Un’introduzione alla filosofia della scienza

La filosofia della scienza è una branca della filosofia che, a partire dal secolo scorso, ha suscitato l’interesse di sempre più studiosi. L’obiettivo di questa disciplina è ragionare sulla dimensione filosofica della scienza: la scienza, infatti, oltre ad aver ottenuto molti risultati utili dal punto di vista pratico, ha proposto delle rappresentazioni del mondo che, nel corso della storia, hanno molto influenzato il pensiero filosofico. Insomma, l’interesse della filosofia nei confronti della scienza non è dovuto solamente all’incredibile sviluppo che quest’ultima ha avuto nell’epoca contemporanea, ma anche e soprattutto al fatto che il sapere scientifico solleva questioni che sono di interesse puramente filosofico. Si potrebbe, quindi, definire in modo informale la filosofia della scienza come l’analisi dei metodi, dei contenuti concettuali e delle implicazioni filosofiche delle moderne teorie scientifiche.

La filosofia della scienza, dunque, parte dal presupposto che le relazioni tra filosofia e scienza siano profonde, degne di essere analizzate e, soprattutto, utili per comprendere la natura di entrambe le discipline. Inoltre, nella stessa filosofia della scienza è presente un’idea molto ampia di teoria scientifica: si fanno rientrare nell’ambito delle teorie scientifiche non soltanto quelle di tradizione solida (matematica, fisica, chimica, ecc.), ma anche quelle che rientrano nelle scienze umane (economia, sociologia, psicologia, linguistica, ecc.). Allo stesso modo, esistono molti problemi filosofici figli di un’antica tradizione – il problema del determinismo o quello della relazione tra mente e corpo – che non solo non possono essere affrontati in una prospettiva nuova se non si tiene conto delle teorie e dei risultati della scienza moderna, ma che rischiano anzi di perdere di significato se tali teorie non vengono prese in considerazione. 

In quest’ottica, è necessario presupporre che la relazione tra scienza e filosofia sia feconda: ma la cosa non è scontata. Tuttavia, se si va a rivedere quanto è successo nel passato ci si accorgerà che tutta la storia del pensiero occidentale è l’esempio perfetto per garantire la ricchezza della dialettica tra il pensiero scientifico e quello filosofico. È sufficiente, infatti, notare che sia nel corso della storia gran parte dei filosofi della tradizione occidentale si è interessata alla scienza – fondandone, talvolta, direttamente i contenuti –, sia numerosi tra i maggiori scienziati moderni e contemporanei hanno manifestato la consapevolezza della portata filosofica delle teorie che stavano costruendo. Tra questi ultimi, sicuramente, l’esempio principale è Albert Einstein, che riteneva fossero molto limitati quegli scienziati che non ragionavano sulle implicazioni filosofiche delle loro teorie. Infatti, in una lettera del 1944, scriveva:

Molte persone al giorno d’oggi – compresi scienziati professionisti – mi appaiono come colui che ha visto migliaia di alberi senza mai vedere una foresta. Una conoscenza dello sfondo storico e filosofico fornisce proprio quella indipendenza dai pregiudizi della propria generazione dai quali la maggior parte degli scienziati sono afflitti. Questa indipendenza determinata dall’analisi filosofica è – a mio giudizio – il segno di distinzione tra un semplice artigiano o specialista e un autentico cercatore di verità.

Quando parliamo di filosofia, di scienza e di filosofia della scienza assumiamo: di sapere che la scienza e la filosofia sono discipline ben distinte; di essere in grado, con un buon grado di approssimazione, di tracciare la linea di demarcazione tra esse. Tuttavia, questa distinzione è frutto di un processo storico: non solo filosofia e scienza non sono sempre state distinte, ma lo sono da un tempo piuttosto breve, e capire le origini di questo processo può trasmetterci importanti messaggi dal punto di vista concettuale. La nascita della scienza è definita mediante l’uso dell’espressione “Rivoluzione Scientifica”, ed è indubbio che la Rivoluzione Scientifica rappresenta uno degli eventi fondanti della modernità. Essa consistette in un processo storico di grande importanza che non si verificò in un tempo ristretto, ma che durò circa centocinquanta anni: dalla metà del ‘500 alla fine del ‘600. È uso indicare due grandi opere per segnare i confini di questa svolta culturale: il De Rivolutionibus Orbium Celestium di Niccolò Copernico (1543) e il Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton (1687). In questo periodo, si consolidò una nuova visione del mondo naturale, con caratteristiche che lo allontanarono in modo irreversibile dalle immagini del mondo precedenti. 

Il fattore probabilmente più importante, dal punto di vista intellettuale, è lo sviluppo di una diffusa e più marcata disposizione alla modellizzazione e all’astrazione nella descrizione dei processi naturali. Stiamo parlando di un atteggiamento che agli occhi dello scienziato contemporaneo appare ovvio e indispensabile: per ambire alla comprensione delle proprietà delle leggi fondamentali di una certa classe di fenomeni, è in primo luogo necessario costruire una rappresentazione astratta e idealizzata – cioè, estremamente semplificata – del fenomeno: questa è la modellizzazione. La scienza moderna, pertanto, nasce dalla capacità di cogliere la rilevanza di questo atteggiamento idealizzante. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), Galileo Galilei scrive:

Sì come a voler che i calcoli tornino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, involgie ed altre bagaglie, così quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell’astratto né nel concreto, né nella geometria né nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti.

Il riferimento a “difalcare gli impedimenti della materia” è qui da intendere come una sorta di prescrizione metodologica: è la disposizione all’idealizzazione, cioè a separare gli elementi contingenti per selezionare solo quei caratteri che sono portatori delle proprietà fondamentali del fenomeno. Se lo scienziato riuscirà ad applicare questa prescrizione metodologica “le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici”: la verifica dell’ipotesi scientifica porterà a un risultato di grande accuratezza.

L’idealizzazione, inoltre, ha permesso lo sviluppo di un’altra caratteristica fondamentale della Rivoluzione Scientifica, ovvero l’uso della matematica per risolvere i problemi della scienza moderna. La modellizzazione, infatti, rende possibile un processo culturale di questo tipo, perché la costruzione di modelli semplici di un fenomeno permette al linguaggio e agli strumenti della matematica di essere applicati nel modo più efficace. Pertanto, dal momento in cui questi strumenti vengono usati in un ambiente teorico semplice, cioè nel modello di quel fenomeno, si comincia ad avere una progressiva matematizzazione delle scienze naturali.

L’attenzione per l’esigenza di rappresentare in modo idealizzato i fenomeni rende possibile, quindi, una migliore integrazione della componente empirica e della componente logica della scienza, e soprattutto un’applicazione sempre più estesa della matematica ai fenomeni naturali. Questo implica che, nel tentare di comprendere le basi di un fenomeno naturale mediante un suo modello, gli scienziati dovranno stare attenti non soltanto alle proprietà che considerano importanti (e che saranno presenti nel modello), ma anche quelle che decideranno di tralasciare e che quindi il modello ignorerà.  Occorre, comunque, fare una precisazione: alla nascita di ciò che noi oggi definiamo “scienza moderna” concorrono un gran numero di scienze e indagini particolari, e soltanto per una parte di esse il processo di matematizzazione ebbe un ruolo decisivo: ci furono svariate discipline che contribuirono in modo essenziale a formare una moderna immagine del mondo e nelle quali la matematica ebbe un ruolo limitato o nullo, come, ad esempio, la rivoluzione darwiniana.

Un ulteriore fattore di novità della rivoluzione scientifica, proprio sullo sfondo del radicale rovesciamento di prospettiva implicito della scoperta della modellizzazione, è rappresentato dal ricorso all’esperimento, che assume una nuova centralità. Sul senso di questa centralità, tuttavia, è necessario fare una precisazione, dato che nel passato è stata spesso intesa come l’elemento di novità quasi esclusivo di tutta la scienza moderna. Non di rado, infatti, numerose presentazioni più o meno divulgative dei caratteri fondamentali della scienza moderna si sono concentrate sulla presunta scoperta di un enigmatico “metodo sperimentale” come evento messianico dell’era moderna: dalla sera alla mattina, una simile scoperta avrebbe magicamente dato avvio alle magnifiche sorti della conoscenza scientifica del mondo (nonché – secondo letture più pessimistiche – al dominio tecnico della scienza sul mondo). In questa visione la scienza moderna prenderebbe avvio in modo pressoché esclusivo dal ricorso crescente all’esperimento nelle indagini naturali, a scapito di una conoscenza “libresca” e puramente teorica ereditata dalla cultura antica.

Questa visione è naturalmente inadeguata, e lo è a vari livelli: risulta, infatti, incapace non soltanto di cogliere in modo effettivo alcuni dei principali snodi nella storia del pensiero scientifico, ma anche di mettere nella luce corretta le implicazioni epistemologiche più generali della nascente immagine scientifica del mondo. L’uso di procedure sperimentali sempre più rigorose acquista, infatti, il suo significato più profondo quando queste procedure vengono messe al servizio di un modello astratto e ideale del fenomeno naturale che è oggetto di indagini. Perciò, la formulazione del modello precede l’ideazione di un apparato sperimentale, dal momento che essa delinea quella costruzione artificiale – sia essa puramente mentale o concretamente realizzabile – alla quale l’apparato sperimentale può venir applicato in modo mirato e specifico: senza l’orizzonte teorico fornito dalla modellizzazione astratta, in altre parole, l’uso di metodi sperimentali risulterebbe conoscitivamente cieco.

Lo storico della fisica Alexandre Koyré descrive in questo modo il rapporto funzionale tra teoria ed esperimento, che è alla base della rivoluzione scientifica:

Si è spesso parlato del ruolo dell’esperienza, della nascita di un “senso sperimentale”. E senza dubbio il carattere sperimentale della scienza classica ne è uno dei tratti caratteristici. Ma in realtà si tratta di un equivoco: l’esperienza, nel senso dell’esperienza bruta o dell’osservazione del senso comune, non ha svolto alcun ruolo, se non quello di ostacolo, nella nascita della scienza classica. […] Quanto all’esperimento – nel senso di un’interrogazione metodica della natura – esso presuppone sia il linguaggio nel quale porre le sue domande, sia un vocabolario che consenta di interpretare le risposte. Ora, se è in un linguaggio matematico, o più esattamente geometrico, che la scienza classica interroga la natura, questo linguaggio – o più esattamente la decisione di utilizzarlo, decisione che corrisponde a un nuovo atteggiamento metafisico – non poteva a sua volta essere dettato dall’esperienza che esso avrebbe condizionato.[1]

Qui, possiamo leggere l’espressione di una vera e propria visione filosofica della rivoluzione scientifica, nella quale la teoria precede l’esperienza: l’esperienza in senso scientifico viene messa al servizio di un’indagine di tipo teorico. 

Attraverso una nuova consapevolezza nello studio dei fenomeni naturali, la scienza moderna si trova progressivamente a costruirsi un ruolo completamente nuovo nella definizione delle immagini del mondo. L’elemento realmente rivoluzionario di questo ruolo consiste, sostanzialmente, nel distacco radicale e irreversibile della scienza dalla filosofia, un distacco che è una novità del mondo moderno. Prima della Rivoluzione Scientifica, infatti, non esisteva una distinzione di principio tra i compiti di quelle che oggi chiamiamo scienza da una parte e filosofia dall’altra, mentre dopo tale rivoluzione la scienza comincia a competere con la filosofia in modo sempre più deciso per conquistare un diritto di primogenitura a scoprire – e dunque poi a caratterizzare – quale sia l’autentica realtà e cosa significhi davvero per un fenomeno farne parte. 

Torniamo, ora, alla definizione informale, data sopra, della filosofia della scienza come l’analisi dei metodi, dei contenuti concettuali e delle implicazioni filosofiche delle moderne teorie scientifiche: si capisce, dunque, che una componente essenziale di questa disciplina è un confronto serio e aperto con la scienza. Ma in che termini si pone questo confronto? La filosofia della scienza è coinvolta nel rapporto tra scienza e filosofia in due direzioni: dalla scienza alla filosofia, e dalla filosofia alla scienza.

La prima assunzione fondamentale della filosofia della scienza è che esistono questioni che nascono dalle scienze ma che non si esauriscono in esse, e che non possono fare a meno di un’analisi filosofica per essere sviluppate ed evidenziate nella loro rilevanza concettuale. Possiamo farne alcuni esempi: “Che particolare tipo di conoscenza è la conoscenza scientifica e quali sono i suoi limiti? Perché larga parte della conoscenza scientifica è dimostrativa? Perché e in che senso larga parte della conoscenza scientifica è causale? Che cos’è una spiegazione scientifica?” Si tratta di domande che nascono all’interno di precisi ambiti scientifici, ma che poi assumono una valenza che deve andare al di là dello specifico ambito scientifico in cui è nata, e che ha bisogno di essere affinata con gli strumenti dell’analisi concettuale ed epistemologica tipici della filosofia. In questo caso, dunque, si va dalla scienza alla filosofia.

La seconda assunzione fondamentale della filosofia della scienza è che i tentativi di rispondere alle domande filosofiche sono stati non soltanto importanti, in generale, per la filosofia, ma spesso lo sono stati anche per la scienza. Alcuni esempi: “Cos’è una dimostrazione? Cos’è un calcolo? Cos’è la mente? Il pensiero è un calcolo?”. Qui, al contrario di prima, si parte dalla filosofia per andare verso la scienza.

Possiamo, inoltre, individuare due dimensioni fondamentali della filosofia della scienza che possono essere definite in modo indipendente, ma che spesso si trovano a interagire tra loro. La prima è la dimensione epistemica della filosofia della scienza, in cui la quest’ultima si concentra sulle giustificazioni e le modalità d’uso e applicazione nelle loro implicazioni filosofiche dei metodi conoscitivi della scienza. “Epistemico”, infatti, significa relativo alla conoscenza. Ci si concentra, quindi, sulle motivazioni che portano a difendere l’uso di certi metodi utili per ottenere una conoscenza scientifica.

La seconda dimensione della filosofia della scienza è quella ontologica, in cui i filosofi della scienza si concentrano sull’analisi delle rappresentazioni del mondo che le teorie scientifiche forniscono. All’interno delle teorie scientifiche si propongono, effettivamente, descrizioni ipotetiche su come alcune porzioni di realtà siano costituite e organizzate. La dimensione ontologica, infatti, è quella relativa alla struttura effettiva del mondo. La domanda di base, in questo caso, è: quali sono le implicazioni delle descrizioni del mondo fornite dalle teorie scientifiche, dal momento che esse ambiscono anche a spiegarci come ipoteticamente il mondo è fatto?

Insomma, quello della filosofia della scienza, dati i sempre più crescenti risultati del mondo scientifico, è un ambito che attira su di sé un grande interesse, e può essere un ottimo mezzo anche per rivedere la filosofia in un’ottica nuova.


[1] Alexandre Koyré, Sudi galileiani, Einaudi, Torino 1976, p.5.

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