Donald Trump: un esportatore di democrazia?

Dalla presidenza Clinton, gli Stati Uniti ci hanno abituato all’apertura di più fronti di guerra nel Medio Oriente in finestre temporali sempre più brevi con l’obiettivo di “esportare la democrazia”. Che fine ha fatto tale politica sotto questa presidenza?

La politica estera statunitense sotto la Presidenza Trump ha subito una battuta di arresto: sul fronte bellico, le iniziative militari si sono ridotte al minimo; viceversa le relazioni diplomatiche si sono rinforzate così da allentare diverse tensioni venutesi a creare nel corso del tempo. Due esempi, la Russia e il Nord Corea. Non stupisce che diverse figure come John Bolton e il Pentagono abbiano storto il naso più volte quando Donald Trump ha preferito percorrere la strada della diplomazia invece di entrare a gamba tesa all’interno di stati sovrani come già successo in passato e sotto presidenti di ambo gli schieramenti politici.

Gli Stati Uniti, succubi di se stessi del mito degli USA difensori della libertà e della democrazia, con questo pretesto hanno spesso intrapreso diverse operazioni militari in territorio straniero; ricordiamo qui per brevità i diversi teatri di guerra mediorientali aperti dai Bush, da Bill Clinton e da Barack Obama. Interventi che si sono spesso rivelati fatalmente ingannevoli, non solo per gli scopi dichiarati da parte delle diverse amministrazioni ma anche per l’immagine a livello internazionale del Paese, com’è successo nel carcere di Abu Ghraib.

Una precisazione è necessaria, per evitare fraintendimenti: le nazioni da sempre cercano di imporre la propria egemonia sulle altre; gli Stati Uniti non sono da meno. È un movimento naturale e fisiologico, Niccolò Machiavelli oppure in tempi recenti Carl Schmitt ne hanno parlato ampiamente e a loro rimandiamo per una migliore trattazione sistematica della materia (senza scordarsi, pare ovvio, dell’ex Segretario di Stato Henry Kissinger e del suo lucido e asciutto Ordine Mondiale). Nel corso di quest’articolo non si vogliono esprimere giudizi di valore, semmai evidenziare la differenza nell’approccio tra le amministrazioni che hanno preceduto quella attuale e il metodo adottato da Donald Trump.

Con la sua elezione però, e nel corso di questi quattro anni, la narrazione mediatica di un Presidente fuori controllo e pronto a scatenare conflitti in ogni regione si è via via sempre più incrinata. Le guerre in cui l’attuale presidenza è rimasta coinvolta sono da collegarsi unicamente ai teatri di guerra aperti dalle amministrazioni precedenti. Negli ultimi quattro anni, infatti, non c’è stato alcun ampliamento delle operazioni belliche; semmai, anzi, è il contrario: negli ultimi tre anni diversi contingenti statunitensi sono stati smobilitati dalle zone calde del globo per essere riportate sul suolo della madrepatria, non ultimo la chiusura della missione in Afghanistan iniziata nell’ottobre del 2001 in seguito all’11 settembre; oppure a giugno il ritiro dalla Germania di un contingente di circa diecimila tra soldati e ufficiali.

Sul fronte diplomatico, la situazione è più complessa. Di certo perché è il teatro più problematico: è assai più difficile evitare una guerra che condurla. Inoltre, il carattere di Trump è noto: non è nuovo nel provocare e le sue uscite pubbliche spingono sovente all’imbarazzo giornalisti e altri capi di stato o di governo; inoltre, il presidente americano spesso stuzzica reazioni pesanti, parlando o pubblicando tweet. Eppure, alla fine, è riuscito ad allentare la tensione che correva tra gli Stati Uniti e la Russia o il Nord Corea, al contrario delle passate amministrazioni dove la distensione dei rapporti era a conti fatti difficile.

Non entriamo per brevità, e per mancanza di tempo (vi ritorneremo sopra, è una promessa), sulla questione mediorientale dove anche a inizio anno ci sono stati degli scontri tra le forze armate iraniane e statunitensi in seguito alla morte del generale Qasem Soleimani. La regione è di interesse strategico per gli stakeholder del petrolio e dei combustibili fossili sia che si tratti di iniziative private sia pubbliche e statali (accenniamo qui che nel ’53 la CIA riuscì a compiere con la complicità dello Scià Mohammad Reza Pahlavi un colpo di stato che depose il primo ministro Mohammad Mossadeq dopo che questi aveva tentato di nazionalizzare tutti i pozzi di petrolio presenti sul territorio iraniano).

Ciò che possiamo dire alla fine, alla luce di questo breve pezzo, è soltanto un punto: ovverosia che l’espansionismo imperialista statunitense, che come d’habitude interessa ogni amministrazione statunitense una volta finito l’isolazionismo ad inizio Novecento, con Donald Trump ha subito un’inaspettata battuta di arresto o per essere meno drastici un cospicuo rallentamento. Le conseguenze in casa repubblicana sono state rilevanti: il GOP si è diviso in due, con il fronte neocon sempre più ostile al Tycoon newyorkese e facente fronte comune con i liberal e i dem. Ecco perché per il Presidente si rivela fondamentale non soltanto vincere, ma avere anche in entrambe le Camere del Campidoglio una schiera di repubblicani a lui vicini, pochi o nessuno dei neocon, perché altrimenti la presidenza Trump non avrebbe vita facile e potrebbe cadere anzitempo a causa del fuoco incrociato: quello nemico, ma soprattutto quello amico. Una lotta per la sopravvivenza. Una savana. La domanda è più che lecita: chi sarà il leone? E chi, dunque, la gazzella?

Trovate l’articolo precedente di questa serie a questo link.

Alessandro Soldà

Classe 1996, mi sono laureato in Filosofia all'Università di Trento, dove proseguo gli studi con la specializzazione in Etica e Scienze delle Religioni. Sull'Universitario mi occupo principalmente di politica (estera e nazionale) e di attualità.

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