storia del sacro anche una storia del profano, a una storia del sublime anche una storia dell’infimo, dell’ignobile, dello squallido.

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