“L’aborto non è giusto”, “no infatti, è un Diritto!” (o almeno così dovrebbe…)

In Polonia l’interruzione di gravidanza era disciplinata da una di quelle che potremmo considerare le legislazioni più restrittive d’Europa, ritenuta attuabile entro le dodici settimane di gestazione e solo nel caso venissero riscontrate malformazioni al feto, in caso di stupro (o incesto) e nell’eventualità che la vita della madre fosse in pericolo. Da inizio 2021, però, rimangono legali solo le ultime due circostanze. Come si è arrivati a questa situazione? E quali sono le conseguenze?

La legge, approvata a seguito di una mozione presentata da cento parlamentari – rimasti anonimi – inizialmente sospesa ad ottobre del 2020 a seguito di proteste, è stata poi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale polacca il 27 gennaio 2021, sancendo la sua entrata in vigore.

In questi giorni la questione è tornata nelle piazze, rivendicando la prima vittima: Izabela Sajbor, ventiduesima settimana, quindi ad appena metà gravidanza, era stata ricoverata per la perdita del liquido amniotico. Ma i medici, invece di intervenire con una interruzione terapeutica della gravidanza per evitare infezioni alla donna, avevano deciso di aspettare che il feto – malformato – morisse da solo. Quando questo è successo, neanche 24 ore dopo, era ormai troppo tardi ed è morta anche la madre per shock settico. Infatti, lo scorso anno la Corte costituzionale polacca aveva stabilito l’incostituzionalità dell’interruzione di gravidanza per caso di difetti congeniti del feto.

Quando il fanatismo antiabortista diventa legge può accadere che, piuttosto che tutelare la vita, se ne perdano due di vite: quella del feto e quella della madre. Succede chissà a quante donne senza nome nel mondo, e in questo preciso momento si chiamano tutte Izabela Sajbor.

Sarebbe bello raccontare che viviamo in un paese lontano da questa visione, dove persiste un Diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, ma la distanza abissale a livello legislativo è nei fatti non così ampia. La questione è inquadrata dalla legge 194/1978, che però, riconoscendo al suo art. 9 l’obiezione di coscienza, rischia di sfociare in un’Italia dove praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (IGV) è altamente complesso, vista la prevalenza di medici obiettori negli ospedali pubblici (si stima 7 su 10), e ciò succede nonostante la suddetta legge vieti «l’obiezione di struttura», cioè stabilisca che il numero di medici obiettori di un ospedale non deve impedire gli interventi di interruzione volontaria di gravidanza. Concretamente, però, nel 35,1% delle strutture con un reparto di ginecologia o ostetricia non è possibile accedere a tale trattamento.

A distanza di tempo dall’approvazione di questa legge, comunque, l’aborto è una questione ancora molto viva nel dibattito pubblico, come si è visto in questi giorni dopo l’affermazione del conduttore Alfonso Signorini durante l’ultima puntata del Grande Fratello Vip.

Concludendo, si potrebbero porre tanti punti di domanda e fare infinite battaglie, che, in ordine di tempo, non avrebbero né risposta né giustizia, ma è fondamentale chiederci come – arrivati davvero a piccoli passi avanti – nel XXI secolo, basti un salto indietro per tornare a quando le donne, di fatto, non potevano autodeterminarsi, perché il dilemma dell’aborto è proprio questo: tra autodeterminazione e diritto alla vita.

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