L’incubo del digitale: com’è cambiata la società nell’era del web?

Un pesce che nuota nel mare non ha alcuna consapevolezza di trovarsi in uno spazio chiuso al di fuori del quale si apre un orizzonte di possibilità. Per lui esiste solo il mare, nella sua accogliente sconfinatezza. Anche noi uomini, come pesci, viviamo in ambienti chiusi che definiscono e influenzano le nostre azioni e il modo in cui percepiamo noi stessi. 

Il mondo di oggi è fortemente digitalizzato, e la neonata, eppure già fortemente avanzata, era del web sembra essere il nostro solo orizzonte possibile. Proprio come pesci, navighiamo in rete e abbocchiamo a qualsiasi contenuto ci venga proposto. 

I cambiamenti che l’era digitale ha apportato alla nostra qualità di vita sono stati così rivoluzionari e al contempo, ironicamente, così rapidi da non averci lasciato il tempo di riflettere sulla loro portata. Del resto, molti di noi sono già nati come pesci, con delle pinne al posto delle mani, chiusi tra le pareti dell’acquario digitale. Ma quale misterioso orizzonte si nasconde oltre queste pareti trasparenti eppure opache? 

Come prima cosa, le pareti digitali ci hanno separati dall’orizzonte del passato. Se ne accorge bene chi è nato ancora prima dell’esplosione della rivoluzione digitale. Alcune di queste persone si trovano tuttora smarrite e, del tutto disorientate, non sembrano possedere i dati necessari per comprendere il mondo di oggi. Altre hanno dovuto adattarsi per rimanere al passo del ritmo sfrenato imposto da una società che chiede sempre di più e in sempre meno tempo. 

Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano nato nel 1959 e attualmente docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, è uno dei tanti testimoni della cesura digitale che separa la nostra generazione da quella dei nostri padri. In molti dei suoi lavori, come ad esempio in “Nello Sciame” (2015) o “L’espulsione dell’Altro” (2017), Han analizza le caratteristiche portanti della società digitale. 

“Oggi ci inebriamo del medium digitale, senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile ebbrezza. Questa cecità e il simultaneo stordimento rappresentano la crisi dei nostri giorni.”

Il ritratto che fa Han del mondo del web non è dei più clementi e ottimistici; anzi, egli esorta a riflettere sul fatto che il digitale ha promosso numerosi aspetti che hanno sfregiato la nostra società provocandone una crisi. Innanzitutto, con l’avvento dell’era del digitale non esiste più una sfera privata distinguibile dalla sfera pubblica, e questo perché l’ambito del privato è, per definizione, l’ambito da cui si distoglie lo sguardo. Oggi, invece, il nostro sguardo è perennemente puntato sugli altri e il medium digitale invita tutti noi a dare sfoggio della nostra vita privata, fino ad arrivare ad un‘esibizione pornografica dell’intimità. Una società del genere è per forza caratterizzata da un’assenza di rispetto. Infatti, secondo Han, si rispetta qualcosa quando si distoglie lo sguardo da essa per volgersi altrove. La società digitale è invece la società dell’impertinenza e dell’indiscrezione. L’assenza di rispetto è inoltre incoraggiata dall’anonimato accordato alla comunicazione digitale, la quale separa il messaggio dal mittente, per cui non vi è in essa alcun confronto faccia a faccia, ma solo una comunicazione piatta fatta di messaggi omologati e intermediati da uno schermo altrettanto piatto.

L’assenza di rispetto che osserviamo oggi culmina nel fenomeno delle shitstorms, ossia quelle ondate di indignazione per cui un numero considerevole di persone si scaglia contro un certo personaggio, una certa organizzazione oppure una certa azienda. Le shitstorms sono spesso caratterizzate da comportamenti e linguaggio violento, dal momento che una caratteristica della comunicazione digitale è quella di essere senza filtri: in rete tutto sembra essere concesso e anche il più piccolo degli uomini può fingersi grande cavalcando l’onda della shitstorm

Proprio per la forte carica violenta (e, al contempo, virulenta) di cui si fanno portatrici, le shitstorms sono molto efficaci, ma sono anche instabili, volatili, senza forma né direzione. L’indignazione di cui esse si fanno portavoce è ben diversa da quel tipo di indignazione promossa dal diplomatico novantatreenne francese Stéphane Hessel, che nel 2010 ha pubblicato il phamplet “Indignatevi!“, esortando migliaia di giovani a dare voce al proprio dissenso in nome di ideali quali giustizia, pace e libertà. L’indignazione digitale non ammette alcun dialogo, è unilaterale ed effimera, perché si estingue con la stessa facilità con cui si crea. Giusto il tempo di cavalcare l’onda dello sdegno e poi si passa all’argomento successivo. Proprio per questo l’indignazione digitale non ha alcun vero potere di generare un’azione effettiva. Questo a maggior ragione se si considera che le persone che cavalcano l’onda non sono mosse da ideali nobili quanto piuttosto da un interesse narcisistico: ci si esprime contro un determinato provvedimento non perché si crede sia sbagliato in sé, ma perché si vuole apparire persone integre e a modo. 

Più che a pesci in mezzo al mare, Han paragona gli abitanti del mondo digitale a tanti piccoli insetti che compongono uno sciame. Lo sciame digitale si differenzia dalla massa del Novecento così come ce la descrive il sociologo francese Gustave Le Bon (1841-1931) nel suo libro “La psicologia delle folle“. Per Le Bon le masse rappresentano la voce del popolo e la loro azione comune è in grado di far capitolare il potere ma anche di corrompere e degradare la società. Han sottolinea in merito che lo sciame digitale non è una folla perché al contrario di essa non possiede un’unità, un’anima comune. Mentre il protagonista della folla è un signor Nessuno e la sua identità si trova corrosa e dispersa in favore della collettività, dentro lo sciame digitale si è sempre qualcuno, nella misura in cui si possiede un proprio profilo. Inoltre, le folle, per minacciare il potere esistente, si riuniscono nelle piazze. Oggi, l’uomo digitale non si riunisce più attivamente con i suoi simili, salvo di tanto in tanto per dare vita a miseri assembramenti senza riunione (come, ad esempio, gli smart mobs). Proprio per questo motivo, le battaglie portate avanti dai membri dello sciame digitale rimangono parziali e insufficienti: esse partono da individui singoli non accorpati sotto il segno di un Noi comune, e allo stesso modo si indirizzano verso altrettanti singoli individui, mai contro un intero sistema.

Del resto, cosa ci resta oggi da smantellare? Sono in molti a sostenere che l’epoca delle lotte di classe sia ormai giunta alla sua fine, e questi molti dicono il vero, per il semplice fatto che ormai non esistono più classi. Gli individui digitali fanno parte di un’unica classe che conta tanto il più ricco capitalista quanto il più misero operaio. Lo sciame digitale non è una moltitudine contrapposta al capitalismo: essa non viene sfruttata, ma si sfrutta da sola. Ciascuno di noi oggi, spesso inconsapevolmente, utilizza il proprio profilo per vendere dati personali alle aziende e alle agenzie pubblicitarie. È in virtù di questo superficiale narcisismo che la moltitudine della folla di ieri cede oggi il passo alla solitudine, all’atomizzazione, all’egotismo.

La società digitale è, inoltre, una società de-medializzata: l’informazione che vi circola non necessita di mediazione, non si irradia più da un centro verso una periferia, in quanto siamo tutti al contempo produttori e fruitori di dati. I membri della comunità digitale vivono come pesci all’interno di un acquario dalle pareti trasparenti, ed è proprio questa trasparenza che minaccia il potere. Infatti, il potere, per sua stessa natura, è sempre stato fomentato dal mistero e dal segreto. La comunicazione messa in atto dal potere ricava infatti la sua forza dalla propria natura asimmetrica, per cui l’informazione viene prodotta e impacchettata dal potere, che la consegna in seguito ai cittadini secondo il senso che questo ritiene funzionale ai suoi programmi. L’imperativo della trasparenza, al contrario, genera la sensazione di essere perennemente osservati, motivo per cui bisogna sempre stare attenti a quello che si fa e si dice. Sono soprattutto i personaggi pubblici e i politici a muoversi con particolare cautela proprio per evitare che determinate dichiarazioni o atteggiamenti vengano trasmesse ai media provocando di conseguenza una shitstorm.

A proposito del potere, Han ci dice che oggi il Big Brother è scomparso a favore dei big data. Oggi, infatti, il sovrano non è più chi decide della morte o della vita dei cittadini ma chi dispone delle shitsorms in rete. Il potere non è più un unico occhio che sorveglia tutti dall’alto (com’era per il Big Brother di Orwell, rappresentazione dei poteri totalitaristici), ma si irradia da dentro e penetra in ogni fessura del tessuto sociale. L’attività di governo oggi si avvicina al marketing con i suoi sondaggi. Il potere è diventato come il mercato, dal momento che non presuppone alcun discorso, ma lascia semplicemente decidere se un contenuto “piace” oppure no. Probabilmente arriveremo presto a prendere decisioni politiche online allo stesso modo con cui oggi facciamo acquisti grazie ai servizi di e-commerce e, tra una storia di Instagram e l’altra, agli spot commerciali verranno affiancati spot di propaganda.

Ci esponiamo e ci illuminiamo volontariamente in rete, facendo a gara tra noi per rivendicare di essere i più belli, i più dotati, insomma, i più degni di essere “comprati” come fossimo oggetti dietro una vetrina. Libertà e controllo sono oggi diventati indistinguibili, perché siamo noi stessi ad avvertire i bisogno di esporci, di essere visti e dunque monitorati. Nessuno sorveglia altri dall’alto, tutti guardano tutti. Ognuno è big brother – e, come tale, passeggia indisturbato osservando le vetrine dei negozi – e allo stesso tempo prigioniero, felicemente rinchiuso al di là del vetro.

La trasparenza non nuoce solo al potere, ma crea un danno significativo alla nozione stessa di verità. La natura autentica della verità, infatti, consiste nel suo essere velata, nascosta e pertanto non accessibile a chiunque. I membri dello sciame digitale sembrano aver dimenticato che la conoscenza non coincide con il consumo di più informazioni possibili, dato che essa è sempre qualitativa e mai quantitativa e additiva. Non è proficuo, per l’intelligenza, accumulare informazioni solo per il gusto di farlo, senza essere in grado di confrontarle ed esaminarle in profondità. Le informazioni digitali sono spesso piatte e si diffondono come un virus del senso senza alcun peso. La topologia del digitale è costituita da spazi piani, lisci e aperti: il segreto della verità predilige invece spazi porosi, sotterranei, nascosti.

Con l’era digitale, masse di informazioni penetrano dentro di noi senza alcuna risposta immunitaria. Nello sciame, siamo tutti malati di IFS (Sindrome da affaticamento informativo), il che comporta un divario netto tra i dati a cui abbiamo accesso e la nostra conoscenza. Ciò che capiamo è nettamente inferiore rispetto a ciò che pensiamo di capire. Dunque, in realtà, con la crescente trasparenza, il mondo non viene ulteriormente chiarificato, ma al contrario scivola sempre più lungo il baratro buio e tenebroso dell’ignoranza.

Proprio in virtù di questa volontà di fagocitare, e dunque produrre, più informazioni possibili, il medium digitale provoca un frastuono comunicativo che, non essendo mai interrotto dal silenzio, impedisce il respiro e la riflessione. Siamo immersi in un flusso di informazioni continuo, dal momento che il tempo del medium digitale è un presente infinito, e questo ci impedisce di progettare il futuro. Lo smartphone, utilizzando solo ed esclusivamente il tempo attuale, impedisce la lungimiranza preferendone la velocità e, in generale, scansa tutti i processi lunghi e lenti. Pensiamo a quanti di noi si spazientiscono se una pagina web ci mette più del solito (anche solo se si tratta di pochi secondi) a caricare.

Un’altra caratteristica della comunicazione digitale è quella di essere disincarnata e priva di corporeità. La comunicazione in rete e, più in generale, il mondo digitale, tende a perdere il contatto con il reale fino ad autocostituirsi come una sorta di parallelo regno dell’immaginario. Connettendoci, noi fuggiamo dall’imperfezione reale per rifugiarci in una perfezione ideale. Il carattere di questa fuga è perfettamente comprensibile se si pensa alla natura dell’immagine digitale: essa, attraverso tecniche di ottimizzazione e di ritocco, è volta ad eliminare i segni del tempo, della vecchiaia e dunque dell’incombenza della morte. La fotografia analogica, al contrario, essendo materiale soffre il tempo ed è deperibile e mortale in quanto può impallidirsi o rovinarsi. Nella sua volontà di allontanarsi dalla fotografia come copia identica del reale, l’estetica digitale si riavvicina alla pittura: una pipa (o una qualsiasi immagine) modificata a livello digitale è una pipa ottimizzata, dunque non è una vera pipa.

Il digitale annulla sia la prossimità che la lontananza. Con internet disimpariamo a pensare alla creatura umana lontana e ad afferrare quella vicina. Lo sciame digitale è un regno di fantasmi, e tuttavia di fantasmi spudorati e chiassosi. Siamo immersi in un mare in cui non è possibile scavare né disegnare linee nette, in cui oggetto e soggetto si confondono e il padrone è tenuto al guinzaglio esattamente come il servo. Al posto dell’azione subentra l’operazione. Il pensiero diventa così calcolo e non c’è più spazio per l’errore e per l’indugio che invece sono essenziali nel cammino che porta alla verità. Tutto è familiare, eppure tutto ci resta sconosciuto. Il digitale scansa il dolore in favore del piacere effimero espresso dal “Mi piace”. È un mondo che conta (i followers, le informazioni ecc..) ma non ha nulla da raccontare, si ha in esso cognizione di tutto ma non si conosce realmente nulla. 

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