Sempresialodato, Mattarella reloaded -1/2

Il Quirinal Game è terminato: il dramma della politica italiana sintetizzato in una settimana. Un terremoto che ha travolto tutte le forze politiche, impreparate a logiche elettorali inedite in cui i segretari ed i leader escono sconfitti da franchi tiratori e parlamentari non tesserati: i veri protagonisti della rielezione di Mattarella. D’altra parte non sarebbe utile ritrovare il bandolo della matassa e fare una cronistoria della tragedia dei partiti, per cercare di comprendere gli errori, le ansie da prestazione, gli ammiccamenti. Che poi si sa già com’è andata:

“Grande è la confusione sotto il cielo” avrà pensato, poco democristianamente, l’inquilino del colle più alto di Roma gettando gli occhi su Montecitorio. E’ fuori discussione che, dall’altitudine empirea del Quirinale, il “sempresialodato”, da dietro la curvatura terrestre, avesse già visto arrivare il probabile epilogo e che pertanto abbia agito instancabilmente per sovvertire il moto inarrestabile, per contenere l’avanzata delle formazioni politiche e fermarli tutti: leader, correnti, franchi tiratori, amici nascosti, Mastella ecc. 1 contro 1009, la rivoluzione copernicana di Sergio Mattarella. Eppure, anche adesso che la bufera è terminata, non possiamo rimproverare al Presidente mancanza di zelo o di chiarezza comunicativa. In questi mesi Mattarella si è ripetutamente defilato da una rielezione, comunicando anche pubblicamente con le forze politiche cosicché la rinuncia arrivasse nitidamente ai 1009 grandi cerebri. Alcuni collaboratori quirinalizi affermano che per le stanze Colle, lunedì 24 gennaio, risuonava la voce di Mattarella, intento ad inviare messaggi vocali ai grandi elettori:  “mi raccomando, concentrati eh!”. E poi niente. Fico e Casellati salgono al Quirinale. Il presidente uscente riceve la nomina, rientrando nel pieno delle sue funzioni e ricucendo la politica a brandelli, e a favore di camera pronuncia un brevissimo discorso – ma nemmeno, 1 minuto e 20 secondi, non un accenno. Una pezza. La pezza di Mattarella – a ricomporre i margini.

Spira Levante: il candidato patriota. Dopo due anni di Ponente, con due Presidenti provenienti dal centrosinistra, stavolta il centrodestra voleva fare da mazziere e le carte c’erano pure: la coalizione dal 2018 ad oggi ha mantenuto la coesione in Parlamento, garantendosi un bacino di 455 grandi elettori (quorum a 505 dopo la III votazione ma la missione non è impossibile). L’imperativo? Restare uniti. Come? Uno per tutti, tutti per uno. Inizia sua emittenza, Silvio Berlusconi, che vende sogni da una vita e stavolta vuole fare all-in: chissà se dal colle più alto di Roma prende Canale 5. Ma gli alleati non ci stanno, depongono il padre nobile della destra e l’”operazione scoiattolo” diventa un diversivo; adesso i riflettori nazionali e dei grandi elettori sono puntati sulla gang del bosco, chi guida? Ma ovviamente il Capitano. Matteo Salvini, a sto giro, vuole essere il regista del cappotto alle sinistre ma facendo a meno del centro di gravità permanente del centro, cioè Renzi (quindi No Casini). Tuttavia Salvini teme i franchi tiratori e procede a tentoni, pescando un nome dopo l’altro. Tra le file del centrodestra si sente mugugnare, alcuni non afferrano la logica del Cap. Meloni stuzzica con Crosetto. Poi falange d’assalto: Moratti, Pera, Nordio. I grandi cerebri del cdx non battono il colpo. Si vira su Casellati per tentare lo “stress test” della coalizione e risvegliare la potenza motrice della Destra: 382 voti alla IV votazione. Débâcle totale. Destra nel panico, la coalizione, dopo essersi schiantata sui catafalchi, smette di esistere. Prima dell’esplosione, Salvini tenta l’ultima manovra di salvataggio e propone Cassese. 86 anni di cristiano. E’ il disastro: i forzisti abbandonano la nave e Salvini cambia rotta verso il Nazareno a chiedere la mano di Letta. Meloni, sola e basita, scrive tweet. Il dramma del centrodestra è archiviabile come un rarissimo (ma spettacolare) caso di autocombustione: per noi è stato un onore assistere a questo affondamento dalla banchina. La gang del bosco ormai si è sciolta, non ci resta che attendere la prossima funambolica reunion.

Sarebbe voluta essere la mano di Dio. Il turbocentrismo postdemocristiano c’ha provato, ha chiesto l’aiuto terreno e celeste, dei grandi elettori e dell’occulto (spero rimanga negli annali il flirt politico/bacio della morte riservato a Salvini: “sarà lui il kingmaker”). Il piano era chiaro, portare il delfino di Forlani lì dove Andreotti ha impedito che arrivasse il mentore. Sembrava l’anno giusto, dopo che nel 2013 le correnti del PD gli preferirono Mattarella, ma Pier Ferdinando Casini non ha ottenuto che il sostegno del suo fiduciario, Matteo Renzi. La candidatura aveva del potenziale e Renzi ne era conscio. Inizialmente, infatti, ha provato volgendo lo sguardo (con una certa naturalezza a dire la verità) a destra e ha ammiccato al Capitano, che nel frattempo stava già progettando il tridente Moratti-Pera-Nordio con supporto difensivo di Casellati e stava al completo; dall’altra parte dell’emiciclo si trovava il PD, che sarebbe stato più facile da convincere con Lega e forzisti sul groppone di Casini. Utilizzare il centrodestra per convincere il centrosinistra, del resto la storia segue il moto circolare: Renzi ci avrà sicuramente provato a tirarsi con sé qualche ex margheritico nel PD, ma i dem non si sono disuniti e Letta ha recapitano un sereno “Picche chico” al senatore fiorentino. Matteo Renzi ne esce sconfitto più negli intenti che nella nomina poiché Casini non è stato impallinato, a differenza della Casellati, ma era solo uno spettro con scudo crociato che aleggiava in Transatlantico. Stavolta niente ma si sa, questi nomi non muoiono mai. Alle volte ritornano, fidatevi. Chissà, che se Mattarella lasciasse nel 2023 poi…

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