Il tempo perduto di Michele Mari

di Agnese Pieri
Una sera d’estate due vecchi in un ospizio si raccontano l’un l’altro: «”Adesso però, prima di rientrare, raccontiamoci qualcosa di ameno”. “Va bene. Quando era di buon umore, mio padre mi diceva: “Ciao porco”, oppure: “Ciao porcello”, oppure: “Ciao porcottino”. Rimasto solo mi dicevo: “Sì sono un porco”, e me la ridevo”. “Io, quando facevo merenda con il latte, mettevo nella scodella tanti pezzi di pane fino a che il cucchiaio rimanesse in piedi da solo. Se entrava in cucina mio padre diceva: “Che bel paciaròt !”, e me ne rubava un po’ “. “Non c’è stato molto altro, nella vita”. “No, è quasi tutto laggiù”».
     Anche per Michele Mari sembra che funzioni esattamente così, tanto che nella sua Leggenda privata, edita da Einaudi nel 2017, ha avuto poco o nulla da narrare, della sua vita, che galleggiasse alla superficie del mondo sommerso dell’infanzia, della sua sanguinosa infanzia, fonte ispiratrice di poesia quasi a rispettare la legge tolstojana secondo la quale, con lieve modifica, tutte le infanzie felici si assomigliano, ogni infanzia infelice è infelice a modo suo. Ed è il suo modo di essere infelice, che rende l’infanzia luogo prediletto a cui tornare per scoprire dov’è che ci troviamo ora, cosa che a Mari interessa parzialmente, rispetto a capire com’è che ci sia arrivato. E’ infatti laggiù, negli spazi acquosi e misteriosi della memoria, che Michele Mari si muove e, abile cacciatore subacqueo, riporta alla luce le strane creature con le quali crebbe bambino: il temutissimo padre Enzo Mari, pioniere del design italiano, la mamma Iela, malinconica disegnatrice, la bella cameriera Donatella – Ivana – Loretta, dal nome mai scoperto e incredibili zoccoli rossi, il nonno materno, assiduo lettore di spaventosi Urania dalle copertine misteriose, i pancotti con l’olio buono, l’enuresi notturna, la Dea Letteratura. Tra queste creature lo scrittore si muove seguendo un moto imprevedibile, zigzagante, associativo, con un racconto caracollante che si snoda dal tema bacino della buonanotte alla storia delle sculacciate di casa Mari per poi approdare al paese dei nonni materni e alle sue tre case grandi.
      La sua vicenda privata si ribella sotto i nostri occhi alla linearità favolistica del c’era una volta, Tant’è che per più volte, nelle pagine iniziali, leggiamo il tentativo fallito di cominciare a narrare rispettando il protocollo autobiografico: «Nacqui d’inverno, otto mesi dopo l’increscioso viluppo primaverile..»; «Nacqui d’inverno eccetera, l’abominevole coito i miei nomi. Poi, lo studio.»; «Nacqui hieme ineunte. Poi, ragazzino, incomincia a trasferire particole di anima nei libri che leggevo…». Tentativi di seguire un ordine da manuale immediatamente sabotati dalle incursioni di ricordi improvvisi, disordinati, anarchici, e infine cuciti insieme a realizzare un disegno compiuto. L’autobiografia di Mari ricorda una coperta all’uncinetto con fantasia di quadri dai colori diversi: la confusione dei quadretti multicolori è solo apparente perché schivata grazie alla mirabile tecnica dello scrittore, al suo stile inconfondibile, che li unifica in un insieme coerente. La lingua gaddiana e iperletteraria, caratteristica arcinota di Mari, accoglie qui anche il lessico famigliare suo proprio, echeggiando ad un altro famoso Lessico famigliare, nel quale Natalia Ginzburg ripercorre la storia dei membri della sua famiglia anche attraverso la strada della lingua, della parole individuale, segno particolare tipizzante quasi più dell’andatura, di un taglio d’occhi, della linea del naso. Insieme al lavoro sulla lingua c’è poi la fantasia gotica, orrifica e bambinesca, fantasia alla Piccoli Brividi, che fa da cornice al racconto: Quello che Gorgoglia e Quello che Biascica, affiliati all’Accademia dei Ciechi, e poi l’Accademia della Cantina, i manipolatori dei bulbi oculari, Quella dalle Orbite Vuote, insomma tutta un’antologia di personaggi oscuri, minacciosi e assolutamente intenzionati a ottenere la più vera autobiografia possibile da parte del povero Mari.
       La sterile opposizione, almeno in letteratura, tra cos’è vero e cos’è finto, tra cos’è vita e cos’è letteratura, sembra qui ancora più inutile, ed è lo stesso Mari a svelare quanto l’atto del raccontare verità intime, le proprie indecenti pudenda, abbia bisogno di un proporzionato armamentario di raffinati strumenti libreschi, lontani da ogni realtà, esattamente come ogni buona poesia lirica, come ogni volta che si compie l’audacia indecente di parlare di sé: «tanto più vado a toccare temi intimi, temi teneri, temi scabrosi tanto più io devo artificiare e complicare la mia pagina, secondo un rapporto di proporzionalità inversa, per cui tanto più vera e diretta è la materia tanto più artificiale, culturalmente mediato, pieno di reminiscenze letterarie e di maniere tradizionali è lo stile». Che è poi una delle eredità estetiche più importanti della classicità, quella di decorare la propria vita interiore nel momento in cui si fa espatriare nella regione della letteratura, ottenendo in caso contrario qualcosa di simile a Una vita apparentemente perfetta della Hunziker o alle sciatterie sentimentali dei nostri diari privati.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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