L’ennesimo re nudo.

Dario Corallo ha puntato il dito su un re nudo e quello si è risentito.

No, non parlo di Roberto Burioni. No, non parlo del Partito Democratico e delle storture al suo interno.

Il re nudo, dal mio punto di vista, è un altro ed è molto vicino a tutti noi: un giovane (e, poco prima di lui, una giovane, Katia Tarasconi, le cui parole – a voler pensare bene – non hanno avuto la stessa risonanza solo perché non si è spinta a fare il nome di uno dei nuovi idoli della “sinistra”) ha puntato il dito contro le responsabilità di un’intera classe dirigente che, come tale, è concentrata in persone più anziane di lui. In questo, credo stia la nudità del re: se la critica va dal giovane al meno giovane è automaticamente motivo di scandalo.

Ma andiamo con ordine. Un uomo sotto diversi punti di vista spaventoso una volta disse: “il potere logora solo chi non ce l’ha”. Non è questa la controversia posta da Tarasconi e Corallo, per quanto potrebbe sembrarlo, e nonostante in alcuni tentino una semplificazione forzata: non è una questione di “rottamare”, capovolgere l’ordine delle cose, “uccidere i padri” e sostituirli. Non è una lotta generazionale, per quanto una buona parte di quei contorni – temporali, di costumi, idee e modi – coincidano con quelli che sto provando a rappresentare.

Credo sia qualcosa di più profondo ed intimo: ricordo quando, da bambino, mi e ci veniva detto che da grandi saremmo potuti diventare qualsiasi cosa. Quella bella bolla confortevole, però, era poco più che una bugia: viveva degli strascichi di un ottimismo ormai decadente, di uno slancio che ha cavalcato gli anni ruggenti della rivoluzione informatica e dell’Europa delle possibilità. Si è schiantata, disintegrandosi, sulla velina di filo spinato posta tra noi e loro, tra pochi in e molti out.

In tanti, nel corso degli anni, hanno parlato di un “ascensore sociale” in avaria, non funzionante (e non funzionale) ma forse anche questa metafora è sempre stata una mezza menzogna. “Anche l’operaio vuole il figlio dottore”, certo: e per molti, ruggenti anni è anche riuscito nel suo intento. Ma non è più così, da diverso tempo.

Chi nasce in periferia, chi lavora per mantenersi gli studi o per dare una mano in casa, chi deve fare 3-4 ore per raggiungere il luogo dove poter esercitare il proprio diritto allo studio, chi – in quelle aule – trova di fronte a sé un docente stanco, impreparato, frustrato da anni di sfruttamento o infiacchito da un corporativismo cieco, unica distorta forma di “sindacalismo” per tante parti della nostra società. E no, non ce l’ho con gli operai, i dipendenti pubblici, gli impiegati, gli agricoltori, i precari, gli esodati che, nonostante tutto, scioperano e lottano.

A chi ribatte: “non è vero, ci sono figli di normali dipendenti che riescono a sfondare”, vorrei ricordare che i “dipendenti” con gli operai di quella canzone non sono sovrapponibili. E sì, ci sono situazioni, città, università, persone che ancora riescono ad emergere da contesti sfavorevoli. Alcuni – magari la maggior parte – di coloro che falliscono nel tentativo di compiere questo salto magari avrebbero “perso” a prescindere. Ma tutti gli altri, come li consoliamo?

Che ne è di quegli “operai” che volevano i figli dottori? Dove sono? Non saranno mica sovrapponibili a quelle ampie fasce di popolazione abbandonate a loro stesse in una periferia qualsiasi delle nostre medie e grandi città, da Mestre a Torino, da Verona a Palermo? In un certo senso no, perché quegli operai, almeno fino ad un certo momento storico, rappresentavano appieno una cultura popolare capace di grandissimo slancio e di lotte monolitiche. In un altro sì, perché demograficamente le due classi sembrano coincidere, sebbene oggi le tute blu siano orfane del loro vecchio spirito di corpo.

Poi magari c’è anche chi s’illumina: “fermi tutti: non si realizza sé stessi solo laureandosi!”. Niente di più vero: il punto è che il discorso, cambiando quel che va cambiato, si ripete identico per tutte le categorie. Dal commerciante all’agricoltore, dal pastore all’imprenditore, passando per commessi, parrucchieri, camionisti, impiegati di vario genere. Siamo passati da un sistema fondato sul sogno della scala sociale ad uno piallato su termini di precarietà semi-permanente. E se forse è vero anche che il modello del “lavoro per tutta una vita” non è più di questo mondo, questo archetipo non è sparito così, all’improvviso, dalle speranze di tutti.

Come ha osservato Corallo, l’Italia, nella noncuranza politica di molti, è divenuto «un Paese andato avanti per inerzia, una povertà cresciuta sempre di più, e alcuni – pochissimi – ricchi che sono sempre più ricchi. In questa situazione si è fatta largo una destra che dice che se un italiano sta male la colpa è di un immigrato che riceve ciò che dovrebbe ricevere un italiano. La sinistra, cioè noi, qui avrebbe dovuto riscoprire le proprie parole e dire che se un italiano sta male non può essere di un immigrato che sta male come lui ma deve essere di un’altra persona che dallo sfruttamento di entrambi ci guadagna».

Una volta il programma Gazebo avrebbe consegnato al compagno Corallo un #premioGAC (sì, “grazie al cazzo”) ma quello delle parole, del linguaggio, è un tema molto più serio di quanto non sembri: Sebastian Bendinelli, co-fondatore della rivista The Submarine e collaboratore di Vice Italia, ha commentato in modo interessante (non so se impeccabile, valutate voi) il risultato delle elezioni di midterm negli Stati Uniti e, in particolare, ha analizzato il risultato del gruppo Democratic Socialist of America (DSA) che ha ottenuto 40 vittorie elettorali a tutti i livelli.

È un articolo abbastanza lungo e ben argomentato: il passaggio che qui mi interessa maggiormente arriva verso la fine. Scrive:

“Tuttavia, a prescindere dai risultati elettorali, sembra chiaro che la crescita dei democratici socialisti non è destinata a fermarsi. Gran parte del merito di questa ascesa sta nell’essere riusciti, lavorando con una prospettiva di lungo termine, a spostare i termini del dibattito, normalizzando e spingendo al centro del discorso pubblico slogan, parole d’ordine e proposte politiche che a molti conservatori sembrano ancora impensabili.

In questo allargamento della “finestra di Overton”—ovvero il range di ciò che si può dire e pensare—sta forse la lezione più importante che i movimenti di sinistra europei possono imparare dai socialisti americani. In un articolo pubblicato su Vox lo scorso agosto, Meagan Day—attivista dei Dsa e redattrice di Jacobin, la rivista socialista da poco sbarcata anche in Italia—spiega in termini molto semplici le differenze tra la il socialismo democratico e il liberalismo keynesiano in stile New Deal. Nel farlo, specifica con grande franchezza che, sul lungo termine, l’obiettivo ultimo dei socialisti è porre fine al capitalismo”.

“Spostare i termini del dibattito”: questa è l’attività che la sinistra europea non sembra più capace di fare. Laddove appare “rivoluzionaria” (penso soprattutto a Corbyn), si rivela come piegata su sé stessa, riluttante ad affrontare i temi del presente in cui vive (sempre per quanto riguarda i laburisti inglesi, la Brexit). Laddove invece è stata trombata perché troppo “establishment” (e indovinate a chi sto pensando?), più che ripiegata su sé stessa sembra raggomitolata in posizione fetale. Un feto piuttosto aggressivo, visto che mena fendenti a qualunque mano si avvicini, lo faccia per portare conforto o il colpo di grazia. Lo si vede perfettamente nei commenti che circolano sui social, da quelli sotto il tweet dove commenta la polemica che è scaturita dal suo intervento al post di solidarietà di Hipster Democratici HD: ce ne sono molti altri, basta digitare “Burioni” su un qualsiasi social per trovarli.

La rappresentazione dell’irrazionale aggressività arriva proprio dalle reazioni all’inutile assemblea del Partito Democratico di sabato 17 novembre: i due interventi paradigmatici sono anche gli unici di cui si è parlato. Da una parte, il “ritiratevi tutti” di Katia Tarasconi; dall’altra, la preghiera a non essere “un Burioni qualsiasi” di Dario Corallo: a queste pungolate di vitalità, però, non segue mai – MAI – qualcosa. Non dico una rivoluzione, la presa di coscienza del fallimento, il preludio inevitabile ad un cambiamento radicale e perpetuo: no, non segue nemmeno il dubbio da parte di chi ha in tasca le chiavi di quell’area politica.

E qui sta il cuore di ciò a cui volevo arrivare: il re nudo non è il Partito Democratico. Non è nemmeno Burioni, stizzito dall’essere diventato l’archetipo dell’arroganza. Il re nudo, secondo me, si annida nell’incapacità di recepire la critica, specialmente se a porla in essere è qualcuno di apparentemente non titolato a dire la propria opinione: una giovane o un giovane.

Ripeto: non la voglio porre solo e necessariamente in termini di conflitto generazionale, anche perché tra l’attuale classe dirigente del Partito e i due sopracitati c’è una distanza di mezza generazione, al massimo. No: il conflitto è di altra natura ma si ripresenta costantemente. Si ripresenta nella litania dei “giovani non interessati alla politica”, a prescindere dal loro continuo manifestarsi sulla scena pubblica. Si ripresenta nel silenzio assordante che circonda molte delle rivendicazioni del mondo degli under-35. Si percepisce nell’approccio che vede questi giovani come cazzari permanenti, lanciati verso un’esistenza di frivolezze quando, in realtà, sono la spina dorsale di qualunque movimento politico, culturale o sociale che sia (e sia stato) in grado di esprimere contenuti nuovi. Contenuti che, puntualmente, non vengono riconosciuti, considerati, salvo nei casi in cui essi si manifestino nelle forme stantie, “che sanno di muffa”, di un mondo che non ci ritiene capaci di produrre il cambiamento che, allo stesso tempo, invoca e rifugge.

La categoria “giovani” non è certamente santa ed immacolata: ancora in troppo pochi si sentono responsabili per il presente, facendo quadrato secondo la logica corporativista, anche di fronte a persone che fanno o dicono cose senza senso. E ancora in troppi se ne stanno appiattiti sull’immagine del “cazzaro disimpegnato”, restio ad ogni forma di consapevolezza del mondo che lo circonda se non per quel che più strettamente lo riguarda. Forse sarà sempre così: nessuno è obbligato ad agire, a prescindere da quanto ciascuno di noi possa trovare nell’azione la scelta più auspicabile. In questa sorta di guerra, se è vero che loro non trovano nelle nostre parole nemmeno il seme di qualcosa di buono, di positivo, è anche vero che noi non siamo disposti all’ascolto, all’osservazione, al confronto. Spesso ogni discorso si risolve in uno scontro tra due integralismi, tra due ortodossie uguali e contrarie. Inconciliabili, a meno che non si aprano reciprocamente ad una perdita di purezza, ad un’ibridazione positiva. A meno che non ci rendiamo conto di quanto siamo ortodossi, e ci proponiamo agli altri, critici verso noi stessi, con almeno un dubbio riguardo ai nostri presupposti.

Questa è la soluzione, dunque? Non ne ho idea. Probabilmente trovare un modo per mettere a sistema tutte queste energie aiuterebbe: siamo inutili, come esseri umani, se non ci mettiamo in concerto tra di noi. Come sempre, però, i rischi si nascondono dietro l’angolo. Saremo migliori di chi ci ha preceduto senza tener conto di ciò che hanno fatto e della loro opinione? Saremo in grado di non cadere nei personalismi? Riusciremo a non riprodurre gli schemi e i modi di quel mondo adulto che non sembra volerci accogliere, ma di cui sicuramente saremo i futuri interpreti?

Emanuele Pastorino

Vivo a Trento, orgogliosamente come immigrato, da un po' di tempo. Membro dell'associazione Ali Aperte.

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