Fra uomo e natura

«Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo». Questo è l’incipit dell’Emilio o dell’educazione di Jean-Jacques Rousseau che così continua: «Egli sforza un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare i frutti di un altro; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, sfigura tutto, ama la deformità, i mostri; non vuol nulla come l’ha fatto la natura, nemmeno l’uomo; bisogna che lo addestri per sé, come un cavallo da maneggio, che lo configuri a suo modo, come un albero del suo giardino» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 51). Ma questo tema non è solo e soltanto l’inizio dell’opera, ma anzi di questo tema si potrebbe dire che apre l’opera per darne, in partenza, la conclusione. Questo non è infatti un tema fra gli altri, ma anzi il tema dei temi, cioè il tema dell’origine dell’uomo, che sembra essere perfettamente rappresentato dal pittore fiammingo Hieronymus Bosch nel suo Trittico del Giardino delle Delizie. Le cose presentate nell’incipit dall’autore dell’Emilio, quali la generazione edenica dell’uomo sotto la luce della grazia e la degenerazione sotto la tenebra del peccato dopo la caduta dell’uomo dall’Eden, appaiono ai nostri occhi una vera e propria descrizione della tavola di Bosch. L’uomo che ora «mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, sfigura tutto, ama la deformità, i mostri» descritto poc’anzi da Rousseau sembra rispecchiare magistralmente le figure umane, per non dire mostruose, raffigurate sulla tavola di destra del Trittico dallo stesso Bosch qualche secolo prima. Ma che cos’è l’Emilio? L’Emilio, che è un libro tanto letto eppur così poco capito, per ammissione dello suo stesso autore, non è che un trattato sulla bontà originaria dell’uomo, destinato a dimostrare come il vizio e l’errore, estranei alla sua costituzione, si introducono in lui dall’esterno alternandolo insensibilmente. Dunque non è un caso che Rousseau col suo Emilio volesse indicare una via seguendo la quale si potesse conservare la bontà naturale e originale dell’uomo restando indenni dalla corruzione operata dalla società. «Egli [infatti] nella conoscenza non cerca la conoscenza, ma la regola per la vita» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 17) allontanandosi così dal sentire comune del tempo, per lo più un sentire dettato dallo spirito illuministico che ricercava col solo uso della ragione la verità per la verità e che ritrovava nel materialismo di d’Holbach e Lamettrie, nello scientismo gnostico di d’Alembert, nell’empirismo sensistico di Condillac, nella morale dell’interesse di Helvetius, nel naturalismo vitalistico di Diderot le principali voci del Secolo dei Lumi. Questo, insomma, per dirla in poche e chiare parole, è il cosiddetto “romanticismo pragmatico” di Rousseau: “romanticismo” perché il sentimento non è più al servizio della ragione, ma anzi è la ragione stessa al servizio del sentimento e “pragmatico” perché, per Rousseau, non conta tanto la verità in sé quanto la felicità dell’individuo anche a costo di qualche contraddizione. E, infatti, è lo stesso Rousseau che fra le pagine dell’Emilio scrive: «Lettori volgari, perdonatemi i miei paradossi: bisogna farne quando si riflette; e, checché possiate dire, preferisco essere uomo da paradossi che uomo da pregiudizi» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 106). Ecco quindi il perché delle contraddizioni, delle controversie, dei paradossi di Rousseau: pensatore sì “pieno di paradossi”, ma che non è tanto interessato a un sistema filosofico coerente e formale quanto a un sistema pedagogico o, comunque, se si preferisce, educativo fornito di begli esempi. Ma se la concezione rousseauiana, secondo la quale l’uomo di natura basta a sé stesso perché equilibrato fra i suoi bisogni, i suoi desideri e le sue forze per soddisfarli, è contrapposta in tutto e per tutto alla concezione hobbesiana, secondo la quale lo stato di natura è propriamente lo stato del «bellum omnium contra omnes», cioè della guerra di tutti contro tutti, poiché «homo homini lupus», cioè l’uomo è un lupo per l’uomo. A che serve dunque l’educazione? L’educazione, per Rousseau, serve perché l’uomo della società, cioè l’uomo del Contratto sociale, è quello in cui l’equilibrio fra bisogni, desideri e forze per soddisfare quest’ultimi si è rotto completamente favorendo così solo l’imperversare della forza sui desideri o, comunque, della possibilità sulla necessità, infatti l’uomo vuole ora tutto ciò che può e, potendo tutto, vuole anche tutto. Allora l’educazione non solo serve ma diventa così necessaria perché: «Noi nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze, nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza, nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto ciò che non abbiamo alla nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi, ci è dato dall’educazione» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 52). Ma, allora, che cosa vuole insegnare l’educazione di Rousseau? Ebbene, se l’interrogativo sul perché del male con lo stesso Rousseau non trova risposta, quest’ultima domanda la trova invece fra le stesse pagine del suo Emilio. Dice infatti Rousseau: «Che si destini il mio allievo alla spada, alla Chiesa o alla toga, poco m’importa. Prima che la vocazione sceltagli dai genitori, la natura lo chiama alla vita umana. Il mestiere di vivere è quello che voglio insegnargli. E uscendo dalle mie mani egli non sarà, ne convengo, né magistrato, né soldato, né prete; sarà prima di tutto uomo: […]» (p. 59), perciò questa educazione è l’educazione che insegna all’uomo a essere uomo, educazione quindi, quella di Rousseau, dell’uomo e per l’uomo. Uomini dunque che proprio perché uomini «foste non fatti a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri, Inferno, XXVI, vv. 118-120). Questo il messaggio di Rousseau per non ritrovarsi a essere dei bruti, delle bestie, dei mostri come rappresenta il Trittico di Bosch servendosi così di un’educazione umana e naturale affinché il sonno della ragione non generi mostri. Un’educazione comunque lunga, estenuante, per non dire impossibile, dice infatti Gentile: «La via del sapere sincero è lunga; […]. Questa voglia non si fa nascere dando un sapere, ma dando il bisogno del sapere, […]» (Giovanni Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Sansoni, Firenze 1959, p. XI). Quest’ultimo oltrepassa per certi aspetti con Rousseau una concezione “popolare” di pedagogia, che ritiene esista un’età appropriata per educare, per lo più l’infanzia, quando, in realtà, sia stando a Gentile che a Rousseau non c’è mai un’età giusta per imparare, ma piuttosto si potrebbe dire che c’è un’età per ogni cosa. Insomma, sia per l’uno sia per l’altro l’educazione non ha nè inizio nè fine, ma anzi è un eterno divenire proprio perché il processo educativo è un processo continuo di formazione dello spirito, per Gentile, e dell’uomo, per Rousseau, che dura per tutta la vita. Tuttavia se l’educazione rousseauiana «fai da te», per dirla con l’espressione di Bodei, preferisce il saper far al sapere, il contadino al filosofo, l’uomo al cittadino poichè dice Rousseau riferendosi al suo Emilio: «Mi basta che sappia trovare ciò che serve in tutto quello che fa, e il perché in tutto quello che crede» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 112). Invece, per Gentile, la pedagogia viene a coincidere con la stessa filosofia dello spirito, poiché è finalizzata alla formazione dello spirito di ciascuno affinché fuoriesca dallo stato kantiano di «minorità»; ne consegue dunque che non può essere ridotta né ad una mera precettistica né ad una scienza pratica o normativo. Invece, quest’ultimo aspetto della praticità è centrale per lo stesso Rousseau, secondo il quale «non si tratta di capire ciò che è, ma soltanto ciò che è utile» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 142). Utilità è così la parola sacra, «la parola che determina tutte le azioni della nostra vita» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 154). Dunque, se Kant nella Critica della ragion pura diceva: «Ho dovuto dunque mettere da parte il sapere, per far posto alla fede: […]» (Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, p. 51). Allora, si potrebbe dire, che Rousseau dica in quest’ultimo passaggio che sta mettendo da parte il sapere, per far posto all’utilità avviandosi così a un apprendimento «più in azioni che in discorsi» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 112), più spontaneo che imposto, più secondo natura che secondo ragione. La dimensione prioritaria dell’azione e della spontaneità sui discorsi e sulle imposizioni ricordano per contrasto le riflessioni hegeliane sull’educazione, e per concordanza quelle zambraniane sul gioco. Quest’ultima, in particolar modo, sembra piuttosto prossima agli stessi identici principi delineati da Rousseau col suo Emilio, per esempio quando dice: «ll bambino si sente sottomesso ai suoi genitori, alla scuola, perfino ai suoi, compagni di giochi, perfino alle pareti della sua camera e al giardino in cui gioca, alla città in cui vive, […]. Gioco [dunque] non è distrazione: solo gli adulti, frivoli, svuotati di se stessi, hanno bisogno di distrarsi, ossia di fare tanto per fare, di fare senza passione né finalità» (Maria Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 50-51). Così dice Zambrano: «L’intervento degli adulti nella vita pubblica fa frenare la storia avviata dai giovani» (Maria Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 54), che sembra essere una parafrasi del passo dell’Emilio quando Rousseau stesso dice: «La nostra mania didascalica e pedantesca è pronta a insegnare ai bambini ciò che essi imparerebbero meglio da soli e a dimenticare ciò che noi soli gli avremmo potuto insegnare» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, p. 89). Non è facile esagerare l’importanza storica di Rousseau. In ogni campo o quasi della cultura egli è stato considerato per qualche aspetto come un «precursore». A questo proposito merita citare questa pagina di H. F. Amiel: «J. J. Rousseau è un precursore (ancêtre) in tutto: egli ha creato il viaggio a piedi prima di Töpffer, la “rêverie” prima di René [Chateaubriand], la botanica letteraria prima di George Sand, il culto della natura prima di Bernardin de Saint-Pierre, la discussione politica e la discussione teologica prima di Mirabeau e Renan, la pedagogia prima di Pestalozzi, la descrizione delle Alpi prima di De Saussure; egli ha messo di moda la musica e ha risvegliato il gusto delle confessioni al pubblico; ha creato un nuovo stile francese, lo stile serrato, legato, denso, appassionato. Insomma si può dire che niente di Rousseau si è perduto e che nessuno ha influito più di lui sulla Rivoluzione Francese, perché ne fu il semidio fra Necker e Bonaparte, e che nessuno ha influito più di lui sul XIX secolo, perché Byron, Chateaubriand, M.me de Staël, George Sand derivano da, lui» (notazione dei 13 agosto 1865, in Fragments d’un journal intime, 8°ed., Genève, I, 219). A parte le naturali esagerazioni quest’ultimo passo è importante perché rivela la molteplicità di campi d’interesse di Rousseau, nei quali egli è stato per l’appunto quando più quando meno un precursore. Non a caso l’influenza del pensiero rousseauiano è e rimane una costante ancora oggi, anzi soprattutto oggi, dal momento che in un clima, il nostro, di «nuovo illuminismo», per dirla con l’espressione di Abbagnano, o, per converso, di nuovo oscurantismo, la problematica di Rousseau ritrova una sorprendente attualità. Questo perché Rousseau, per dirla con le parole di Aldo Visalberghi, «ridà misura umana alla cultura e alla scienza, difende la naturalità dell’uomo dalle infinite sovrastrutture che minacciano di soffocarlo rendendosi conto che il problema è in primo luogo un problema di educazione […]. Tutte queste esigenze hanno trovato largo sviluppo nella migliore pedagogia contemporanea e la sistemazione in complesso più organica e coerente nella filosofia di Giovanni Dewey» (Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2003, pp. 43-45), ma non solo. Se, infatti, ancora oggi si parla di Rousseau è perché egli oltre a segnare profondamente la storia del pensiero pedagogico ha segnato innanzitutto e soprattutto la storia del pensiero occidentale tout court.

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