Note di viaggio: e il pop non è fatto per Guccini

Alla tenera età di 13 anni i miei genitori senza dirmi nulla comprarono 4 biglietti per il concerto di Guccini a Villa Manin. A quell’epoca ascoltavo hard rock e heavy metal e giravo con borchie e catene, ma mia madre e mio padre (saggiamente) non vollero saperne dei miei reclami (“Guccini è musica da vecchi”), dicevano che probabilmente quello sarebbe stato uno degli ultimi suoi concerti e non a torto, perché pochi mesi più tardi il cantautore emiliano avrebbe annunciato in diretta a Che tempo che fa il suo ritiro dalle scene. Il risultato fu inaspettato: mio fratello addormentato sul prato che rischiava di essere travolto dalla folla alzatasi per cantare la mitica La locomotiva e io a fine concerto che mi compravo la maglia (che tutt’oggi indosso orgogliosamente) che recitava i versi “fratello non temere, che corro al mio dovere, trionfi la giustizia proletaria”.

Per questo motivo, da quando è comparsa la notizia che sarebbe uscito il disco Note di viaggio, prodotto e arrangiato da Mauro Pagani, contenente cover di Guccini cantate da altri artisti, ho aspettato trepidante il 15 novembre. Lo ammetto, avevo una voglia matta di fare le pulci a chi osava toccare nuovamente un maestro della canzone d’autore italiana, tanto più se questo era Il Maestrone.

Il primo pezzo da cui sono stata attirata è stato Scirocco interpretato da Carmen Consoli. La canzone dell’album Signora Bovary è una delle più belle in assoluto del cantautore pavanese, una di quelle che rasentano la perfezione per ciò che concerne testo e musica; un brano elegante, emozionante, evocativo. Con tutto il rispetto per la cantautrice siciliana, ma quando ho ascoltato la sua versione mi è venuto un colpo al cuore. Scusami Carmen, non ce l’ho con te, ma Scirocco proprio non dovevi toccarla: forse sei stata tratta in inganno e hai creduto di cantare il vento caldo della tua isola, ma come ha spiegato lo stesso Guccini in una recente intervista su Radio Deejay, qua si parla dello scirocco bolognese, tutt’altro fenomeno.

Non contenta, ho continuato l’ascolto di un altro brano, la cui scelta interpretativa non mi convinceva per nulla: Incontro, cantata da Ligabue.

Il Lucianone nazionale è molto legato al Maestrone, per il quale prova un sincero affetto. A lui ha dedicato il brano Caro il mio Francesco, ha composto in collaborazione Ho ancora la Forza dell’album Stagioni e infine ha utilizzato Incontro nel film da lui prodotto, Radio Freccia. Nella vita ha tentato in tutti i modi di omaggiarlo, ma in questo caso non ce l’ha fatta.

Il brano di Radici, così struggente e malinconico non si confà per nulla alla voce del Liga, che infatti la snatura completamente e come un re Mida delle canzoni, trasforma questo piccolo capolavoro in una sua canzone da stadio.

Contro le mie aspettative invece sono rimasta favorevolmente colpita dall’interpretazione di Stelle di Giuliano Sangiorgi e di Tango per due di Nina Zilli.

Il primo ha scelto un brano poco noto al pubblico, tratto dal disco D’amore, di morte e di altre sciocchezze, e l’ha interpretato quasi da farlo sembrare di Dalla. Può sembrare bizzarro, ma il tutto trova una sua armonia, data anche dall’arrangiamento che bilancia perfettamente il vecchio e il nuovo.

Anche Nina Zilli ha scelto un brano poco conosciuto dell’album Quello che non… e lo ha centrato in pieno. La canzone ricalca perfettamente il suo stile musicale soul, un po’ anni ’60, e sembra quasi che sia stata scritta apposta per lei.

Un’altra cover a mio parere pienamente riuscita è Vorrei realizzata da Brunori Sas. Anche in questo caso la scelta della canzone è stata azzeccata: il cantautore calabrese ha interpretato il brano di D’amore, di morte e di altre sciocchezze in modo ineccepibile, come solo lui sa cantare le canzoni d’amore, con delicatezza e sentimento senza trasformarle in lagne baglioniane (scusa Claudio).

L’interpretazione che non mi ha convinto fino in fondo è stata quella di Canzone quasi d’amore ad opera di Malika Ayane. Il brano dell’album Via Paolo Fabbri 43 è a mio parere una delle canzoni più complesse tra quelle presenti, poiché sembra che parli d’amore e invece è una sottile invettiva al modo italiano di fare musica (cioè parlando sempre e solo d’amore). Musicalmente parlando è un brano molto bello, ed anche la voce particolare della cantautrice milanese non è così fuori luogo; ma arrivata alla fine dell’ascolto, quel vuoto, quell’angoscia di cui parla Guccini all’interno della canzone non riecheggiano nell’aria per scuotere la coscienza dell’uditore.

Di questa inconsistenza soffre anche Quattro stracci di Francesco Gabbani. La scelta non era così campata in aria, tenendo conto del suo stile, ma l’interpretazione mi pare un po’ troppo raffazzonata, per nulla ragionata. Ascoltando l’originale ci sono parti in cui si percepisce la tensione, parti che vorresti cantare a squarciagola di fronte al/alla tuo/tua peggior ex; la Quattro stracci del cantante di Occidentali’s Karma è piatta, non c’è tensione dove dovrebbe esserci e manca della giusta “incazzatura” gucciniana.

Chi ha ragionato sufficientemente a lungo sul significato della canzone che andava a cantare sono Samuele Bersani e Luca Carboni, che da bravi bolognesi (d’adozione o di nascita che sia) si sono presi la briga di cantare le Osterie di fuori porta. Il duo rende omaggio al cantautore con una certa maestria e complicità. D’altronde, chi meglio di loro due poteva capire il sentimento del Maestrone mentre “guarda l’alba magica in collina”?

Chi mi ha colto davvero di sorpresa è Margherita Vicario con Noi non ci saremo. Il suo nome è forse passato un po’ in sordina di fronte a quello degli altri, ma nonostante ciò ho trovato sia la sua interpretazione che la scelta molto interessante. Noi non ci saremo è uno dei primissimi brani del cantautore emiliano ed è stato cantato da Nomadi ed Equipe 84, perciò è stata una scelta saggia quella di decidere di interpretare un pezzo non troppo gucciniano. Per chi conosce la versione dei Nomadi può affermare con sincerità che è nettamente migliore di quella di Guccini ed essersi ispirata a loro è stata una mossa molto intelligente. Nonostante la giovane età e il nome relativamente poco noto, Margherita Vicario con la sua interpretazione ha tenuto testa a nomi come Ligabue, Carmen Consoli e Manuel Agnelli.

Anche ad Elisa è stata affidata l’esecuzione di una canzone del vecchio repertorio di Guccini, anch’esso scritto e pensato per essere cantato da altri, Auschwitz. La cantante di Monfalcone, con la sua voce cristallina e pulita, realizza un brano toccante e di grande intensità emotiva.

Il disco si chiude con un pezzo forse un po’ troppo inflazionato, ma che tutti gli estimatori di Francesco Guccini amano: l’Avvelenata.

Il brano è stato affidato alle voci di Manuel Agnelli e Mauro Pagani e, sarà perché questo pezzo mi entusiasma sempre, ho trovato piacevole ascoltarlo anche in questa versione. Anche l’arrangiamento un po’ sopra le righe, che passa dalle melodie medievali alle schitarrate rock trova il suo perché.

Ricordo che quando andai al concerto un signore si alzò in piedi e gridò a squarciagola “L’Avvelenata!”, Guccini di tutto punto gli rispose “Lei ha vinto un premio, una bambolina!”. Era quello il gioco che faceva ogni volta con coloro che chiedevano la canzone che forse odiava e tutt’ora odia di più. Anche Agnelli e Pagani hanno vinto la famosa bambolina da parte sua, ma noi li perdoniamo lo stesso, perché L’Avvelenata è pur sempre la miglior invettiva che qualunque cantautore italiano abbia mai realizzato e, benché gli anni e le generazioni passino, non c’è persona che nella vita non abbia detto “e a culo tutto il resto!”.

Note di viaggio non è un’opera perfetta, anzi: sotto molti aspetti è criticabile, ma ha anche molti punti di forza incontestabili, come ad esempio i meravigliosi arrangiamenti, degni del più maturo Guccini. Il disco ha anche il gran merito di essere riuscito nell’ardua impresa di far cantare il cantautore dell’Appennino tosco-emiliano dopo molti anni di silenzio. Il nuovo singolo del Maestrone, registrato nella casa di Pavana e totalmente in dialetto, è pura poesia e al contempo l’espressione di un artista, un intellettuale e un poeta che alle mode del pop ha sempre preferito i racconti dei cantastorie.

Erica Turchet

Sono studentessa di Studi internazionali presso l'Università degli studi di Trento. Amo scrivere di musica e cinema, ma rimango un'appassionata dei lati oscuri e degli intrighi della politica.

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