Atomo e Filosofia: amici di vecchia data

 

di Paolo Antonelli

Fin dall’antichità, gli uomini hanno cercato di venire a capo di cosa effettivamente esista, come e perché i fenomeni avvengano, quale sia il ruolo dell’umanità, cosa componga la materia. Per molto tempo a queste domande si è risposto ricorrendo alla Filosofia, sistema di conoscenza che convenzionalmente viene fatto nascere in Grecia, o meglio a Mileto, colonia greca dell’Asia Minore.

Non è che non sapendo di cosa parlare la sera tra amici – effettivamente lo sport ancora non esisteva, se non le olimpiadi, ma di sicuro non il calcio – i greci si siano inventati la Filosofia. Alle precedenti domande si rispondeva anche prima che i greci iniziassero a ‘filosofare’, ma si faceva ricorso all’epica e al mito.

Aristotele, nel IV secolo a. C., indicò Talete  come il primo filosofo, o fisiologo[1], perché, per primo, si pose il problema dell’arché[2] delle cose, problema dalla radice senz’altro filosofica[3]. Affermando che l’acqua è il fondamento di tutte le cose – perché il nutrimento delle cose e i semi di tutte le cose sono umidi (Giannantoni, 1969, p. 90) – Talete dimostra una mentalità che sa combinare insieme l’osservazione, l’esperienza e il ragionamento: sa cioè passare dall’osservazione dei casi particolari alla legge generale. Una mentalità diversa da quella dei mitologi, la quale affermava, ma non spiegava. Per questo Talete è considerato anche il primo fisico: per i fenomeni cercava spiegazioni naturali senza alcun riferimento alla mitologia.

Talete, per così dire, ruppe il ghiaccio e aprì la strada ad un nuovo modo di indagare il mondo.

Sempre convenzionalmente, dopo la filosofia ionica (iniziata appunto da Talete) caratterizzata dal ‘monismo’, cioè da una concezione che poneva alla base della realtà un solo principio; dopo la battaglia – che poi, secondo i critici contemporanei battaglia non fu (Bonazzi & al. 2005, p. 29) – tra Parmenide ed Eraclito, sostenitori rispettivamente di una ‘realtà immobile’ o di una ‘realtà in continuo divenire’, i ‘pluralisti’ avrebbero elaborato delle dottrine capaci di risolvere tutti i problemi e le difficoltà riscontrate fino a quel momento[4].

 

Empedocle di Agrigento, vissuto nel V secolo a.C., fu il primo di questi ‘pluralisti’. Traendo spunto dal discorso parmenideo, egli criticò i concetti di nascita e morte come erano comunemente intesi. Teorizzò piuttosto una mescolanza e una separazione di quattro elementi originari ed eterni che chiamò radici[5], a cui attribuisce i nomi di: Zeus (fuoco), Era (aria), Edoneo (terra), Nesti (acqua) (Giannantoni, 1969, p. 374). Secondo Empedocle, i quattro elementi, immodificabili, costituiscono la materia, la quale è in continua trasformazione grazie ad una ‘forza’ ad essa interna, chiamata philìa e neikòs[6].

Sul piano cosmico, l’amicizia si presenta come una forza aggregante, che unifica gli elementi; la contesa come una forza disgregante che tende alla separazione degli elementi (Giannantoni, 1969, p. 380).  Tutte le cose di cui si fa esperienza nella realtà – quindi anche gli uomini – sono il risultato del comporsi e dello scomporsi delle quattro radici, soggette all’azione di amicizia e contesa.

Empedocle trattò di moltissime altre questioni (come più o meno tutti i grandi sapienti dell’antichità) e già in vita ottenne una fama notevole: nelle città in cui andava, grandi folle di persone lo aspettavano e lo veneravano come un dio (bei tempi per ‘filosofeggiare’!). Ebbe, inoltre, secondo una testimonianza di Filopono, filosofo neoplatonico del V secolo d.C., la grandissima intuizione – che fece scandalizzare Aristotele (Bonazzi & al. 2005, p. 43) – che la luce fosse composta di corpi, per cui impiegherebbe un certo tempo per raggiungere la terra dal sole (è vero: circa 8,3 minuti!), dovendo obbedire alle stesse leggi che regolano il moto degli altri corpi.

 

Il ‘secondo pluralista’ è di eccezionale importanza per molti motivi. Per prima cosa, con Anassagora la filosofia fece la sua comparsa ad Atene. La città, dopo la plateale vittoria della grecità tutta sulla Persia, si era lanciata in una politica egemonica che la rese il centro economico e politico più importante della Grecia: ascesa che coincise con un periodo di grande splendore interno, grazie alla figura di Pericle. Egli fu in grado di coagulare intorno a sé, nel famoso ‘circolo di Pericle’, le intelligenze più brillanti del tempo: poeti, scultori, architetti e filosofi, tra cui Anassagora.

Inoltre, il metodo di Anassagora segna la cesura, ormai completata, tra la mentalità filosofica e la mentalità mitologica. A questo proposito, una testimonianza di Plutarco è estremamente significativa:

 

Si dice che una volta fu portata a Pericle dalla campagna la testa di un montone con un corno solo. L’indovino Lampone, come vide il corno forte e robusto che spuntava da mezzo la fronte, disse che, essendoci in città due partiti, di Tucidide e di Pericle, il potere sarebbe passato nelle mani di uno solo, e cioè di quello al quale era capitato il presagio. Ma Anassagora, spaccato il cranio della bestia, mostrò come il cervello non riempiva la sua sede naturale, bensì da tutta la cavità si era raccolto aguzzo come un uovo in quel luogo da dove aveva inizio la radice del corno (Giannantoni, 1969, p. 562).

 

Questo bisogno di spiegare con ragioni da tutti osservabili quegli stessi fatti oggetto delle interpretazioni misteriche degli indovini segna il distacco tra la nuova mentalità razionale e la vecchia mentalità mitologica. L’episodio ci permette di notare come il modus operandi anassagoreo unisca strettamente il fare e il pensare: l’uomo non si limita a ‘fantasticare’ sulla realtà, ma cerca di comprenderla anche perché agisce in e su di essa. Con questo metodo e questa mentalità, Anassagora affrontò tutta una serie di problematiche. Del resto, questo atteggiamento rivoluzionario fu tra le cause che portarono Anassagora ad entrare in conflitto con i rappresentanti del potere culturale tradizionale, come il “dolce seppur spinoso” Lampone: fu, infatti, accusato di empietà e costretto a lasciare Atene.

La spiegazione anassagorea della realtà avviene partendo dall’ipotesi che esistano dei semi, che costituiscono le particelle minime della materia. Questi semi – che Aristotele chiamò omeomeri, cioè ‘parti uguali’, a indicare che per quanto i semi vengano divisi all’infinito, non perdono le loro caratteristiche qualitative (Giannantoni, 1969, p. 571) – infiniti e incorruttibili, si ritrovano nella composizione di tutte le cose. Perché, però, un pezzo di minerale ferroso ci appare ‘più minerale’ e ‘più ferroso’ piuttosto che fuoco o sangue o broccoli? Semplicemente perché, in esso, prevalgono i semi del minerale ferroso (Curd, 2015). I semi di tutte le specie si ritrovano in tutte le cose e ogni cosa è caratterizzata qualitativamente dalla specie di semi che in essi predomina.

Cosa regola il comporsi e il separarsi dei semi? Anassagora ipotizzò un processo cosmico che partendo da un primitivo ‘miscuglio’, conduce gradualmente al formarsi dei mondi e alla caratterizzazione interna di ognuno di essi (Giannantoni, 1969, p. 602). In questo processo cosmico di separazione e trasformazione, Anassagora unì forza e velocità, riconoscendo che le velocità di questi processi sono superiori alle velocità di cui abbiamo esperienza tutti i giorni (Giannantoni, 1969, p. 605): secondo il filosofo, la legge che regola questo processo sarebbe il nous [7].

Il nous è nous. È un’affermazione tautologica e ridondante, tuttavia utile a sottolineare che non è possibile identificare l’intelletto di cui parla Anassagora con una mente divina trascendentale, perché nella sua filosofia sono esclusi qualsiasi intervento di forze esterne e qualsiasi miracolo (come ci racconta anche Plutarco). Inoltre, non si possono interpretare le leggi che regolano la trasformazione dell’universo e delle forme di vita che in esso appaiono in senso finalistico, riconoscendo un fine esterno o precostituito del processo stesso: questo ce lo provano le critiche di Aristotele ad Anassagora e la delusione di Platone, il quale avrebbe voluto vedere nel nous qualcosa in più di una semplice legge meccanica del divenire (Bonazzi & al. 2005, p. 51).

 

Arriviamo, infine, al nucleo della questione. I filosofi antichi riuscirono a comprendere che il mondo può essere studiato e capito attraverso la ragione e l’immaginazione, che, da sempre e ancora oggi, permettono di fare ricerca in qualsiasi campo (Rossi, 1997, pp. 187-190). È di straordinaria importanza che, tra la seconda metà del V secolo a.C. e i primi decenni del IV secolo a.C., si affermò nella cultura greca la scuola atomistica, la quale traeva spunto tanto dal pensiero degli Ionici quanto dalle dottrine parmenidee. Suo iniziatore fu Leucippo di cui si sa veramente poco, anche se le testimonianze antiche sulle sue dottrine sono autorevoli: niente di meno che Teofrasto e il “solito” Aristotele. Tradizionalmente, nacque a Mileto e poi si recò ad Abdera, dove ebbe come allievo Democrito. Questo “dinamico duo” cercò di trovare concretamente un’ipotesi in grado di spiegare la realtà, che, oltre ad essere razionalmente corretta, fornisse una valida giustificazione di tutti i fenomeni particolari. Questa ipotesi era l’atomo[8].

Tutti i corpi di cui abbiamo esperienza sono divisibili, ma per spiegare questa divisibilità e le varie trasformazioni a cui sono soggetti, bisogna ammettere che tutti sono costituiti da elementi primi indivisibili: gli atomi, appunto. Democrito riteneva che gli atomi si trovassero nel vuoto infinito, nel quale non c’è distinzione di alto, basso, mezzo, ultimo, estremo; che si muovessero in modo tale da aggregarsi quando si incontrano nei loro movimenti e che non ci fosse alcuna finalità in questo, ma solo l’azione di un movimento eterno (Giannantoni, 1969, p. 690). L’ipotesi che la realtà sia composta da atomi di diverse forme (le diversità di forme e grandezza sono le uniche qualità che Leucippo e Democrito attribuirono agli atomi, oltre ovviamente l’indivisibilità), i quali si aggregano e si disgregano in varie modalità dando luogo alla molteplicità del reale e alla differenziazione qualitativa dei fenomeni, è un’ipotesi razionale. Degli atomi infatti non si può avere percezione sensibile, ma il loro mescolarsi permette di dare una valida spiegazione della realtà: quando gli atomi si aggregano, l’unica cosa che interessa è la loro forma, la loro disposizione e l’ordine in cui si combinano (Rovelli, 2014).

Anche l’uomo, come tutti gli enti, è infatti formato da atomi, i quali sono in rapporto con tutti quelli degli altri enti. Questo non significa che siamo dei dispositivi bluetooth costantemente collegati con gli altri, ma che il rapporto tra i nostri atomi e quelli degli altri enti è ciò che chiamiamo sensazione. L’anima, infatti, è un aggregato di atomi lisci, rotondi e mobilissimi. E sono proprie queste caratteristiche atomiche che danno agli uomini la facoltà di percepire il mondo esterno.

Questo portò Democrito ad affermare due cose. Innanzitutto anche l’anima deve essere corporea, ossia composta da atomi, poiché solo così possiamo venire impressionati dagli oggetti esterni – secondo una testimonianza di Aristotele, per Democrito l’anima sarebbe stata composta da atomi di fuoco (Berryman, 2016).

In secondo luogo, l’uomo, oltre alla facoltà di sentire, ha un’altra facoltà, quella di accorgersi di sentire, che costituisce la base del pensiero[9]. Per questo Democrito distinse tra due forme di conoscenza. Degli atomi non si può avere sensazione, perché, nonostante siano corpi fisici a tutti gli effetti, sono piccolissimi e sfuggono ai nostri sensi.. Si può avere sensazione solo dei composti degli atomi, e queste sensazioni riguardano quelle che comunemente chiamiamo ‘qualità’ dei corpi, le quali vengono mediate dai sensi. Esse sono ‘vere’, in quanto esprimono reali modificazioni del nostro essere in base ai rapporti mutevoli tra i nostri organi di senso e gli enti a noi estranei, ma sono appunto mutevoli perché questi rapporti cambiano continuamente. Democrito chiamò ‘oscura’ questa forma di conoscenza, distinguendola da quella ‘genuina’, la quale non si fonda sugli aspetti mutevoli del rapporto “noi – altri corpi”, ma sulle strutture stesse della realtà, strutture[10] che possono cogliersi solo con l’intelletto, con una forma di pensiero che non è immediatamente legata ai nostri sensi (Giannantoni, 1969, p 749). Ciò non significa che tra sensi e ragione vi sia una frattura, anzi vi è un rapporto di continuità seppur con un salto qualitativo: la conoscenza razionale deve muovere da quella sensibile e deve ritornare ad essa nel darne le giustificazioni e le ragioni.

 

La dottrina fisica di Democrito venne ripresa da Epicuro, filosofo vissuto a cavallo dei secoli IV e III a.C. Egli si inserì nel solco aperto dalla tradizione atomistica e fu particolarmente attento sia alla determinazione degli atomi e delle loro proprietà primarie – cioè forma, grandezza e peso – sia alla trattazione del vuoto, che può essere occupato da un corpo (inteso quindi come luogo), non occupato (dunque vuoto in senso stretto) e percorso dai corpi (perciò spazio).  Discostandosi dalle idee democritee, indicò come finito (anche se comunque innumerabile per la mente umana) il numero dei tipi di atomi, pur riconoscendo che di ogni singolo atomo vi sono poi infiniti esemplari (Epicuro, Arrighetti, 1960, p. 40). Egli inoltre ammise una divisibilità teorica degli atomi, che tuttavia troverebbe anch’essa fine nella postulazione dei cosiddetti elachista o minima, i minimi non più divisibili neppure dal pensiero (Bonazzi & al. 2005, p. 261).

È straordinario quanto Epicuro, con le sue teorie, iniziò a mettere in crisi l’indivisibilità dell’atomo che venne poi dimostrata scientificamente sul finire del XIX secolo e nel secolo successivo!

L’originalità di Epicuro, inoltre, si riscontra soprattutto nella trattazione del moto atomico. Nell’Epistola a Erodoto vengono indicati due tipi di movimento, ma la fondamentale testimonianza del De rerum Natura di Lucrezio[11] permette di arricchire il quadro. Oltre al moto rettilineo, per caduta dovuta al peso secondo una ‘pioggia’ perpendicolare caratterizzata nel vuoto da una velocità che rischierebbe di impedire ogni incontro tra atomi (Lucrezio, Fellin, 2014, p. 154); oltre al moto per rimbalzo, garanzia del reciproco agganciarsi degli atomi per produrre aggregati (Epicuro, Arrighetti, 1960, pp. 36-42), bisogna considerare il moto per declinazione (il clinamen lucreziano). La declinazione è un minimo, casuale e spontaneo movimento dell’atomo in caduta, il quale devia dal percorso in un momento del tutto indefinito e in un punto incerto «quel tanto che basta per dire che è mutato il movimento (Lucrezio, Fellin, 2013, p. 154)». Al di là delle molte controversie interpretative in cui è stato ed è avvolto, la dottrina epicurea/lucreziana del clinamen dovrebbe servire a combattere in modo radicale ogni forma di determinismo fisico in favore di una visione indeterministica, secondo una teoria fisica ritenuta da molti studiosi attuale, soprattutto in seguito alle scoperte e agli sviluppi della fisica quantistica.

 

La storia dell’atomo sarebbe ancora lunga, e includerebbe il fatto che la teoria atomistica, tanto nella sua forma democritea ed epicurea quanto dei versi lucreziani, fu messa all’Indice dalla Chiesa Cattolica e ne venne vietata la diffusione. Ciò però non impedì che con il nascere della scienza moderna l’intero sistema religioso tradizionale fu messo in crisi. Da allora l’uomo è tornato ad interrogarsi liberamente, come al tempo dei greci, sull’enormemente grande e sull’infinitamente piccolo.

 

 

[1] Dal greco “φύσις”, «natura».

[2] Dal greco ἀρχή, «principio», «origine».

[3] Anche questa affermazione deriva da una testimonianza di Aristotele e gli studiosi moderni hanno sottolineato che la dottrina dell’ἀρχή, come viene presentata nella formulazione di Aristotele (cioè come una sostanza che rimane identica nel variare e nel divenire della molteplicità dei fenomeni) è una dottrina molto più aristotelica che taletiana (Bonazzi, Cardullo, Casertano, Spinelli, Trabattoni, 2005, p. 14). La testimonianza di Aristotele, tuttavia, ci offre indicazioni sulla nuova mentalità di Talete.

[4] Questo schema oggi non viene più accettato da quasi tutti gli studiosi dei presocratici, sia perché contiene delle vere e proprie inesattezze storiche, sia perché rappresenta una forzatura e una semplificazione eccessiva di un periodo culturalmente molto complesso. In piena epoca ‘monistica’ è presente una posizione decisamente ‘pluralistica’ come quella dei Pitagorici; non è possibile parlare di una opposizione tra Parmenide ed Eraclito, perché sono molti i punti in contatto tra le loro visioni del mondo (Bonazzi & al. 2005, p. 41).

[5] Questa quadripartizione verrà poi accolta da Platone, da Aristotele, dagli stoici e ha tenuto banco fino alla rivoluzione scientifica del XVI secolo.

[6] Dal greco “φιλία”, «amicizia» e “νεικóς”, «contesa».

[7] Dal greco «νοῦς», “intelletto”.

[8] Dal greco: ά-τομος, indivisibile, unione di α [alfa privativo] + τέμνειν [tagliare].

[9] Questa facoltà, cioè il pensare, oltre ad essere rivolta al soggetto conoscente, è quella «mediante la quale gli uomini si accertano della verità delle cose (atomi e vuoto) (Trabattoni, 2002, p. 40)».

[10] Cioè i differenti rapporti atomi-vuoto che sono alla base delle nostre differenti sensazioni.

[11] Opera nella quale, oltre a trattare e a difendere la dottrina atomistica, confutò il pensiero fisico tanto di Empedocle quanto di Anassagora (Lucrezio, Fellin, 2013, pp. 107-111).

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • Bonazzi, M. Cardullo, L. Casertano, G. Spinelli, E. Trabattoni, F. (2005). Filosofia antica. Milano, Italia: Raffaello Cortina Editore.
  • Arrighetti, G. (1960). Epicuro: Opere. Torino, Italia: Einaudi.
  • Giannantoni, G. (1969). I presocratici. Testimonianze e frammenti. Bari, Italia: Editori Laterza.
  • Fellin, A. (2013). De Rerum Natura. Novara, Italia: UTET.
  • Rossi, P. (2000). La nascita della scienza moderna in Europa. Bari, Italia: Editori Laterza.
  • Trabattoni, F. (2002). La filosofia antica. Profilo critico-storico. Roma, Italia: Carocci Editore.

 

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La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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