Tra Romanticismo e Modernismo: la Montagna Magica di Thomas Mann

Novembre, 1924.

A Berlino, presso l’editore Fischer, esce il terzo romanzo di Thomas Mann, La montagna magica. Siamo nel bel mezzo dei Goldene Zwanziger, i Roaring Twenties di una Germania che, pur sull’orlo del collasso economico, produce un’esplosione di capolavori d’avanguardia. Ma tra la rivoluzione psicoanalitica di Freud e il ribaltamento del tempo di Heidegger, tra la Nuova Oggettività di Grosz e l’espressionismo di Paul Klee, così come del cinema e della letteratura, Thomas Mann fa una scelta apparentemente anacronistica: un altro lunghissimo romanzo di formazione, per molti l’ultimo geniale vessillo della tradizione della narrativa ottocentesca. Che cosa c’entra, allora, La montagna magica con il Modernismo?

Secondo una delle ultime interpretazioni – quella di Luca Crescenzi, professore ordinario di Letteratura tedesca all’Università di Trento e curatore delle opere di Mann per Mondadori – c’entra più di quanto si possa immaginare. Thomas Mann, lettore vorace ed esteta – l’artista che rappresenta tutte le prospettive sulla realtà, senza prendere posizione, se non nel fare con la sua opera una sintesi di esse – integra nei suoi capolavori i più innovativi ed eclettici spunti della cultura a lui contemporanea. Per citarne alcuni: la mistica, intesa come alternativa pseudoscientifica, separata dalla religione, al materialismo nichilista. Le ultime scoperte in ambiti propriamente scientifici, dall’anatomia alla medicina alle nuove tecnologie ad essa legate, ad esempio la radiografia. Infine la psicanalisi, che ricopre un ruolo fondamentale – tanto che l’intera narrazione sembra sospesa tra conscio e inconscio, sogno e realtà.

Deve molto alla psicanalisi anche lo stile narrativo della Montagna Magica, che è perciò moderno, anche se meno eclatantemente modernista, quanto il monologo di Molly Bloom o la sintassi frammentata di Alfred Döblin. La dimensione dei sogni e dell’inconscio ritorna infatti nelle numerose epifanie, nelle lunghe e tortuose speculazioni del protagonista Hans Castorp, che diventano veri e propri (ma sempre lineari e ordinati) flussi di coscienza. Altrettanto avanguardista è il simbolismo, minuzioso e pervasivo ma di portata universale, perfettamente in linea con il ritrovato interesse per il simbolo e l’allegoria da parte dell’arte secessionista della Monaco di inizio secolo. Crescenzi arriva a suggerire una lettura surrealista: è talmente labile il confine tra sogno e realtà che a pensarci bene – ma solo dopo aver finito il romanzo – tutta la narrazione potrebbe essere un sogno. Perché quando Hans, all’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo, si risveglia, ci rendiamo conto di non esserci ancora chiesti: quando si era addormentato?

La scoperta dell’interiorità e dell’inconscio, cui il Novecento dà un fondamento scientifico tramite la psicanalisi, è però da attribuirsi già al Romanticismo. Mann recupera quindi della tradizione proprio l’aspetto più moderno, facendo di Hans Castorp un eroe romantico allo scopo di attribuirgli quell’aspirazione all’infinito e alla totalità che sottintende una volontà di superamento di quei dualismi tipicamente romantici – quello tra salute e malattia, corpo e spirito, amore per la vita e attrazione verso la morte – che continuano ad ossessionare la cultura europea della décadence di fine secolo e di quello successivo. Una cultura che Mann vuole “curare” dalla sua tensione nichilistica proprio con un approccio alla vita e all’etica completamente nuovo, mutuato da quello romantico ma forte dei nuovi traguardi raggiunti dal pensiero novecentesco. Un approccio che recuperi la realtà dell’uomo nella sua interezza, unendo le sue molteplici dimensioni – sensibile e spirituale, maschile e femminile, razionale e irrazionale – in una sintesi estetica e per questo profondamente democratica. Quello che si cela, insospettabile, fra le righe delle avventure di Hans Castorp è quindi un progetto sovversivo: una rivoluzione totale della cultura occidentale.

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