#Weshouldallbefeminists
Femminismo non è una parola che piace. E l’aggettivo da cui deriva, femminista, non è solitamente attribuito elogiativo. Tutt’altro. Personalmente, per anni al termine femminista non ho associato altro che l’immagine di una professoressa del liceo, che dicevano essere femminista per via del suo taglio di capelli mascolino e delle ascelle incolte. Finché ho incontrato Chiamamanda.
Chiamamanda Ngozi Adichie è una scrittrice nigeriana, i cui romanzi sono stati tradotti in più di trenta lingue, e che deve la sua fama internazionale in parte a un talk tenuto a Londra sul palco di TEDxEuston nel 2012 (trovate il video qui). Il talk in cui mi sono imbattuta accidentalmente qualche anno fa, navigando sul sito di TED col banale intento di fare un po’ di esercizio d’ascolto in inglese; il talk che me l’ha fatta subito amare. Quello che più mi affascinò di Chiamamanda in quel video, oltre alle coloratissime fantasie africane dei suoi abiti e ai complicati disegni della sua acconciatura, era la disinvoltura e l’orgoglio con cui Chiamamanda si definiva femminista. Lei, bella, femminile e, udite udite!, senza ascelle pelose.
«My dear friend […] was right, that day, many years ago, when he called me a feminists. I am a feminist! […] And more of us should reclaim that word.»
Il titolo di quel talk, divenuto poi libro e New York Times bestseller nel 2014, è We should all be feminists. Vi sarà capitato, forse, nei mesi scorsi, di imbattervi su Twitter o su Facebook nella foto di Rihanna con la t-shirt We should all be feminist, parte della collezione primavera 2017 di Dior. Ecco, il riferimento della scritta sulla maglietta è proprio al talk di Chiamamanda, ed è solo la più recente conferma dell’influenza che quel discorso ha avuto a livello mondiale nel riaprire la conversazione su questioni di genere, ma anche e soprattutto nel riscattare il termine femminista dalla connotazione negativa che vi gravava dall’epoca degli eccessi al limite della misantropia in cui culminò l’ondata femminista sessantottina.
Secondo la definizione di Chiamamanda, «a feminist is a man or a woman who says ‘Yes, there is a problem with gender as it is today, and we must fix it, we must do better’».
In quel talk (guardatelo! Se avete poco tempo da dedicare alla questione, smettete subito di leggere questo articolo, e aprite piuttosto il link youtube sopra!) Chiamamanda fa riferimento alla propria esperienza personale di donna nigeriana, a cui la vita di tutti i giorni ricorda costantemente di essere questo, una donna, prima che individuo, e come tale intrinsecamente svantaggiata, rispetto a un uomo, no matter how brilliant a woman she may be. E uno potrebbe dire, ok, ma quella è la Nigeria, noi siamo l’Italia, siamo l’Europa, la culla della civiltà! Noi siamo già passati per quella fase, abbiamo già conosciuto le lotte femministe, le donne da anni hanno ormai ottenuto i diritti per cui si sono battute: quale sarebbe il problema di genere che renderebbe il femminismo desiderabile e necessario per noi, nell’Italia del 2017?
Gender gap salariale e politico, objectification -o strumentalizzazione, per dirla all’italiana- del corpo femminile nei media, femminicidio: sono tutte realtà del nostro Paese tristemente note, su cui il movimento NONUNADIMENO ha riportato recentemente l’attenzione, sottolineando la necessità di un intervento politico dall’alto, che assicuri una maggiore tutela dei diritti della donna nel mondo del lavoro, nella sanità (ancor oggi, nel 2017, ci sono ospedali in Italia in cui la percentuale di medici obiettori di coscienza è pari al 100%), altro che diritto di autodeterminazione e di disporre liberamente del proprio corpo: vedi il caso di Valentina Milluzzo, e che si impegni nel promuovere un cambiamento culturale che parta dalle scuole, introducendo l’educazione alle questioni di genere nei programmi formativi.
E la radice di tutto sta proprio in questo: la nostra educazione, la nostra cultura. Una cultura il cui più grande problema è quello di credere di essere equa quando non lo è, quando ancora risente dei retaggi strutturali di una società patriarcale che, nonostante leggi e diritti su carta, nei fatti non abbiamo ancora superato.
Sei nata donna? E allora ti insegniamo ad essere donna! E se non ci pensa la nonna a insegnarti a rifare il letto, con molto più rigore di quanto non abbia fatto coi tuoi fratelli, se non te lo insegna la mamma ad aiutarla in cucina la domenica e nei giorni di feste, a fare i biscotti a Natale o le pulizie il sabato pomeriggio, ci pensano gli intramontabili cartoni della Disney vecchio stampo a farti vedere che la principessa che vive per sempre felice e contenta è quella che aspetta che arrivi il principe azzurro a portarle la felicità, a lei, femminile e bellissima, delicata e bisognosa, remissiva e apologetic. Ci pensano le Barbie a insegnarti che da grande devi essere una bomba sexy. E quale bambina potrebbe mai essere immune da tanto fascino?
Sei nato uomo? Allora sono subito Actionman e tartarughe ninja, trattori e dinosauri, macchinine e circuiti. E guai a piangere o frignare se stai male: per dirla alla trentina, sente omeni o sa sente?
Sono questi modelli di femminilità e di mascolinità che, per quanto ormai anacronistici e inadeguati, continuano ad essere riproposti dalla nostra società, a modellare la nostra cultura, e, inconsapevolmente interiorizzati, ostacolano la libertà di definirsi come individuo e essere umano, prima che uomo o donna (sempre ammesso e non concesso che ci si riconosca nella tradizionale definizione binaria di genere).
E penso che di quella libertà dovrebbero poter beneficiare tutti, ma che siano soprattutto le donne ad averne disperatamente bisogno, per la posizione di inferiorità a cui vengono relegate dal modello culturale di donna vigente.
E il problema maggiore sta nell’interiorizzazione di tale modello, che, anche se inconsciamente, plasma la nostra auto-percezione, il modo in cui noi vediamo noi stesse, come crediamo e quindi, in ultima istanza, decidiamo di essere.
Il mondo in cui viviamo ci educa ad ambire alla perfezione, in tutto: wonderwomen belle e brave, con un livello di istruzione in media superiore a quello dei nostri colleghi (vedi i dati del Global Gender Gap Report del World Economic Forum sopra citato). Eppure sono loro poi, in fin dei conti, a ricoprire ruoli dirigenziali, di rappresentanza, e più si sale nelle gerarchie professionali, meno sono le donne sedute al tavolo del potere, come hanno messo chiaramente in luce nei loro interventi sul tema alcune tra le donne più influenti al mondo, da Sheryl Sandberg nel suo libro Lean in: Women, Work, and the Will to Lead a Debora Spar in Wonder Woman: Sex, Power, and the Quest for Perfection. Perché?
Perché purtroppo viviamo in una società che ci insegna che siamo noi, in quanto donne, a dover rinunciare alle nostre ambizioni per gli altri, a farci carico di una mole di lavoro invisibile e non retribuito (quello domestico e assistenziale), molto di più di quanto non facciano i nostri compagni; in una società che troppo spesso ci costringe a scegliere tra famiglia e carriera, non garantendoci gli strumenti per portare avanti entrambi; e che non esita a farci violenza psicologica per spingerci verso una scelta piuttosto che l’altra (qualcuno ha detto Family day?).
Le femministe di vecchio stampo (vedi She’s beautiful when she’s angry, disponibile su Netflix), erano solite rompere il ghiaccio nelle loro sedute partendo dalla domanda: What would your life look like if you were born a male? In che modo sarebbe diversa la tua vita se fossi nata uomo?
Se la vita tua e/o delle donne che ti circondano continua ad essere determinata dal genere più di quanto non lo sia dalle loro qualità personali, allora abbiamo ancora un problema con il genere. E rendersene conto fa male, fa arrabbiare. Anche perché non c’è nessuno con cui prendersela. È una questione di cultura.
La buona notizia è, per dirla con Chiamamanda, che «culture doesn’t make people. People make culture». E abbiamo bisogno di persone che dicano ‘Sì, abbiamo un problema col gender, e dobbiamo fare meglio’; di femministe e femministi consapevoli fieri di essere tali. Perché il cambiamento della nostra cultura di genere non può più aspettare.