Benjamin e l’Angelo della Storia

Sono stato dipinto come angelo, ‘angelus’, mi hanno chiamato, come a volermi far sentire ancora più vecchio, sebbene quell’aggettivo, ‘novus’, fosse stato aggiunto per sottrarmi alla polvere di latinismi e intellettualismi. Non penso che i quadri abbiano occhi, ma non fatevi ingannare: il mio creatore me ne ha disegnato un paio, e sono belli evidenti. Le proporzioni non sono mai state il suo forte. A dire il vero non penso neanche che i quadri siano in grado di pensare; al massimo, di riflettere. Se doveste valutare il mio aspetto in termini di verosomiglianza, stentereste ad annoverare Klee –questo il suo nome- all’interno della lunga lista che abita l’indice dei manuali di storia dell’arte. Mi ha fatto bruttino, se devo esser sincero; eppure sono certo che in questo apparente inestetismo si celi tutto il mio grumo di significato. Il trucco è dimenticare il tutto e smembrare le singole parti, frammento per frammento, alla ricerca del senso.

Sono stato a lungo desiderato; molte mani hanno bramato la trama intrecciata della mia tela, molti occhi mi hanno ispezionato; ho avuto una vita rocambolesca, ma questo è il destino comune a quasi tutti gli oggetti d’arte. D’altronde come potrei essere arte se non fossi oggetto del desiderio?

Oggi sono vecchio, ma vivo ancora; mi hanno riservato un posto comodo a Gerusalemme, nell’Israel Museum, là dove ho potuto ricongiungermi col mio significato più profondo.

Ma, più di tutti, non dimenticherò mai gli occhi che per primi, indagandomi, sono stati in grado di svelare  -persino a me stesso- il mio mistero più profondo. Quello sguardo che, prima diventando pensiero, poi condensandosi in scrittura, mi ha sottratto alla rovina dell’oblio.

Questo mio saggio amatore era abituato a pensare; fin troppo, a dire il vero. Rovistava e cercava laddove a nessuno sarebbe venuto in mente di indagare, in quel luogo laddove tutto sembra già essere chiaro ed evidente: nel luogo dell’immediatezza. Qualcuno persino lo ha definito come un uomo che nella sua vita è riuscito a “ingarbugliare anche le situazioni più semplici”, mosso da una “umana inadeguatezza”.  Tuttavia se sono chiamato a parlare di Benjamin, per la prima volta invertendo i ruoli del gioco, io, il quadro che racconta l’uomo, preferirei usare le parole di una persona che lo conosceva bene.

Era pensatrice anche lei: i loro pensieri e le loro parole si sono intrecciate e nutrite l’una dell’altro in un intenso carteggio intellettuale. Si conobbero nel 1935 a Parigi, esule lui, esule lei, intenti ad imparare l’inglese per costruire il sogno della fuga da un’Europa nazista verso gli Stati Uniti; dei due, solo la Arendt riesce a approdare nel nuovo continente. Nel 1936 lui scrive il suo capolavoro, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Benjamin venne internato per alcuni mesi in un campo di lavoro francese. È costretto a scappare dalla Francia di Vichy, dall’amata Parigi che con poetica maestria aveva descritto nei suoi Passagen-Werk; è la Parigi dei passages, la grande città metropolitana che il flaneur, il sognatore ozioso, l’‘eroe della modernità’, un osservatore attento ma distaccato, ritrae con l’arte e la scrittura; è la Parigi dell’ebbrezza, dello sfavillare delle merci, dei boulevard affollati e dei caffè pieni di gente; la Parigi che luccica sotto le coperture di vetro e ferro delle gallerie dei negozi.

Nel 1940 scrive di getto la sua ultima opera, Sul concetto di storia, e si dirige verso la Spagna, in un ultimo disperato tentativo di imbarcarsi alla volta degli Stati Uniti. Bloccato dalla polizia di frontiera a Port Bou, si toglie la vita. È la notte tra il 25 e il 26 settembre del 1940. Il giorno dopo sarebbe arrivato ai suoi compagni di viaggio il lasciapassare che avrebbe permesso loro di continuare.

“È morto della stessa imperizia che gli ha permesso di scrivere la sua opera. È morto per inesperienza del mondo, perché non conosceva le regole più elementari di come funzionano le cose”, scrive la Arendt. Descrive la vita di Benjamin come una serie di mucchi di cocci, e questa frammentazione esistenziale è testimonianza autentica dei tempi e dei luoghi più bui del XX secolo. La Arendt non manca di sottolineare il profondo legame che ha unito la vita di quest’uomo alla sua opera, in un unico inscindibile magma prorompente, nutrito dalla straordinarietà del tempo in cui era stata concepita; “combinazione di debolezza e genialità divenute ormai tutt’uno, non è stata conosciuta da nessuno meglio che da Benjamin”; di lui racconta le debolezze, i difetti e le problematiche, con quell’accorato affetto che li legava e che Benjamin stesso ricambiava. “Le corde della mia gola nitriscono già l’impazienza di confrontarsi con le Sue”, scrive lui in una lettera del 1937.

Il pensiero di Benjamin è profondamente legato alla Scuola di Francoforte, movimento con cui viene a contatto in Germania all’inizio degli anni Venti tramite la lunga e travagliata amicizia con Adorno. Dai pensatori di Francoforte eredita l’interesse sociologico verso la nuova società di massa, in cui si affermano forme di potere non più riconducibili al luogo politico, ma alla nuova dimensione dei mass media, veicolo di controllo del desiderio delle masse: è in realtà solo l’illusione di un desiderio non libero, artificiale, prodotto dell’industria culturale affinché sia ‘eterodiretto’ verso beni consumabili sempre nuovi; è un desiderio mai sazio e sempre deteriorato.

Devo dire però che il mio acuto possessore è stato l’unico del gruppo in grado di redimere in parte la modernità lodando la capacità visionaria della fotografia, nuovo strumento del linguaggio, in grado di concedere maggiore fruibilità all’opera d’arte. Il quadro non è più oggetto statico, imprigionato nella teca trasparente nel museo da visitare; l’arte entra nelle case e si dà a tutti indistintamente, pagando il solo prezzo della perdita di auraticità e pathos di autenticità che l’ha sempre caratterizzata nell’immaginario comune.

Ma non è su questo aspetto della sua riflessione che mi voglio soffermare.

È vero, io sono arte, ma lui mi ha costretto, seppur nel pensiero, a diventare altro.

Da Adorno Benjamin riprende l’originaria concezione “teologica” della politica e la necessità di costruire una teoria in grado di leggere il nesso tra potere e violenza. Per Adorno la società di massa, basata sulla dimensione totale del potere, improntata su una logica di autoreferenzialità, giustifica la rimozione di qualsiasi forma di alterità, che in quest’ottica diventava contaminazione. È proprio questa paura che fonda la dimensione d’orrore del regime nazista.

Ecco, io sono stato dipinto per fuggire da questo orrore, con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Le mie ali sono irrimediabilmente impigliate nella bufera del futuro, ma gli occhi guardano ancora alle macerie, alle rovine del passato.

Vorrei scappare, vorrei fingere anche io di avere quella salda fiducia che altri pensatori del nostro secolo riponevano nel futuro e nel progresso, ma come faccio? Mi affido alla memoria. Solo dal riferimento al passato può derivare la redenzione per sottrarci alla bufera ignota del futuro. Ecco, questa era la sua concezione di Storia.

Non un corso o un flusso impetuoso e inarrestabile, ma una serie di condensazioni: ‘le costellazioni del presente’, le chiamava. È il tempo-ora. Dobbiamo aspettare un messia, il trionfo e la mitologia dei vincitori? Non c’è attesa per Benjamin. Siamo noi gli attesi, dalle vittime della Storia, dai senza nome che non possono più testimoniare, da quelli che Levi chiama ‘i sommersi’. Parto dall’Ora per trasformare il tempo presente in Attimo funzionale all’azione messianica, che è rivoluzionaria perché è rigeneratrice. Solo così posso dare significato all’insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze.

Siate pescatori di perle.

Provate a guardarmi con attenzione, non come oggetto, ma come movimento. L’‘immagine dialettica’ vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione. Trasformate i frammenti di senso che ci sono dati disordinatamente all’interno delle costellazioni dell’Ora in immagini dialettiche, in grado di parlare e di farsi linguaggio.

Solo così mi vedrete ovunque, in ogni luogo, in ogni quadro, sempre diverso, sempre nuovo, sempre lo stesso, il vostro angelo che veglia sul buio e sulla luce, all’ombra di un albero, sullo schermo di un pc, tra le pagine di un giornale, le più tristi, le più avvincenti, o quelle che nessuno legge.

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