Guerra russo-ucraina – Le dimensioni della politica

Sono passati ormai due mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina, e man mano che scorrono i giorni assistiamo a scenari sconcertanti, inquietanti, che potranno essere nuovi per la nostra generazione, ma non lo sono di certo per un continente come l’Europa che si porta sulle spalle l’eredità di due guerre mondiali. E ad aggiungersi al dramma di un conflitto che non sembra vedere una fine, molti di coloro che seguono ogni giorno le sue fasi vedono le proprie coscienze sospese sul filo di due dimensioni della guerra che spesso faticano a trovare un punto di incontro: da una parte l’orrore di uno scontro scatenato da un uomo, Putin, che per anni ha sfoggiato politiche autoritarie e desideri imperialistici, anche se molti in Europa sembrano essersene accorti solo oggi; dall’altra una realtà di carattere prettamente politico, un dibattito pubblico incentrato sulle cause della guerra, sulle responsabilità dell’Occidente, sui fantasmi del passato che ci hanno portato a questa situazione, e che ci gettano in un marasma di idee e opinioni contrastanti l’una dall’altra, che abbattono le nostre convinzioni e mettono a dura prova le coscienze di ognuno di noi.


Durante uno dei dibattiti di Piazza Pulita – trasmissione condotta su La7 da Corrado Formigli – è andato in onda un accesissimo dibattito fra il professor Alessandro Orsini, docente di spicco della facoltà di scienze politiche della LUISS, e Riccardo Sessa, ambasciatore italiano. Il dibattito, incentrato sulla genesi della guerra e sulle responsabilità dei rispettivi schieramenti, ha visto il professore Orsini portare avanti la posizione tenuta dallo scoppio della guerra: il docente della LUISS pone la NATO in prima fila sul banco degli imputati, colpevole di aver provocato negli ultimi decenni la Russia attraverso un’eccessiva espansione dell’Alleanza Atlantica, che è arrivata a toccare troppo da vicino le linee rosse del paese. Completamente antitetica è stata l’opinione di Sessa, che rifiuta qualsiasi responsabilità dell’Occidente, e precisa che sono stati in primis gli stessi paesi ex sovietici a voler entrare nella NATO, per ragioni di sicurezza politica e militare. Secondo Sessa, la tesi di Orsini è vittima della propaganda del Cremlino, dietro la quale si nascondono le aspirazioni imperialiste di Putin che vuole riportare la Russia alla grandezza dei tempi dell’URSS.

È forse proprio dietro la parola “propaganda” che si cela la difficoltà di dare un volto, una verità, agli scenari ai quali stiamo assistendo oggi. Difatti pure Orsini ha accusato i suoi oppositori in studio, e in linea generale tutto il paese, di essere succubi di una propaganda, quella della NATO e degli Stati Uniti, che attraverso le loro istituzioni cercano in tutti i modi di alimentare la tesi che vede Putin come il vero e unico responsabile di un conflitto che invece porta con sé troppe verità nascoste. Orsini, da buon accademico – abituato quindi ad analizzare i fenomeni secondo un approccio analitico, senza giudizi di valore – ha sostenuto in più occasioni che quando si tratta di politica estera e di sicurezza, noi occidentali siamo esattamente come Putin, perché quello che sta facendo adesso il Cremlino non è per nulla diverso da quello che fece Bush nel 2003 in occasione della guerra in Iraq, che in molti hanno definito illegale, sia per la mancata approvazione da parte del consiglio dell’ONU, sia per gli innumerevoli crimini di guerra che quel conflitto ha generato (Orsini ha citato la strage di Haditha del 2005).

D’altro canto, è difficile anche non credere alla tesi dell’ambasciatore Sessa che vede in Putin un nostalgico del passato sovietico, non tanto per l’ideologia sulla quale era improntato il sistema – il leader del Cremlino ha nettamente preso le distanze dal comunismo staliniano – quanto piuttosto per il livello di egemonia che l’URSS riusciva a vantare all’interno del sistema internazionale. È stato proprio Putin, del resto, ad invertire la rotta rispetto alla transizione democratica che la Russia stava provando ad intraprendere dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, promuovendo una politica che vedeva nella sicurezza, sia interna che esterna, il principale obiettivo.


Tra le tante domande che sono state poste all’interno del dibattito pubblico, una in particolare richiama il nostro sistema a un esame di coscienza: di fronte a questo conflitto, ci può essere una superiorità morale dell’Occidente? Per molti il semplice fatto di potersi porre questo interrogativo in piena libertà, senza il rischio di spiacevoli conseguenze – contrariamente a quello che potrebbero succedere in paesi come la Russia, per citarne una –, è la prova che siamo nati, per usare le parole dell’ambasciatore Sessa, dalla parte giusta del mondo, in un sistema nel quale gli scheletri nell’armadio, per quanto presenti, rappresentano comunque condizioni patologiche e non fisiologiche. Ma negli ultimi anni in Occidente ha cominciato a farsi strada – come riportato da Federico Rampini nel suo ultimo libro “Fermare Pechino” -, soprattutto fra le nuove generazioni, anche una nuova immagine dell’Occidente, quella di una civiltà criminale che nei secoli si è macchiata dei peggiori crimini contro l’umanità; e fatti come quelli inerenti alla guerra in Iraq ne sono la prova. 

Anche su questo tema è molto difficile trovare una posizione univoca. Apparentemente ci può sembrare surreale paragonare il nostro sistema, con i suoi valori e le sue idee, ad un sistema come quello che Putin ha costruito in Russia, visto che strutture politiche di tipo autoritario, simili al modello russo, in Europa Occidentale mancano dal 1975, data della dissoluzione della Spagna franchista. In una realtà che dà per scontati diritti, libertà e pace, siamo portati a maturare l’idea che il nostro sia senz’altro il sistema migliore di tutti. Ma molto spesso, quando allarghiamo le nostre prospettive al di fuori della realtà che ci circonda più da vicino, possiamo osservare e riflettere un quadro ben distante dalla logica di bipartizione tra “buoni e cattivi” che siamo abituati a considerare, una realtà strettamente politica che segue regole proprie, lontane da quelle dell’etica.


Se apparentemente, quindi, lo scoppio della guerra in Ucraina sembrava aver compattato il blocco occidentale, schieratosi in maniera quasi univoca dalla parte degli aggrediti con sostegni umani e militari nei confronti della popolazione ucraina e diversi piani di sanzioni rivolte alla Russia di Putin, il dibattito pubblico al quale assistiamo ogni giorno sembra darci un’immagine completamente diversa, lontana anni luce da quella di un blocco compatto, che al contrario nasconde al suo interno fratture di giudizio relative sia alla forma che alla sostanza del conflitto e che richiamano anche, e forse soprattutto, le nostre democrazie a fare i conti con la propria storia. É l’espansione della NATO a est, o quella della Russia a ovest, il vero pericolo per la stabilità del sistema internazionale? Possono i giudizi di noi, in quanto occidentali, partire da una posizione di superiorità morale?

Ebbene questa serie di dubbi e quesiti danno forma e sostanza alla politica internazionale, obbligano lo studioso ad analizzare i fatti considerando una pluralità di dimensioni e punti di vista che portano a conclusioni antitetiche l’una dall’altra; ma soprattutto costringono anche il più semplice degli osservatori a riconoscere la geopolitica come una realtà poco tangibile, spesso distante dalla possibilità di giudizio della società civile, nella quale i decision makers agiscono con il favore delle tenebre, lontani dai riflettori dell’opinione pubblica.

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