Bambini selvaggi

Nel grande calderone delle stranezze della storia, i bambini selvaggi hanno sicuramente un posto d’onore. Tutte le società, anche quelle più primitive, sono sempre state caratterizzate da una vita in comunità umane, in cui gli animali o non sono presenti, o svolgono un preciso ruolo, derivato dall’addomesticamento, e subordinato a quello degli uomini.

I bambini selvaggi sono quei bambini che, sradicati per un motivo o per l’altro dalla società civile, sono vissuti allo stato brado in mezzo alla natura, senza alcun contatto umano (al di fuori di quello di bambini abbandonati con loro, come nel caso di Amala e Kamala), e che presumibilmente sono stati o cresciuti da degli animali, o sono diventati selvaggi a un’età in cui erano già in grado di provvedere autonomamente a sé stessi. Essi non rappresentano quindi un precedente stadio dell’umanità: rispecchiano piuttosto una regressione dell’uomo al livello dell’animale. Ecco perché l’interesse che captano è più quello degli psicologi e (in passato) dei naturalisti, che quello degli antropologi culturali: un confronto comparativo col bambino selvaggio consente (pur con tutte le cautele del caso) di indagare il confine fra natura umana e condizionamento sociale: permette di scoprire fin dove lo sviluppo cognitivo può autonomamente svilupparsi, anche solo per giungere a delle competenze potenziali e non attuali, e laddove invece è necessario l’aiuto degli altri, il confronto con i propri simili, per sviluppare quelle abilità che noi, in un essere umano sano e normodotato, diamo per scontate.

Naturalmente arrivare a delle conclusioni certe è molto difficile: i casi di bambini selvaggi non sono molti e appartengono soprattutto a un passato remoto; inoltre, è difficile valutare quanto questi bambini siano stati esposti a un contatto sociale umano prima di essere abbandonati alla natura primordiale, e quindi quali competenze potrebbero aver acquisito almeno in potenza; infine, in passato, la psicologia dello sviluppo cognitivo ancora non esisteva, quindi la definizione delle tappe per cui doveva passare lo sviluppo di ogni bambino risultava molto approssimativa e congetturale, così come le esperienze che doveva fare e i periodi in cui doveva viverle. Tuttavia, un confronto con queste anomalie della natura continua, ancora oggi, a esser motivo di interesse per uomini comuni e scienziati.

Sembra piuttosto assodata la teoria di Aristotele per cui l’uomo è un animale sociale, un animale che, nonostante possa anche essere egoista, ha bisogno degli altri per vivere e sopravvivere. L’uomo appartiene, infatti, come tutti i mammiferi, alla classe della prole inetta, ossia quell’insieme di animali che, appena nato e per un lungo periodo successivo, è quasi completamente incapace di provvedere da solo ai propri bisogni; nell’uomo è particolarmente accentuata questa inettitudine, dato che prima dei 5-6 anni gli sarebbe impossibile, anche a uno stato del tutto brado, provvedere autonomamente ai propri bisogni[1]. Anche giunto a questo punto però, il bambino continua ad essere un animale sociale, che cresce e si sviluppa sempre nell’interazione con gli altri.

La natura umana non sembra essere scindibile dalla dimensione della socialità, della civiltà, della cultura. Attraverso il racconto di alcuni casi, fra i più famosi, di bambini selvaggi, vediamo se e dove è possibile rintracciare un limite fra natura e società.

Il caso di Victor

Il caso di Victor dell’Aveyron è probabilmente il più documentato della storia. Victor, un bambino selvaggio che viveva nei pressi delle foreste dell’Aveyorn, in Francia, a fine ‘700, venne catturato definitivamente nei primi di gennaio del 1800, dopo esser scampato diverse volte, nei due-tre anni precedenti, alla cattura e alla “prigionia” nella società civile. Non si sa quali animali lo crebbero, fatto sta che Victor fu catturato da solo; quindi, presumibilmente, non faceva parte, nell’epoca in cui fu trovato, di un branco. Questo lascia aperta l’ipotesi che il ragazzo fosse stato abbandonato o si fosse perso nei boschi quand’era già in un’età relativamente avanzata, in cui era in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento. Victor scatenò da subito la curiosità dell’opinione pubblica, eccitata da una scoperta così insolita, e accese un vivo dibattito nei circoli illuministi sulla natura dell’uomo: anche la Société des observateurs de l’homme, una società intellettuale antesignana dei moderni antropologi, tentò di occuparsene.

Sicuramente, l’aspetto di Victor che più colpiva era la sua totale incapacità di parlare; le sue emissioni vocali si limitavano a suoni inarticolati, legati a emozioni semplici e intense, come quelle del dolore e del piacere, vissute nell’hic et nunc.

Dopo alcuni soggiorni presso una vedova e un orfanotrofio, l’abate e naturalista Pierre Joseph Bonnaterre lo prese in cura presso di sé. Dalle sue analisi, risultò che il bambino probabilmente non fosse di scarso intendimento; inoltre, mise in dubbio, ma senza confutarla, la credenza che fosse sempre vissuto nei boschi e propose l’ipotesi che vi fosse stato abbandonato all’età di 5-6 anni.

Di tutt’altro avviso fu Philippe Pinel, membro della Société e fondatore della moderna psichiatria, che ebbe occasione di visitarlo di persona: Pinel affermò che il giovane era palesemente minorato in tutte le funzioni sensoriali e intellettuali, e adatto a una vita puramente animale; per Pinel, Victor presentava tutti i segni dell’idiozia, e poteva supporsi incapace di qualunque risocializzazione o istruzione.   

Da queste conclusioni dissentì Jean Itard, il medico e pedagogista che per lunghi anni lo prese in cura, nel tentativo di rieducarlo, assieme alla sua nutrice, la signora Guèrin.

Il linguaggio

Ovviamente, il principale tentativo di rieducazione di Victor fu basato sul linguaggio. Il recupero del medium della comunicazione e dell’astrazione per eccellenza era un presupposto fondamentale per riabilitarlo socialmente.

Attraverso il linguaggio, sia nelle sue forme verbali che non verbali, noi interagiamo con le altre persone all’interno di quello che è un patrimonio simbolico-culturale condiviso: se io e un mio interlocutore non condividiamo alcuna lingua, potremo comunicare solo attraverso una gestualità rudimentale e improvvisata (che nulla ha a che vedere col linguaggio dei segni).

Ma non solo, il linguaggio è uno strumento che presuppone, e allo stesso tempo consente, la capacità di astrazione: infatti, per utilizzarlo quotidianamente, dobbiamo saper fare uso dell’infinità discreta, una caratteristica fondamentale del linguaggio. Essa prevede che, avendo dei costituenti finiti (le parole che abbiamo nel nostro vocabolario[2]), noi siamo in grado di combinarli in maniera potenzialmente infinita, attraverso quella che è una capacità combinatoria astratta, di cui noi apprendiamo spontaneamente l’uso. Al contempo stesso, il linguaggio ci consente di elaborare e “maneggiare” concetti astratti, di estraniarci dal qui e ora e parlare del passato e del futuro, di esprimere emozioni complesse e dar voce a ragionamenti molto elaborati.

Numerosi studi etologici sulle capacità linguistiche degli animali hanno evidenziato come questi non posseggano nulla di assolutamente comparabile al linguaggio umano: possono, in alcuni sistemi di comunicazione, rispecchiarne alcune caratteristiche[3]; ma, soprattutto per quanto riguarda la capacità di astrazione del linguaggio, con tutto ciò che essa comporta a un livello intellettuale, sembrano non avere niente in comune col linguaggio.[4]

Non stupisce quindi che Itard puntasse al recupero innanzitutto del linguaggio di Victor. La cosa, come riporta lo stesso medico in due suoi resoconti (uno del 1801, uno del 1807), non gli riuscì: a causa della mancanza di un contatto umano, Victor non aveva sviluppato nemmeno le capacità sensoriali e fisiologiche tipiche dell’essere umano; per quanto il suo apparato fonico fosse potenzialmente in grado di proferire dei suoni articolati, egli non imparò mai ad avvertire le stesse qualità sensibili, a riconoscere gli stessi rumori, a distinguere le stesse forme e sapori degli altri uomini. Di conseguenza, non fu mai in grado di fare “quel passo di astrazione” che gli avrebbe consentito di imparare a parlare. Victor riuscì a pronunciare un solo suono articolato: la parola latte (lait). Tuttavia, egli ricorreva a tale espressione solo quando davanti a lui c’era del latte; la parola era utilizzata quindi solo come un’esclamazione di gioia o soddisfazione, un segno del suo stato d’animo, e non come un simbolo convenzionale, potenzialmente inseribile all’interno di un discorso, che denota quell’oggetto.

Anche gli animali ricorrono a esclamazioni espressive di sentimenti, davanti a certi oggetti o eventi: sicuramente meno articolate di una parola da un punto di vista fonico, e questo per via di un apparato molto più elementare; esclamazioni che inoltre rimangono, da un punto di vista intellettuale, nel rango di un semplice segno, associato a un vissuto soggettivo. E non prendono mai la forma di un simbolo, che denota un oggetto, e che presuppone quindi un distaccamento del soggetto dall’oggetto, attraverso una denotazione, appunto, oggettiva.

La storia di Victor ha un finale piuttosto anonimo: dopo anni di tentativi, Itard rinunciò al suo proposito di rieducare il ragazzo. Victor visse così con la signora Guérin in una casa privata nei pressi dell’Istituto per sordomuti, ricevendo una pensione statale e, di questo periodo della sua vita, non si sa praticamente nulla. Morì del tutto dimenticato dall’opinione pubblica nel 1828, rimanendo fondamentalmente ancorato al suo stato da animale, e fu sepolto in una fossa comune.

Questa storia, assieme alla nascita della psicologia dello sviluppo cognitivo che si ebbe a partire dagli anni ‘20/’30 con Jean Piaget, ci insegna che la natura umana non è un codice già scritto che ogni bambino ha impresso in sé dalla nascita, ma è una “natura”[5] che ha bisogno del confronto e dell’interazione con gli altri per svilupparsi in tutte quelle sue caratteristiche che diamo per scontate.

Il caso di John Ssabunnya

Un altro caso più recente e, diciamolo, più felice nel suo epilogo, di ragazzo selvaggio, è quello di John Ssabunnya. John era un bambino ugandese, nato nel villaggio di Kabonge che all’età di tre anni, sul finire degli anni ‘80, vide suo padre uccidere brutalmente sua madre. Secondo una versione maggioritaria, terrorizzato, il bambino sarebbe scappato di casa, fuggendo nella giungla; altre versioni riportano che fu il padre, che non voleva prendersi cura di lui, ad abbandonarlo nella natura incontaminata.

Dagli uno ai tre anni dopo (sempre a seconda delle fonti)[6], una donna del villaggio notò una scimmia strana giocare e mangiare con le altre: quella scimmia non aveva la coda! Osservandola attentamente, si rese conto che era un bambino. Avvertiti gli uomini del villaggio della strana scoperta, alcuni membri del villaggio si organizzarono per riportare John alla civiltà. Dovettero però faticare non poco per catturarlo: le scimmie lo avevano infatti accettato a tutti gli effetti come un membro del branco e lo difesero a pietre, bastoni, calci e morsi prima di mollare la presa. Una volta al villaggio, John fu curato, “tosato” (aveva infatti capelli e peli dove solitamente non ce ne sono, nei bambini della sua età) e riabituato a un’alimentazione normale. John afferma infatti di non aver mai bevuto durante la sua vita selvaggia; si idratava quindi solo attraverso il cibo che mangiava. Attenzione, dettaglio scabroso per i deboli di stomaco: le persone che lo curarono riferiscono che, appena ebbe mangiato una zuppa calda, soffrì di una fortissima diarrea per giorni; si dice che abbia espulso dal suo intestino vermi di oltre mezzo metro.

Dopo aver appreso del caso, il direttore di un orfanotrofio cristiano, Paul Wasswa, ha chiesto alle autorità locali il permesso di adottare il ragazzo e allevarlo insieme alla sua famiglia. Paul convinse sua moglie, Molly Wasswa, a lasciare che il ragazzo vivesse con loro. Qui imparò a parlare, camminare e ad apprendere abitudini umane; l’educazione ricevuta l’hanno portato a essere, oggi, un essere umano quasi normale, che presenta solo alcune difficoltà linguistiche. John vive ancora in Uganda, e ha rilasciato numerose interviste a giornalisti di tutto il mondo[7].

Fra le vicende successive che visse, sicuramente la più rilevante è stata quella nel coro dell’orfanotrofio “Pearl Of Africa Children’s Choir”, in cui il bambino fu subito incorporato non appena ebbe imparato a parlare, in virtù della sua bella voce. Hillary Cook, dentista inglese venuta in Uganda per fornire cure dentistiche ai poveri d’Africa, conobbe la sua storia e si interessò al ragazzo a tal punto che riuscì a organizzare un tour di 3 settimane per il coro in Inghilterra nelle chiese di Merseyside, Glasgow, Sheffield, Londra e Galles.

Ad oggi John, grazie alle sue attività con il coro e alla sua partecipazione alle Olimpiadi Speciali (John è infatti un eccellente atleta, con una particolare predilezione per il calcio), è riuscito a mettere da parte un po’ di soldi con cui si è, tra le altre cose, comprato una casa a Bombo, una città non distante da Kabonge. Recentemente, ha espresso il desiderio di sposarsi e avere figli. Come una persona normale, insomma.

Questa storia ci insegna, a differenza di quella di Victor, che il “recupero” di un bambino selvaggio è possibile. Certamente servirebbero degli studi comparativi fra bambini selvaggi, dei quali si dovrebbero avere documentazioni assolutamente certe, per capire qual è il limite massimo, il “punto di non ritorno” per un recupero; e forse questo breve articolo avrà dato un’idea di quanto questi dati siano difficili da ottenere. Eppure, il tema dei bambini selvaggi è qualcosa che non ha smesso di solleticare la nostra fantasia: un po’ per capire chi siamo, e stabilire i confini fra natura e società; e un po’ perché, soprattutto per i più sognatori, rappresentano il fascino di un’estrema, immaginosa e utopica alternativa di umanità.   


[1] http://www.jonathancoop.com/wp-content/uploads/2020/05/Sviluppo-Cognitivo-LE-FASI.pdf

[2] Va comunque detto che il vocabolario di una persona può essere ampliato anche attraverso la creatività, e non solo attraverso la conoscenza: nella categoria delle parole a classe aperta, come i verbi, i sostantivi e gli aggettivi, un soggetto può anche inventare parole nuove, che possono risultare in taluni casi perfettamente comprensibili agli interlocutori: per esempio, la parola “faxare” non esiste, ma è perfettamente comprensibile.

[3] Per chi volesse approfondire la questione sotto una prospettiva psicolinguistica, rimando al primo capitolo di “L’acquisizione del linguaggio. Un’introduzione” di Maria Teresa Guasti.

[4] Per chi volesse approfondire questa prospettiva, rimando al Saggio sull’uomo del filosofo tedesco Ernst Cassirer

[5] Forse, a questo punto, il termine “natura” diventa improprio, perché sembra far riferimento a qualcosa di originario. Tuttavia, si può dire che se l’uomo è portato a svilupparsi in un certo modo, piuttosto che in un altro, vi sono delle predisposizioni e delle attitudini naturali che ne orientano lo sviluppo.

[6] https://www.theguardian.com/world/1999/oct/10/euanferguson.theobserver

https://es.wikipedia.org/wiki/John_Ssabunnya

http://www.mollyandpaul.org/john%20ssebunya.html

[7] Questa è una di quelle interviste, rilasciata al TheGuardian.

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