L’abitudine di compiacere gli altri

Con il mondo della psicologia che, grazie alla sensibilizzazione degli ultimi anni, si è fatto sempre più strada sui nostri social, è emersa un’etichetta molto interessante: quella di people pleaser. L’argomento è piuttosto complesso e, per questo, oggi tenteremo di spiegarne i caratteri principali, per poi presentare gli strumenti che abbiamo per gestire questo impulso a compiacere il prossimo. Il tutto, come sempre, In punta di piedi.

Iniziamo cercando di capire cosa significa concretamente: la linea di confine con l’essere semplicemente delle brave persone è, infatti, sottile, ma per fortuna esistono alcuni indicatori piuttosto evidenti. Tra questi, il primo che emerge è il bisogno di essere apprezzati, che ci vede sempre d’accordo con chi ci parla o raccolti in un educato silenzio – anche su argomenti a cui teniamo molto – pur di evitare una divergenza. Proprio a questo fine, è anche frequente evitare di dire quando veniamo feriti: il timore di essere fraintesi e, quindi, di perdere chi ci sta accanto fa da padrone e ci porta ad accettare di tutto. Di pari passo, anche cambiare per adattarsi è un altro modo per accomodare gli altri, che non dovranno scontrarsi con un’eventuale incompatibilità: ovviamente a contesti diversi corrispondono atteggiamenti diversi, ma quando questi ultimi differiscono su punti chiave – come i valori che ci definiscono, ad esempio – è evidente che siamo andati troppo oltre. 

Un altro indizio nel nostro comportamento è una quantità di scuse eccessiva, anche quando la responsabilità dell’accaduto non è nostra o non abbiamo alcun controllo sugli eventi. Del resto, un conto è essere umili e ammettere i propri sbagli, un altro è autocolpevolizzarsi e farsi carico delle incombenze altrui. Non è che l’equazione in cui un bravo amico è colui che alleggerisce il bagaglio dell’altro non sia vera, è che talvolta ne fraintendiamo l’applicazione concreta: non si tratta di liberarli da tutti i pesi che hanno, ma di non voltargli le spalle quando si tratta di affrontarli. A questo si aggiunge infine una grande difficoltà nel dire di no. Sin da bambini ci viene insegnato che essere delle buone persone significa essere sempre disponibili: siamo abituati, insomma, ad una narrazione in cui a definirci positivamente è il modo in cui interagiamo con gli altri. Non che questo non sia vero, ma che spazio trova in tutto ciò come trattiamo noi stessi? Mettere dei limiti, inoltre, non beneficia solo chi lo fa, ma anche chi lo circonda, che avrà accanto una persona equilibrata e rispettosa delle sue esigenze.

Detto questo, però, resta ancora da capire com’è che assumiamo questo atteggiamento e quali ripercussioni ha. Iniziamo allora chiarendo che, tra i vari motivi per cui si è people pleaser, difficilmente troveremo quello che risolverà tutti i nostri disagi: si tratta infatti di una combinazione di fattori, un intreccio tra ciò che ci succede, come veniamo cresciuti e le nostre scelte. In generale, ad ogni modo, tra i più diffusi spiccano intuitivamente problemi di autostima. Ognuno di noi ha punti di forza così come di debolezza ed una impropria percezione di entrambi può portarci alla convinzione di dover compensare il nostro presunto “non essere abbastanza”, che sia con sproporzionate dosi di gentilezza e disponibilità o una tendenza ad assecondare gli altri. Oltre a questo, è innegabile come traumi del passato possono definirci nel presente: preoccuparci di essere rifiutati o tagliati fuori e avere paura di non essere visti sono tutti timori plausibilmente legati a ferite precedenti forse non guarite completamente.

Tutto questo ha ovviamente delle conseguenze significative. Uno dei casi più spiacevoli è quello in cui le persone approfittano di chi è troppo disponibile, superando i limiti della ragionevolezza e del rispetto reciproco. Inoltre, in caso di mancata riconoscenza – e in particolare se il nostro valore personale è calibrato su come gli altri ci percepiscono – è naturale provare risentimento e frustrazione. In parallelo, infine, abbiamo ansia, stress e relazioni non soddisfacenti. Gli sforzi per rendere felici le altre persone possono ridurre le nostre risorse fisiche e mentali: azzerare ogni volta il tempo per sé a vantaggio altrui non è nobile quanto sembra e infatti, a lungo termine, ci può rendere anche amici “peggiori”, visto il sovraccarico. 

Ma quindi come possiamo migliorare? Nel rispondere a questa domanda ci affidiamo a tre punti principali, primo dei quali è mettere dei paletti. Per questo, è sufficiente iniziare con piccoli passi, come imparare a dire no ad un amico che vuole uscire se non è proprio serata. Anche iniziare, di tanto in tanto, ad aspettare che il nostro aiuto sia richiesto può concederci più tempo per noi e relazioni più appaganti. Dulcis in fundo, scegliere di andare in terapia ci può permettere di capire quali sono le insicurezze o i traumi su cui dobbiamo lavorare e, conseguentemente, di attenuare questo nostro bisogno di compiacere.

L’idea di smettere di essere un people pleaser, del resto, affonda le sue radici in un terreno di benessere personale, vita quotidiana e relazioni appaganti di cui tutti abbiamo, seppure in proporzioni diverse, bisogno. Come spiega Salma Hindy, pluripremiata ingegnere di Toronto ora cabarettista, nel TEDx Talk in cui racconta l’intreccio tra il suo percorso personale e professionale (lei, cresciuta in una “famiglia musulmana molto rigida”, ha remato contro il disappunto della sua comunità per le sue preferenze accademiche, lavorative e private), questo atteggiamento può invadere anche le sfere più delicate della nostra vita. Immaginiamo di camminare su un percorso (anche) perché sappiamo compiacerà i nostri genitori e li farà stare tranquilli, oppure di prendere una decisione importante basandoci sui modi in cui i nostri coetanei potrebbero giudicarci. La Hindy espone proprio come questo sentimento venga da “un’emozione sottostante di paura” che, per quanto comprensibile, non è abbastanza: perché agire guidati dalla paura quando possiamo farlo per passione, per volontà, per amore?

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