Ucraina, un anno dopo

Un anno fa, da questo stesso luogo, attorno alle sette del mattino, vi ho rivolto un breve messaggio di 67 secondi. Conteneva quelle che sono le due cose importanti, allora e oggi. Che la Russia aveva iniziato una guerra su larga scala contro di noi. E che noi siamo forti, siamo pronti a tutto, perché noi siamo l’Ucraina.”

Così si è rivolto il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky al suo popolo, il 24 febbraio 2023 ad un anno esatto dall’inizio dell’invasione russa.

Poco prima dell’alba del 24 febbraio 2022, circa 190.000 soldati russi, ammassati da mesi lungo il confine tra i due Paesi, si sono riversati in Ucraina, con il compito di attuare quella che, nella narrazione del Cremlino, è stata grottescamente definita come operazione militare speciale. La guerra – perché tale è la definizione corretta – è da quel giorno tornata in Europa. Il Vecchio Continente, dalla fine del Secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dalla fine della Guerra fredda, è stato per lunghi decenni (con la tragica eccezione delle guerre jugoslave) il “continente della pace”. Il progetto dell’integrazione europea, nato per garantire la sicurezza e la prosperità economica del continente, ha via via posto l’accento sul secondo tema, ritendo che il primo non fosse più in discussione. Lo scudo di deterrenza e sicurezza collettiva NATO, espressione dell’Alleanza tra USA ed Europa, appariva scontato e – a detta di alcuni Europei – superfluo e obsoleto. Quel 24 febbraio ha rimesso tutto in discussione, ha tragicamente riportato la guerra in Europa. Eloquente fu l’edizione del TIME di quella settimana, con in copertina un minaccioso tank russo con la Z (stando al Ministero della Difesa russo, questa sarebbe l’abbreviazione di “за победу”, “per la vittoria!“) sulla torretta e su cui campeggiava il titolo “THE RETURN OF HISTORY”. La Storia, qui intesa come caratterizzata dal rischio perenne di guerre, non è mai finita, nemmeno per l’Europa: quei carri armati, gli iniziali e massicci raid aerei su tutto il Paese e le sirene d’allarme ne erano un’assordante testimonianza. Sin da subito il popolo ucraino ha dimostrato la sua ferma volontà di resistere all’aggressione russa.

Il Presidente Zelensky e il resto del governo non hanno mai lasciato Kyiv, l’esercito si è impegnato nelle operazioni militari, numerosi civili erano in coda per imparare le tecniche di guerriglia partigiana. La guerra ha causato sin da subito la più grande crisi di profughi dalla Seconda guerra mondiale: nelle prime settimane 6 milioni di persone (saliti attualmente a 8 milioni, di cui il 90% è costituito da donne e bambini) hanno lasciato l’Ucraina, altri 8 milioni sono gli sfollati all’interno dell’Ucraina. E sin dai primi giorni, l’offensiva russa non ha raggiunto i suoi obiettivi, né militari né politici: code di carri armati fermi e non utilizzabili, un altissimo numero di perdite, la mancata cattura di Kyiv, il mancato regime change (espresso dalla retorica putiniana come denazificazione e demilitarizzazione dell’Ucraina, si legga invece rovesciamento di un governo democraticamente eletto). Obiettivo primario sarebbe stato per Putin l’eliminazione di Zelensky o, in ogni caso, la sua sostituzione con un soggetto più congeniale. Dall’altro lato, in Occidente, si è immediatamente raggiunta un’unità di intenti insperata. Gli Stati Uniti e la Commissione Europea hanno lavorato di concerto sin dalle prime ore dell’invasione, presentando i primi rispettivi pacchetti di sanzioni contro la Russia già il 26 febbraio. Al primo pacchetto di sanzioni, la Commissione Europea ne avrebbe fatti seguire altri 9 (il decimo è stato approvato dalle istituzioni europee nella giornata di venerdì 24 febbraio), comprendenti misure sempre più specifiche e ambiziose, tra cui il price cap al prezzo del petrolio e del gas russi. L’altra grande organizzazione internazionale che ha conosciuto un grande attivismo e un ruolo di primo piano è stata la NATO. Il vertice straordinario di marzo ha garantito la piena solidarietà dell’Alleanza Atlantica all’Ucraina, sia attraverso l’azione politico-diplomatica, che sotto forma di aiuti militari. La NATO ha inoltre approvato a giugno un nuovo Concetto Strategico che mette nuovamente al centro la deterrenza e la sicurezza collettiva, dopo decenni improntati alla prevenzione delle crisi e alla cooperazione. Il rafforzamento del cosiddetto Fianco Est dell’Alleanza, che comprende gli Stati maggiormente esposti alle pressioni russe (Repubbliche Baltiche, Polonia, Romania e Bulgaria, ma anche Repubblica Ceca e Slovacchia) sono al centro dell’azione dell’Alleanza, attraverso dispiegamento di uomini e mezzi (il Comando Supremo NATO intenderebbe elevare i battaglioni internazionali in Europa orientale al rango di divisioni) e operazioni di ricognizione e pattugliamento aereo 7 giorni su 7.

Le sfide poste dal conflitto sono state plurime ed estremamente variegate: dagli scontri armati, al soccorso dei feriti e di tutti coloro che necessitano assistenza sanitaria (il Comitato Internazionale della Croce Rossa è in prima linea, ma denuncia di avere enormi difficoltà nel raggiungere i territori occupati), la crisi energetica e quella alimentare, essendo l’Ucraina il granaio del mondo. Il penultimo punto è stato considerevolmente alleviato grazie alla diversificazione dei fornitori di gas naturale (l’Italia ha potuto contare su numerosi Paesi africani e medio orientali, su tutti l’Algeria); le catastrofiche conseguenze di una crisi alimentare in Africa e in Asia sono state – almeno in parte – ridotte dall’accordo sull’export di grano siglato, con la mediazione di Turchia e ONU, tra Russia e Ucraina il 22 luglio 2022, che ha permesso le navi cargo di lasciare in sicurezza i porti ucraini (nonostante Mosca abbia più volte minacciato di uscire dall’accordo). Sono comunque 345 milioni le persone esposte alla crisi alimentare in 82 Paesi africani e asiatici, stando alle stime dell’ONU. Il 30% della produzione mondiale di grano e orzo, il 20% di quella del mais e oltre il 50% di quella dell’olio di girasole provengono da Ucraina e Russia.

Anche la crudeltà della guerra contro i più indifesi è emersa già dalle prime settimane.  Solo nel periodo compreso tra il 24 febbraio e il 6 aprile, l’OHCHR (Ufficio dell’Alto Rappresentante ONU per i diritti umani) ha documentato 441 uccisioni di civili ucraini da parte delle forze di occupazione russe (non è escluso un numero effettivo superiore rispetto alle morti accertate). Le vittime sono 341 uomini, 72 donne, 20 ragazzi e bambini, 8 ragazze e bambine. L’Alto Commissariato sta vagliando anche altri 198 casi di uccisioni da parte delle truppe russe nello stesso periodo. In questi territori, le forze russe hanno ucciso i civili in due modi: esecuzioni sommarie di cittadini indebitamente trattenuti in campi di detenzione o assassini di civili che si trovavano nelle strade, su mezzi di trasporto o fuggivano dalla guerra. Entrambi i metodi sono rientrano nella casistica dell’“uccisione volontaria” (wilful killing), una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra e un crimine secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

I fatti di Bucha e Irpin costituiscono la più grave violazione di diritti umani nell’intervallo di tempo e nei territori considerati dai rapporti ONU, nonché il maggiore caso di uccisioni sommarie di civili. La città – che contava 40.000 abitanti prima della guerra – è stata al centro di violenti scontri tra il 3 e il 4 marzo 2022. Al 5 marzo, dopo la cattura da parte delle forze russe, nella città di Bucha erano rimasti poco più di 5.000 residenti. Bucha è stata successivamente liberata dalle forze ucraine il 2 aprile. Entrando in città, gli Ucraini hanno scoperto decine di cadaveri, dapprima nelle strade, poi negli edifici, nei veicoli. Infine, sono stati rinvenuti centinaia di corpi in due fosse comuni nei pressi della chiesa cittadina e in altri dodici luoghi di sepoltura improvvisata. Le procedure di esumazione hanno richiesto diversi mesi per essere completate. Il 13 settembre, il numero dei corpi rinvenuti ammonta a 422. Le indagini svolte dall’OHCHR hanno permesso di ricostruire che almeno 73 di questi corpi (54 uomini, 16 donne, 2 ragazzi, 1 ragazza), appartenevano a civili volontariamente (cioè non indirettamente uccisi da bombardamenti e scontri armati) assassinati dai soldati russi. I corpi riportavano infatti i segni dell’esecuzione e ferite di armi di fuoco. Buona parte delle uccisioni sono avvenute nelle strade di Novoyablonska, Sklozavodska, Tarasivska, Tsentralna, Vodoprovidna, Vokzalna e Yablunska, tra Bucha e Irpin. Le modalità di questi omicidi rientrano nella categoria dei wilful killings. Alle fosse comuni vanno aggiunti altri crimini di guerra particolarmente gravi: le cosiddette camere delle torture, utilizzate dalle forze russe per i prigionieri di guerra, la deportazione di civili (migliaia di bambini) dai territori occupati alla Russia.

Orrori simili sono stati scoperti durante la liberazione di località che, al pari di Bucha, saranno per sempre associati a questi fatti: Irpin, Izium e molte altre. Possiamo risalire ad altre possibili fosse comuni nei territori ancora occupati dalla Federazione Russa attraverso immagini satellitari.

Tra la fine di agosto e gli inizi di settembre, l’Ucraina ha preso quella che, dal punto di vista strategico è definita l’iniziativa: l’esercito ucraino, guidato dal generale Valeryi Zaluzhnyi è riuscito imporre, sia nel settore orientale (prevalentemente oblast di Kharkiv) e meridionale (oblast di Kherson), i suoi ritmi, passando alla controffensiva. Agli inizi di settembre le forze ucraine hanno rotto il fronte nell’oblast di Kharkiv, liberando l’intera regione e respingendo i Russi fino agli oblast di Donetsk e Luhansk. Ciò ha spinto il governo russo ad imporre i referendum farsa nei territori dei quattro oblast occupati da Mosca (Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson). Le consultazioni, illegittime e unilaterali, sono state disconosciute da buona parte della Comunità internazionale con un voto di condanna da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, così come la successiva dichiarazione di annessione da parte di Putin del 30 settembre.

A novembre, l’iniziativa ucraina si è rivolta su Kherson, con la liberazione – avvenuta il 15 di quel mese – dell’unico capoluogo conquistato dalle forze russe dal 2022.

I mesi di ottobre e novembre sono stati tuttavia caratterizzati da attacchi settimanali su vasta scala da parte delle forze russe. Missili russi e droni russi di fabbricazione iraniana (gli Shahed-136, i cosiddetti droni kamikaze), sono piovuti su tutte le principali città ucraine – compresa Kyiv – , colpendo obiettivi civili (case, scuole, ospedali) e il sistema energetico del Paese (centrali e rete di elettricità e gas), lasciando per diverse ore o giorni milioni di cittadini senza corrente elettrica, riscaldamento e acqua calda. Tra ottobre e dicembre, gli attacchi russi hanno colpito circa il 50% delle infrastrutture energetiche ucraine.

Gli aiuti occidentali continuano, con il testa gli Stati Uniti, che per il 2022 hanno garantito circa $40 miliardi di dollari all’ucraina (22,9 in aiuti finanziari, circa 16 in aiuti militari), seguiti poi dall’UE, dal Regno Unito e dai singoli Stati membri UE. A supporto dell’autodifesa ucraina sono stati garantiti anche armamenti e sistemi d’arma avanzati: i missili HIMARS, i sistemi di difesa anti-aerea NASAMS, i Patriot, e, recentemente i carri inglesi Challenger, i carri USA Abrams e gli ormai noti carri tedeschi Leopard.

Al momento, gli scontri di maggiore intensità e violenza sono concentrati attorno a Bakhmut, settore in cui i Russi avanzano con estrema lentezza a partire da maggio e soffrono perdite pesantissime. Da dicembre, la battaglia per Bakhmut rassomiglia sempre di più a una guerra di posizione e logoramento, per un obiettivo carico di valore simbolico, meno di importanza strategica.

La guerra in Ucraina non riguarda solo l’ingiustificabile aggressione russa e la legittima resistenza ucraina. Come ormai emerge in questo ordine internazionali in divenire, la scena è ormai dominata da una competizione aperta tra liberal-democrazie e autoritarismi, e dalle sfide revisioniste – narrative, politiche e ormai anche militari – poste dai secondi alle prime. Tale stato di cose è stato efficacemente fotografato dal nuovo Concetto Strategico della NATO. Non c’è evidentemente più posto in questo mondo per “zone grigie”, di diaframmi tra un blocco e un altro: quella che è in corso è anche la lotta tra una retorica imperiale, revisionista e negazionista dell’esistenza stessa di un altro Paese e di un altro popolo, e la libera autodeterminazione di milioni persone. Senza libertà – e senza giustizia – non può esservi nessuna pace degna di questo nome.

Aldo Carano

IAI - Istituto Affari Internazionali junior fellow Studente presso il Master in European and International Studies. Laureato in Studi Internazionali, appassionato di politica estera, diplomazia e relazioni transatlantiche

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