Marie Colvin e la forza della verità

Una delle abilità più apprezzabili ed invidiabili nell’arte dello scrivere è quella di saper suscitare emozioni in chi legge. Che sia fatto per generare ilarità e riso, o che sia fatto per fini seri e riflessivi, cambia poco: la vera sfida è quella di provocare suggestione. Spesso, ciò nel giornalismo può risultare particolarmente difficile, dati gli stringenti canoni di scrittura a cui esso è vincolato.

Una tale dote era sicuramente propria di Marie Colvin, corrispondente di guerra di “The Sunday Times”, per il quale ha lavorato dal 1986 fino al 2012, anno della sua morte a Homs, in Siria. Molti dei suoi reportage si possono ancora trovare online, sul sito del giornale per cui scriveva. Nel corso della sua carriera ha documentato alcuni tra i più sanguinosi  scontri degli ultimi anni, come quelli in Libano, Sri Lanka, Kosovo, Cecenia, Timor Est, Iraq, Libia e Siria. Tra le altre cose, fu la prima giornalista occidentale, nel 1987, ad intervistare il colonello Mu’ammar Gheddafi, così come fu una delle poche a riuscire ad ottenere una sua intervista nel 2011, anno del rovesciamento del regime. Inoltre, è stata anche la prima corrispondente straniera ad entrare nello Sri Lanka occupato dalle Tigri Tamil, nello scenario della guerra civile.

Nell’autunno dello scorso anno, a riguardo, è stato distribuito “A Private War”, un film che ripercorre gli ultimi 10 anni di vita della giornalista (ben interpretata da Rosamunda Pike) e di cui consiglio vivamente la visione. La pellicola alterna il racconto del suo lavoro sul campo con quello del disturbo post–traumatico da stress, di cui soffriva.
La figura di Marie era tra le più carismatiche nell’ambito del giornalismo internazionale, facilmente riconoscibile grazie alla benda piratesca che indossava dopo aver perso la vista dall’occhio sinistro in Sri Lanka, colpito da una scheggia di una granata; la sua era una “straordinaria quotidianità”, fatta di coraggio e sacrificio, che spesso confluivano nell’incoscienza.

La cosa che più colpisce, leggendo i suoi articoli, è la forza con cui metteva in risalto la silenziosa sofferenza dei civili nei conflitti- le vittime che, alla fine, pagano sempre il prezzo più alto. In un pezzo tratto da un suo articolo, ripreso poi dal film, scrive: «Guerra, è il silenzioso coraggio dei civili che sopportano l’orrore, più di quanto dovrò fare io. Di quelli a cui viene chiesto di combattere e di chi cerca solo di sopravvivere. Madri, padri, figlie e figli. Famiglie traumatizzate, dilaniate, inconsolabili ». Marie era sempre alla ricerca del risvolto umano dietro ad ogni storia. Non era interessata agli aspetti più lampanti del conflitto, come chi avesse bombardato cosa, ma voleva mettere in luce il costo umano dell’evento. Era convinta che alle persone interessassero prevalentemente i propri simili e loro storie. Questo principio fu il faro che guidò la sua carriera. Come quando, nel corso della guerra in Iraq, fu fondamentale nella scoperta di alcune fosse comuni nel quale giacevano più di 600 dissidenti civili brutalmente uccisi dall’esercito di Saddam Hussein. Anche gli ultimi giorni della sua vita dimostrarono questo: restò testardamente in Siria, anche nei momenti di maggiore brutalità del conflitto, dove volle documentare come il regime di Assad stesse arbitrariamente bombardando la popolazione civile come segno di avvertimento per le proteste in atto, intervistando numerose famiglie spezzate dalla guerra.

Marie Colvin era dipendente dal suo lavoro. Non poteva fare a meno di essere in prima linea negli scenari di guerra. Più volte ha tentato di costruirsi una vita regolare, senza mai avere successo. Essere in prima persona e testimoniare ciò che accadeva era per lei un dovere irrinunciabile. Era l’unica via che conosceva per far sì che i fatti di cui raccontava smuovessero le coscienze delle persone e non fossero delle parole al vento. Lei stessa si interrogava se il raccontare una guerra potesse effettivamente cambiare qualcosa e agire in modo concreto. Aveva soprattutto fiducia nella sensibilità dell’essere umano e nella sua capacità di immedesimarsi nelle sofferenze dell’altro, iniziando ad interessarsi al problema. Tutto grazie ad una testimonianza.
Proprio per questo, “A Private War” vuole anche essere un potente elogio allo strumento del giornalismo e al suo scopo ultimo, quello più nobile e civile: raccontare la verità, indipendentemente da chi essa tocchi e da quanto possa essere complessa ed ambigua.
Nell’era della disinformazione, delle bufale e del declino dei giornali cartacei, il film vuole ribadire l’importanza di poter disporre di fonti d’informazioni pulite ed accurate, indipendenti da interessi economici e politici. Un giornalismo di qualità, che possa garantire un servizio pubblico a tutti gli effetti.

In tal caso, Marie aveva scelto di stare dalla parte di quelle famiglie che si trovavano coinvolte in conflitti che non avevano scelto, ma per i quali subivano le conseguenze più drammatiche. Conflitti ciechi e spietati, che non davano loro voce in capitolo e non fanno distinzione tra soldati, bambini, madri o padri.
Ideologie, appartenenze religiose, etnie e schieramenti politici diventano improvvisamente concetti lontani e astratti, di poco conto davanti alla cruda realtà della guerra e alle sue conseguenze. Restano solo sentimenti come paura, angoscia e solitudine, miseria e distruzione. Strascichi che producono rabbia e rancore. Nient’altro. Questo Marie l’aveva ben chiaro in testa e ha sempre tentato di raccontarlo.
Trovo sia doveroso ricordare quelle figure come Marie, lontane dai riflettori e che nel loro silenzioso coraggio riescono ad essere esempio per tutti, sacrificando le loro certezze e riuscendo a mettere in discussione e scalfire le nostre comode verità. A volte con il solo aiuto di una penna e un foglio di carta.

Michele Bargagli

Nato a Brescia ventuno anni fa. Studente di Studi Internazionali

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