AUTISMO: UNA PROSPETTIVA EMPATICA CON ANITA

«E se essere autistici fosse una diversità,
non un disturbo?
E se ci fosse una comunità là fuori che condivide simili esperienze, necessità, sogni?
E se insieme alle difficoltà
riconoscessimo i talenti e l’umanità?
E se ci fosse un modo per vivere sereni in
una società che corre ad un ritmo
che non ci appartiene?
E se in questo mondo ci fosse posto
anche per noi?


Scopriamolo.
E se un posto non lo troviamo… costruiamolo.»

Ig: @anita.autistic

Web: www.aspergeranita.wixsite.com/website

  • Chi è Anita e perché la scelta di questo nome?

“Ho scelto per la me stessa attivista un nome differente da quello anagrafico perché all’inizio di questo percorso, utilizzando il nome di battesimo sia nella vita privata che in questo ambito più pubblico e social, ho dovuto affrontare molte discriminazioni. Era diventato molto complesso trovare lavoro e anche interfacciarmi con altre realtà al di fuori del mondo dell’attivismo per via del peso degli stereotipi che ancora oggi il termine “autistica” porta con sé. Ho adottato Anita come pseudonimo, sperando che a breve, grazie ad una maggiore consapevolezza diffusa, possa non dover più essere necessario. Per quanto riguarda chi sono, invece, mi piace presentarmi come una persona autistica in primis, un’artista, danzatrice ed educatrice. Amo supportare le persone con gentilezza e cerco di portare avanti un’attività di informazione online per diffondere corrette rappresentazioni di questa realtà così spesso mistificata che soffre tanto degli stereotipi che le sono stati affibbiati.».

  • La tua storia di difficoltà nella ricerca del lavoro restituisce proprio la gravità dello stigma che ancora assedia la comunità autistica. Puoi aiutarci ad inquadrare meglio le caratteristiche di questa condizione?

“Quando si tratta di autismo si parla di uno spettro proprio perché all’interno di esso si raccoglie una vasta diversità individuale, così come nel mondo neurotipico. Si trovano certamente le persone a cui si pensa comunemente e dunque individui non verbali, meno autonomi, magari con difficoltà cognitive, così come anche i grandi “geni” di cui spesso si sente parlare; persone che hanno capacità fuori dalla norma e quozienti intellettivi molto alti. Ci sono poi, però, tutti i livelli di mezzo, così facilmente dimenticati dall’immaginario comune e dalla rappresentazione mediatica. Persone nella media, verbali, più o meno indipendenti, con passioni, capacità e difficoltà tra le più disparate. Troppo spesso vengono rappresentati solo gli estremi di questo spettro, gli iper-performanti (e comunque socialmente disadattati alla Sheldon Cooper) o i totalmente non autonomi (sempre nei loro momenti peggiori), invisibilizzando di fatto una grossa fetta di persone. Tale fenomeno comporta non poche problematiche: dalla mancata diagnosi per coloro che non hanno tratti “sufficientemente autistici” nel senso stereotipico, all’isolamento, all’aumento dell’incidenza di disagio psicologico per coloro che in questo modo non trovano l’aiuto di cui avrebbero bisogno e a cui avrebbero diritto. Un caso assolutamente eclatante è quello della quasi assoluta mancanza di rappresentazione femminile.

Proprio sulla scia di questa problematica la comunità autistica ha iniziato a rigettare le etichette di basso, medio ed alto funzionamento, che trovano la loro giusta applicazione solamente in ambito strettamente medico, per abbracciare “autistic*” come termine ombrello che includa tutta questa diversità nella piena consapevolezza delle infinite distinzioni. È importante ricordare che ognuno di noi può essere a basso, medio o alto funzionamento in diversi momenti e/o ambiti della propria vita e come, a prescindere appunto da tale classificazione, ogni persona autistica abbia bisogno di un certo tipo di supporto e al tempo stesso possa aspirare ad una vita serena, il tutto nel rispetto delle naturali differenze ed inclinazioni individuali. Una persona non verbale può tranquillamente essere in grado di comunicare in modo alternativo ed il CEO di una compagnia può avere bisogno di un educatore che fornisca supporto in altri ambiti; io stessa infatti lavoro come educatrice ed ho a mia volta un’educatrice che mi guida negli ambiti in cui mi sento più carente. Non c’è vergogna e non c’è stranezza in questo.”

  • Mi hai parlato di comunità autistica e di etichette in cui riconoscersi, ma approfondiamo la tematica: l’autismo di per sé è un disturbo, una malattia oppure qualcosa d’altro?

“La categorizzazione dell’autismo come disturbo mentale ha radici storiche che si ricollegano alle diagnosi di schizofrenia e psicosi infantile; questa diagnosi più moderna, infatti, veniva erroneamente tratta dalle altre due. Oggi si inizia a rivalutare questa condizione considerandola per ciò che è e dunque una neurodiversità, uno sviluppo neurologico atipico, un funzionamento differente, non una malattia. Uno dei motivi per cui rimane classificato come disturbo nel DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) è che, in quanto funzionamento atipico, presenta necessità differenti dallo standard neurotipico su cui la nostra società è costruita. Alcune persone autistiche scelgono di identificarsi come disabili, ma è importante riconoscere che in questo caso si tratta più di una diversa abilità che di un’incapacità. Semplicemente il mondo è spesso delineato in modo da agevolare la vita neurotipica, ma in contesto differente le persone autistiche sarebbero perfettamente in grado di funzionare abilmente, è il contesto che disabilita. A questo proposito è interessante notare come proprio la neurodivergenza stia alla base di molti dei grandi progressi umani; è infatti opinione ormai largamente diffusa e condivisa che l’autismo si sia sviluppato e salvaguardato come funzionamento durante l’evoluzione proprio per il ruolo di grande valore che assume nel permettere l’avanzamento della specie (si pensi anche a figure di spicco nella modernità come un controverso ma estremamente innovativo Elon Musk). Diverso non significa sempre rotto, peggio o senza valore e dignità e questo bisognerebbe cercare di ricordarlo.

Cosa c’è dunque di realmente patologico nell’autismo? In alcuni casi può essere presente del ritardo cognitivo e spesso, purtroppo, si presenta in comorbidità a disturbi psichiatrici che possono risultare anche estremamente invalidanti quali ansia, depressione, disturbi alimentari e simili. Tali disturbi hanno un’incidenza molto alta in questa comunità proprio per l’estrema difficoltà che dobbiamo affrontare, soprattutto se non diagnosticati, per adattarci ad un mondo che segue regole completamente fuori dai nostri schemi. Tutto ciò porta anche ad un’aspettativa di vita molto più bassa della media, non per via dell’autismo in sé, ma proprio per la violenza che spesso subiamo e per la grande incidenza di suicidi derivante da ciò che ho appena esposto.

Naturalmente c’è speranza. Speranza che il contesto in cui le persone autistiche si trovano a vivere divenga sempre più consapevole ed inclusivo, che le risorse di cui si ha bisogno possano essere sempre più accessibili e che, abbattuti gli stereotipi, si possa iniziare ad apprezzare la bellezza nella diversità non soltanto nei casi eclatanti. Anche il diritto alla mediocrità e alla normalità è un privilegio che in futuro ci piacerebbe ottenere.”

  • Approfondiamo la parte femminile dello spettro e la problematica delle diagnosi tardive che purtroppo, come spesso accade, vanno di pari passo. Da cosa dipende?

Le donne autistiche verbali sono quelle che, sistematicamente, non vengono diagnosticate o ricevono diagnosi molto tardi nella vita. Alla fine accade magari perché il figlio maschio si rivela essere tale o addirittura perché esse stesse si sono primariamente auto diagnosticate dopo anni di sofferenze ed interventi erronei da parte di professionisti non sufficientemente formati. Questo avviene principalmente per due motivi: il primo riguarda la metodologia con cui sono stati ricavati i criteri diagnostici e il secondo la diversa socializzazione a cui vanno incontro maschi e femmine nella nostra società.

Per quanto riguarda i criteri, quindi, sono stati tratti da studi eseguiti su bambini maschi e ciò esclude completamente un’eventuale fenotipo femminile. Dico “eventuale” perché ora si inizia a dare sempre più importanza al tipo di socializzazione cui le bambine vanno incontro e meno ad un fenotipo differente. Questo perché spesso le femmine sono obbligate a diventare molto più abili nel “masking“, ovvero il mimare il comportamento altrui per risultare appropriate nelle varie situazioni sociali già dalla tenera età, mentre i maschi vengono socializzati in maniera totalmente differente e sono spesso riconosciuti come autistici dalle crisi di rabbia, i classici meltdown che ci si immagina usualmente. Questo ha chiaramente un effetto estremamente negativo sulla salute della bambina e poi donna che andrà incontro ad ogni tipo di difficoltà psicologica, isolamento sociale e sovraccarico fisico ed emotivo. In questo senso molto spesso una diagnosi appropriata e precoce può essere una benedizione e anche salvare una vita; da qui l’importanza di un’adeguata preparazione a carico degli istituti educativi e dei professionisti del settore, così come anche degli stessi genitori.”

  • Vorrei trattare due delle tematiche che forse spaventano di più quando si parla di autismo perché sembrano, scioccamente, utopiche: la possibilità di essere felici e appagati e quella di avere delle relazioni romantiche soddisfacenti.

“Naturalmente le persone autistiche sono perfettamente in grado di provare l’intero range delle emozioni umane e di sentirsi sia appagate che felici all’interno della loro esistenza. Il motivo per cui spesso si fa fatica a concepire una cosa del genere è che si ragiona dal punto di vista neurotipico. Ad esempio: dato che mediamente una persona neurotipica necessita di avere un partner per essere felice si presume erroneamente che questo possa valere universalmente anche per le persone autistiche e, conseguentemente, coloro che non hanno alcun interesse di tipo romantico vengono etichettati come miserabili e la loro vita come non valida d’essere vissuta. Questo esempio naturalmente si può fare in molti ambiti differenti ma è l’approccio stesso ad essere strutturalmente errato. La prospettiva deve essere modificata per comprendere veramente lo stato emotivo della persona che abbiamo di fronte.

Uno dei termini più usati per descrivere questo funzionamento divergente è intensità e non a caso. Questa può essere uno svantaggio ma anche un vantaggio enorme nelle giuste condizioni. Le persone autistiche infatti hanno spesso l’abilità di provare estrema gioia per le cose più piccole, che potrebbero sembrare addirittura banali ad un cervello neutipico. Gli “interessi speciali” di cui spessissimo si parla, ovvero quelle aree di interesse in cui queste persone si iper-specializzano assicurano sempre grande appagamento. Il fatto che le classiche esperienze neurotipiche, a volte, non destino interesse o non trasmettano felicità non implica in alcun modo l’impossibilità del raggiungimento della stessa. I bambini non verbali, ad esempio, che vengono sempre ed ingiustamente dipinti come eterni infelici, quando messi in un contesto in cui sono agevolati, divengono la gioia personificata. Molti di loro non hanno interesse a relazionarsi se non si utilizza il loro linguaggio, allo stesso modo in cui una persona neurotipica non è portata ad interagire con un parlante una lingua straniera per lei incomprensibile. Spesso sono solo le aspettative genitoriali ad essere disattese perché fondate su presupposti sbagliati. Mi verrebbe da dire che andrebbe cambiata l’idea di ciò che “dovrebbe essere” concentrandosi maggiormente su quello che semplicemente è.

Detto ciò, vi sono anche molte persone autistiche che vogliono e possono tranquillamente avere una relazione. L’ostacolo più grande in questo campo è quello di essere fraintesi e questo perché spesso il mondo del corteggiamento viaggia sui non detti, sulle allusioni; dinamiche estremamente difficili da decifrare per una persona autistica. Il trucco è conoscersi e poterlo dire all’altra persona. Non stare assieme nonostante l’autismo ma proprio per via di questo modo d’essere particolare che può certamente risultare un punto di forza in questa situazione perché costringe alla comunicazione aperta e sincera fin dal principio. È più difficoltoso per una persona autistica fare dei compromessi, se una cosa è un problema è un grande problema, spesso ci vuole un po’ di allenamento da entrambe le parti per imparare a rispettare i reciproci limiti. Le modalità per rendere il tutto gestibile possono essere svariate: a volte le coppie conviventi hanno due stanze da letto separate, oppure si utilizzano tappi per le orecchie e cuffie anti-rumore, o designano spazi della casa dedicati al rilassamento e alla solitudine. La comunicazione continuativa è appunto importantissima, non si può andare avanti per inerzia, cosa che onestamente sembra più un vantaggio che altro.

Oltre a quanto detto si verifica anche una grande sovrapposizione tra comunità autistica e comunità LGBTQIA+; la possibilità per noi di identificarci in modo divergente anche rispetto alla eteronormatività infatti è molto più elevata.

  • Educazione e lavoro: come può una persona autistica adattarsi a queste realtà per condurre una vita socialmente integrata?

“Il suggerimento principale che mi viene da dare è di smettere di provare a fare le cose come le fanno gli altri. Noi necessitiamo di uno sforzo creativo superiore alla norma per determinare qual è il modo migliore per fare una data cosa. Spesso è bene considerare varie risorse alternative ad esempio università online, tirocini, servizio civile in determinati ambiti, corsi di preparazione al lavoro e simili. Ci tengo a specificare che il modo autism-friendly di fare le cose esiste, a volte è solo un po’ lontano dalla via maestra. Per esempio, un aspirante studente universitario autistico che soffre di ipersensorialità potrebbe trovare estremamente complesso svolgere gli esami in aule molto luminose, piene di persone e rumori. In questo caso si può aggirare il problema facendo uso dell’ufficio disabilità e richiedendo tutte le accomodazioni di cui si ha bisogno per poter esercitare il proprio diritto agli studi. Similmente si possono trovare vie alternative anche in molti altri ambiti, è importante ricordare che non esiste un one size fits all quando si parla di autismo, e comunicare le proprie necessità per fare in modo che siano rispettate è importantissimo. Non serve a nulla stringere i denti, è inutile soffrire; cercare aiuto e chiedere le agevolazioni necessarie è perfettamente legittimo e dovuto.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro: serve fare tutte le prove possibili. Conviene fare più tirocini, volontariati, progetti di servizio civile possibili per fare esperienza e comprendere cosa è sostenibile e cosa no. In generale la regola è ascoltarsi e avere un terapeuta di riferimento che può aiutare a trovare le nicchie più adatte alla persona in questione oltre che a supportarla durante l’esperienza. Cosa importante da ricordare dunque, anche per le persone neurotipiche ma soprattutto nel nostro caso, è che il percorso non è unico, non è uguale per tutti, non esistono tempistiche standard o obiettivi prefissati da raggiungere per forza. Le cose preconfezionate non sono state confezionate per noi, è indispensabile costruirsi un futuro che ci faccia stare bene.”

  • A proposito di supporto terapeutico e rete sul territorio, puoi darci qualche riferimento?

“Sicuramente è molto importante e non scontato trovare professionisti preparati rispetto alla tematica e in particolare con familiarità nei confronti dell’autismo nell’adulto, se si ha già raggiunto la maggiore età. Per quanto riguarda possibili riferimenti più specifici mi sento di rimandare alla consultazione di un sito che ho appositamente creato e curato dove raccolgo risorse di vario genere, dalla terapia allo stimming: www.aspergeranita.wixsite.com/website

Inoltre mi rendo disponibile a fornire aiuto e chiarimenti a chiunque ne avesse bisogno e volesse prendere contatti con me tramite il mio profilo Instagram: @anita.autistic”.

  • Cos’è lo stimming?

Lo stimming nella persona autistica ha una doppia valenza: comunicativa e di auto-regolazione. Di fatto si tratta di movimenti istintivi e spontanei di risposta ad emozioni molto intense, sia positive che negative. Lo stimming non deve essere fermato o contenuto a meno che non risulti pericoloso per la salute o l’incolumità della persona in quanto non è assolutamente dannoso bensì un’arma preziosa. Esempi di stimming possono essere: saltare, dondolare, muovere le dita, giocare con i capelli o con fidget toys, eccetera. Tali attività sono utili a tante persone diverse in quanto, come detto, aiutano a concentrarsi, calmarsi e comunicare non verbalmente. Non è un comportamento folle ma molto naturale.”

  • Dopo la diagnosi: il coming out come persona autistica

“Spesso non ci si pensa, ma la persona autistica deve gestire anche una fase di coming out in vari ambiti della sua vita: relazionali, lavorativi, sociali, eccetera. Il coming out, spesso necessario perché la persona possa ricevere la comprensione di cui ha bisogno per condurre una vita serena senza ricorrere continuamente al masking, può essere anche molto dannoso e frustrante. Spesso le persone autistiche smettono di essere viste come professionali e competenti o viene loro negato l’accesso a determinati ruoli. Le relazioni possono incrinarsi ed in generale la persona deve sempre valutare con attenzione quando e se dichiarare la propria condizione. Decidere di non uscire allo scoperto rimane comunque una scelta difficile da fare ed è triste che debba essere necessaria perché se non ci si mostra nella propria autenticità ci si rende di fatto invisibili, ci si preclude l’interazione genuina e sincera con l’altro. Facendo coming out spesso si perde molto ma si guadagnano una vita autentica e rapporti veri. Non si è più da soli, si ha una comunità alle spalle. La fatica si dimezza e il senso di colpa si solleva. Il senso di appartenenza può essere davvero molto importante, soprattutto per persone che si sono sentite diverse e sole per tutta la vita.”

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