Joe “The Winner” Biden

La Casa Bianca torna a dipingersi di Blu: l’Asino recalcitrante ha scacciato il Pachiderma Repubblicano, nonostante le obiezioni di Donald Trump e dei suoi elettori. E ora, cosa succederà?

Abbiamo voluto aspettare il 20 gennaio prima di pubblicare questo articolo che, dal 4 novembre, ha subito più e più modifiche a causa dei continui colpi di scena provenienti oltreoceano. Ora che Joe Biden ha giurato, ne siamo finalmente certi, questa è la nostra analisi definitiva. Buona lettura.

I giochi sono fatti; c’è un nuovo inquilino a Pennsylvania Avenue e non è più il tycoon newyorchese Donald Trump: nello Studio Ovale ora siede Joseph Robinette Biden Jr., di Scranton (PA). La strada per l’inaugurazione di fronte al National Mall è stata ben lunga, pure quando ormai si stava dando per assodato la sua elezione: perché l’avversario repubblicano, convinto invece di avere la maggioranza dalla sua, fin dall’uscita dei primi risultati non ha mai alzato bandiera bianca e anzi ha voluto ingaggiare una serrata battaglia legale per poter provare che le elezioni fossero state manomesse per favorire i Democrats.

La frode elettorale paventata da Donald Trump e dal suo avvocato Rudolph Giuliani si articolerebbe in diversi punti: il presidente uscente ha lamentato irregolarità nel conteggio dei voti postali e il software utilizzato durante le operazioni di conteggio in ventotto dei cinquanta stati dell’Unione, infatti, avrebbero per l’accusa spostato diverse e ingenti quantità di voti a favore del candidato dal ceruleo vestito, compresi di molti elettori già deceduti. Alle elezioni ha fatto seguito una lunga serie di ricorsi giudiziari, che sono stati però sinora respinti in modo pressoché uniforme dai tribunali americani.

Corsi e ricorsi storici a Stelle e Strisce

La contestazione da parte di Trump sulla correttezza della competizione ha riportato in voga alcuni parallelismi storici. Particolarmente ricorrente è il riferimento, da parte della stampa, all’elezione americana del 2000 che vide confrontarsi il repubblicano George W. Bush e il democratico Al Gore. Il caso è stato citato anche dallo stesso team elettorale di Trump e dal suo avvocato, Rudy Giuliani, che, portando avanti i ricorsi del presidente uscente, è ritornato ad esercitare la professione forense a livello federale per la prima volta dagli anni Novanta dopo essere stato, tra le altre cose, sindaco di New York. Tuttavia “la situazione è un po’ più complessa”, per dirla con il Divo. Indipendentemente dall’esito dei ricorsi di Trump, il parallelismo tra il 2000 e 2020 non è particolarmente fondato dal punto di vista storico.  Anzitutto, nel 2000, i ricorsi avevano per oggetto la sola Florida. A separare Bush junior e Al Gore vi era un margine ristrettissimo di 537 voti che faceva oscillare lo swing state per antonomasia tra un candidato e un altro. Vi era inoltre una maggiore indecisione e incoerenza da parte delle diverse corti prima che si arrivasse dinanzi alla Corte Suprema. Quest’ultima interruppe i riconteggi e decise con una maggioranza di 5 a 4 l’attribuzione della vittoria a Bush.

Oggi invece, i Repubblicani non chiedono un conteggio definitivo delle schede, ma l’annullamento dei voti per posta in quanto si è trattata di una modalità garantita solo in alcune contee (è il caso della Pennsylvania). Secondo il Presidente, che aveva già messo in dubbio la validità dei voti per posta e aveva espresso riserve su un eventuale riconoscimento della sconfitta, ciò sarebbe contrario al XIV emendamento. Anche il team ricorsi è alquanto diverso. La causa del Presidente è portata avanti da legali privati di Trump, Giuliani in testa. Il ricorso di Bush era invece guidato da membri delle istituzioni (tra cui il senatore Ted Cruz) e da tre futuri giudici della Corte Suprema: John Roberts, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.

Un altro parallelismo storico sollevato in questi giorni, ancor più temerario e ancor meno corretto, è quello tra Trump e Carter, il quale perse le elezioni del 1980 che portarono all’ascesa di Reagan. L’unico elemento in comune sarebbe il fatto che entrambi siano stati sconfitti in carica (come Bush senior contro Clinton nel 1992). Ciò che li divide non è solo la diversità di carattere, partito e idee, ma anche l’analisi del voto. Se esaminiamo il risultato di Carter nel 1980, questi aveva perso, in termini assoluti, cinque milioni di voti popolari rispetto al 1976 (circa il 15%); Trump invece, pur ottenendo milioni di voti in meno di Biden, esce dalla competizione con un incremento di quasi 10 milioni in più rispetto al 2016. Carter, dunque ha visto contrarsi il consenso e ha perso; Trump, pur restando dietro a Biden, ha guadagnato elettori.

Trump ha dato il nulla osta per la transizione dei poteri, ma non ha ancora riconosciuto la sconfitta. Il 14 dicembre è stata una data chiave, in quanto il Collegio dei Grandi Elettori ha avuto il compito di nominare il nuovo Presidente; in ossequio al XX emendamento della Costituzione, il passaggio di poteri è avvenuto a mezzogiorno del 20 gennaio.

Un Presidente alla Corte Suprema: l’estremo giudizio

L’obiettivo di Donald Trump era trascinare di fronte ai giudici della Corte Suprema il suo avversario, il Partito Democratico e l’Establishment a lui avverso; ma non si è arrivati a quel punto. Sei giudici su nove hanno infatti rigettato ogni ricorso di The Don o dei suoi alleati (tant’è che la sezione texana del GOP ha pure auspicato, tra il serio e il faceto, la secessione del Lone Star State e degli altri stati che non riconoscono Biden come quarantaseiesimo presidente). La nota di colore che ha fatto storcere il naso a molti repubblicani USA e italiani è che tutti e tre i giudici nominati da Donald Trump gli “abbiano votato contro”, quando in realtà – è cosa nota – i giudici repubblicani e conservatori, soprattutto ad un livello alto come la Corte Suprema, si sono sempre distinti per diligenza e rigore nell’applicare le leggi invece di interpretarle per gli amici.

The House of Cards: che congresso sarà?

Nell’Election Day gli Americani sono stati chiamati a scegliere anche i loro Rappresentanti alla Camera e i loro Senatori. Il risultato mette in luce la riconferma della maggioranza democratica alla Camera e una situazione di parità al Senato. Ma ci sono importanti novità.

Alla Camera dei Rappresentanti, il Partito Democratico non ha avuto vissuto un’ondata blu di consensi strepitosi. I Democratici sono passati da 233 a 222 seggi: la loro maggioranza si ridurrebbe dunque da 16 a 5 seggi. Lo spoglio finale registra invece uno sprint per i Repubblicani che guadagnerebbero 11 seggi, passando da 202 a 213. Si tratta di un risultato superiore alle aspettative che invece assegnavano al GOP una perdita di 5-10 seggi in favore dei Democratici. Al contrario, i Repubblicani hanno vinto tutti i seggi classificati dai sondaggi come “incerti”, più 5 seggi Lean Dem (“tendenti ai Democratici”) e 2 Likely Dem (“probabilmente democratici”).

La transizione verso un’Amministrazione Biden e la performance non ottimale al Congresso ha portato vari membri della Camera dei Rappresentanti ad interrogarsi sull’agenda del futuro Presidente e sui consensi che questa riscontrerà al Campidoglio. Da sinistra, in particolare, sono venute le critiche più accese. Rieletta alla Camera per il quattordicesimo distretto dello Stato di New York, Alexandria Ocasio-Cortez, figura di spicco dell’ala progressista dei Democratici, ha duramente criticato la linea del suo stesso Partito e le posizioni dei colleghi più centristi vicino a Biden. Dopo aver inizialmente appoggiato Sanders nelle primarie democratiche, la Ocasio-Cortez assieme alle sue alleate più strette Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Rashida Tlaib (con cui al Congresso forma la Squad progressista) ha poi fatto fronte con il resto del partito a sostegno di Biden. Ma non si è trattata di un’intesa definitiva, quanto più di una tregua per l’appuntamento di novembre. In un’intervista al New York Times a seguito delle elezioni, è tornata a criticare le posizioni dei democratici moderati, ritenute da lei tiepide in relazione al movimento Black Lives Matter (difeso dalla Rappresentante democratica dalle accuse di aver contribuito alla perdita di alcuni seggi) e in campo sanitario e ambientale.

Nell’altro ramo del Congresso, il Senato, i Repubblicani erano inizialmente risultati in vantaggio rispetto ai Democratici, avendo ottenuto 50 senatori contro 48: in Georgia si erano resi necessari due ballottaggi, che hanno avuto luogo il 5 gennaio. Si è trattato, perciò, di un voto decisivo: in caso di vittoria anche in uno solo dei due seggi, i Repubblicani avrebbero potuto mantenere la maggioranza al Senato, influendo sensibilmente sulle politiche dell’Amministrazione democratica e smussando i provvedimenti meno graditi; la doppia vittoria democratica ha portato ad una situazione di perfetta parità, che però in sostanza si traduce in una vittoria democratica, poiché in questi casi il voto dirimente spetta alla vicepresidente.

Gli equilibri che emergono dal voto ci offrono l’immagine di un Congresso in cui il compromesso sarà ancor di più la parola d’ordine della politica. Sarà necessario il compromesso tra Democratici e Repubblicani affinché possano passare le leggi della nuova Amministrazione. Ciò potrebbe costringere Biden a smussare la sua agenda su questioni come tasse, ambiente, sanità e controllo delle armi, punti su cui i Repubblicani potrebbero essere irremovibili. Altrettanto necessario sarà poi il compromesso, specie alla Camera dei Rappresentanti, all’interno della maggioranza tra la fazione progressista e quella centrista: la prima potrebbe non condividere la cautela della futura Amministrazione, la seconda potrebbe votare assieme ai Repubblicani contro provvedimenti giudicati troppo a sinistra. Di fatto, non solo il Paese è polarizzato, ma anche le istituzioni: se la Casa Bianca e il Congresso sono in mano ai Democratici, i risicati margini renderanno spesso necessario il compromesso; inoltre, i Repubblicani mantengono il controllo della Corte Suprema.

Donald Trump: un Presidente elettoralmente sottovalutato

In ogni caso, il risultato di Donald Trump è stato davvero notevole. Se guardiamo il semplice dato elettorale, il Presidente statunitense nel corso di quattro anni ha aumentato i propri elettori fino a dieci milioni di voti in più rispetto al 2016; il processo elettorale americano è particolare, non prevede l’elezione diretta del prossimo inquilino alla Casa Bianca, è risaputo, ci sono in ballo 538 grandi elettori che poi nel mese di dicembre scelgono formalmente il nuovo POTUS: ogni stato concede un numero di questi elettori, il numero minimo per poter assicurarsi la maggioranza è 270.

Un dato interessante è il seguente: alla fine, non importa il numero effettivo dei voti popolari che ciascun candidato conquista. Donald Trump vinse contro Hillary Clinton con circa un milione e mezzo di voti in meno rispetto alla candidata democratica, portandosi a casa 306 grandi elettori. Lo stesso scenario non si è ripetuto nel 2020, con Biden che è risultato vincitore sia nel voto popolare che nel numero di grandi elettori, anche se nuovamente il margine tra i secondi è risultato più risicato rispetto a quello del voto popolare.

La stampa ed i sondaggi risultano alla fine come i grandi sconfitti quattro anni fa come oggi: in blocco hanno dichiarato la vittoria bulgara di Hillary Clinton e di Joe Biden, quando a conti fatti la situazione statunitense risulta nettamente più complessa. Gli Stati Uniti, soprattutto con le ultime consultazioni, si sono rivelati un Paese spaccato e diviso sia politicamente sia socialmente. La blue wave si è imposta lungo le coste orientale e occidentale della federazione e nelle grandi città già controllate dai dem, mentre i Repubblicani hanno fatto incetta di voti nell’America Profonda, regioni di operai, contadini e agricoltori, poco avvezze alla mondanità e ai problemi di stampo liberal progressista, grazie giocoforza alla politica economica inaugurata da The Don in questo quadriennio.

Una presidenza condivisa: il ruolo della vicepresidente

Le incertezze sul passaggio dei poteri, l’età del Presidente eletto e la sua posizione centrista, unita all’importanza del compromesso al Congresso accrescono le potenzialità del ruolo della neo-eletta Vice Presidente Kamala Harris. La Harris potrebbe rivestire un ruolo centrale nell’Amministrazione, potrebbe essere designata come futura candidata alle Presidenziale del 2024 o addirittura succedere a Biden nel corso del suo mandato.

La Vice Presidente eletta avrebbe anche un ruolo da ago della bilancia nel suo stesso Partito. Oggi è assurta alle cronache come esponente progressista del suo partito. Nel contempo, durante il suo mandato di Procuratore dello Stato della California, la Harris ha assunto posizioni legalitarie e di rigore, poco gradite ai Democratici più a sinistra e che la avvicinerebbero paradossalmente ai Repubblicani più al centro. Sarà interessante vedere come si posizionerà all’interno del Partito Democratico. Inoltre, potrebbe dare un contributo fondamentale nella formazione di intese al Congresso tra le componenti moderate all’interno dei due partiti, escludendo quelle più estreme.

L’assalto al Congresso: da qui deve ripartire la Casa Bianca

Le elezioni del 2020 sono foriere di molteplici significati: primo fra tutti la fragilità della democrazia come sistema politico; ma sfrondiamo subito l’equivoco: non perché possano esprimere la propria opinione i cosiddetti analfabeti funzionali, dicitura che per chi scrive l’articolo è ributtante e ignominiosa, quanto perché l’alternanza stessa dei partiti, della maggioranza e dell’opposizione ha iniziato a stancare gli elettori per il semplice motivo che questi con costanza e gradualità si stanno sempre più spostando verso lidi sempre più radicali, pronti ad ingaggiare battaglie sempre più serrate finanche assaltare Capitol Hill.

All’assalto, portato avanti da sostenitori di Trump e QAnonisti (i sostenitori di una complessa teoria del complotto psicologica, politica ed elettorale a sostegno dell’ex Presidente), hanno partecipato attivisti anche di tutt’altro credo politico. È il simbolo in sé che importa, vale a dire: la morte del parlamentarismo e dell’alternanza democratica. In merito ci sarebbe da scrivere un articolo a parte, ma lanciamo qui una provocazione: quanto ancora i popoli potranno sopportare la retorica della partitocrazia liberale?

Di qui il compito difficilissimo di Joe Biden, prima ancora della lotta al SARS-CoV-2: sbollire gli animi statunitensi, riappacificare l’America divisa in due non dalle Montagne Rocciose ma dalle istanze degli operai, dei neri, degli omosessuali, di quei voti democratici che sono confluiti nei repubblicani e viceversa, spaccandosi sempre più fino a diventare conflittuale. La tensione sociale c’è, tra casi di palese razzismo e rivolte ed episodi di violenza che hanno preso il via da manifestazioni antirazziste. Gli Stati Uniti sono una polveriera: il loro destino era amaramente segnato. Placare le acque, la cui riuscita è improbabile, dovrà essere uno dei principali obiettivi della nuova amministrazione.

Il Trumpismo non è morto

In tutto questo gran parlare rimane però una certezza: con le elezioni del 2020 il Trumpismo rimane saldamente al centro della scena conservatrice americana, e non può essere ridotto a mero coinvolgimento elettorale sebbene molti giornali vi si siano riferiti soltanto in tale occasione, ma è anzi assimilabile ad una vera e propria filosofia di vita. È riassumibile in codesta maniera: per i suoi ammiratori, Donald Trump ha rappresentato, e tutt’ora lo rappresenta, l’emergere del nuovo sogno americano di realizzazione e di possibilità di crescita fino a raggiungere vette impensabili. The new American Dream, the new American Way of Life aperta a tutti dove chiunque può contribuire a rendere grande il proprio Paese (e fu proprio questo il motto della sua prima campagna elettorale, Make America Great Again); lo abbiamo visto: la strafottenza verso il politicamente corretto che ha però ridotto la presenza bellica statunitense in giro per il mondo, aumentato l’occupazione interna e riportato molti stabilmente di aziende yankee sul suolo americano.

Molti ora stanno brindando a Joe Biden e a Kamala Harris come le nuove punte di diamante all’interno della Stanza dei Bottoni più ambita al mondo, e contestualmente alla sconfitta di The Don, ma ciò che sfugge ai più forse è che l’amministrazione Trump è stata, al di là di ogni giudizio, il primo passo verso una nuova politica a destra come a sinistra e che segnerà l’ascesa tra i Repubblicani di nuovi avventurieri sempre più “trumpisti” nel modo di fare e nell’animo. Se i democratici e i progressisti auspicano un’uscita di scena del Tycoon, non hanno forse fatto i conti con chi verrà dopo: un Trump 2.0. Forse la figlia Ivanka o il genero Jared Kushner o qualcun altro della dinastia. Appuntamento, a questo punto, per il 2024.

Quest’articolo è stato scritto a quattro mani con Aldo Carano

Alessandro Soldà

Classe 1996, mi sono laureato in Filosofia all'Università di Trento, dove proseguo gli studi con la specializzazione in Etica e Scienze delle Religioni. Sull'Universitario mi occupo principalmente di politica (estera e nazionale) e di attualità.

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