JJ4: l’orsa della discordia

articolo di Diego Morone e Luca Perbellini 

L’orso è una figura integrante della nostra vita. Non come lo sono i cani e nemmeno come lo è il sole, è semplicemente una delle tante costanti nella vita di ogni persona. Da millenni siamo affascinati da quella che riesce ad essere una creatura allo stesso tempo così pericolosa e temibile, eppure mite, quasi dolce. A ciò, si deve anche aggiungere la sua assenza di interesse nei confronti dell’uomo, che non è nemmeno visto come una preda, tutt’altro. L’orso è infatti un “onnivoro opportunista”, ossia mangia essenzialmente quello che la natura può offrirgli: pesci, uccelli, frutta, miele, bacche, bestiame e così via.

Il legame tra questi animali, tanto discussi nell’ultimo periodo, sono storici con il “nostro” Trentino, zona in cui è stato sempre presente, ma che con il passare degli anni ha visto il numero scemare di pari passo con la civilizzazione dei boschi e l’espansione dei centri abitati. Se con la Prima guerra mondiale le valli ne erano ormai quasi prive, alla fine del Ventesimo secolo gli orsi si potevano appena contare sulle dita di una mano. Era, infatti, il 1999 quando con il progetto Life Ursus venne aperto un capitolo nella storia del Trentino che nessuno avrebbe mai voluto poter annoverare tra le tante pagine vissute all’ombra delle Alpi. Dieci esemplari di orso  – il comune orso bruno – vennero spostati dalla Slovenia al Trentino, tra il 1999 e il 2002, per la ripopolazione di una componente faunistica quasi estinta. Il risultato, da questo punto di vista, sembra essere stato raggiunto: la popolazione di orsi è diventata, nell’arco di 30 anni, di circa 120 esemplari. Il nome dei nuovi nati è stato scelto con delle combinazioni di lettere e numeri, volte ad indicare la genitorialità degli esemplari di origine o l’ordine di arrivo, con specifica per il sesso. Questa nomenclatura rende sicuramente meno “umani” e più distaccati gli animali della zona, ma sicuramente efficace per la burocrazia. L’obiettivo nel complesso era quello di dare il via ad un ripopolamento per il quale gli orsi potessero essere autosufficienti e, parallelamente, si sarebbe implementato un sistema di misure volte a tutelare la loro sopravvivenza e la convivenza con l’essere umano.

Quanto accaduto nei giorni scorsi, però, lascia intravedere una situazione totalmente differente. L’inizio del mese di aprile è stato drammaticamente segnato dalla morte di un uomo di 26 anni, il runner Andrea Papi, ucciso durante una sessione di corsa sui sentieri del Monte Peller, proprio – come riportato dall’autopsia – per via dell’attacco subito da un orso, identificato poi nell’esemplare JJ4, una femmina di 17 anni già finita al centro dell’attenzione mediatica in precedenza. JJ4, nata dalla quarta unione registrata tra gli orsi Joze (rilasciato nel 2000) e Jurka (rilasciata nel 2001), era già etichettata come pericolosa per via di un’aggressione ai danni di due cacciatori nel 2020, quando però la giustificazione fu quella per cui l’aggressione avvenne per difesa dei suoi cuccioli, presenti durante l’inaspettato incontro. Altri problemi erano già sorti dai suoi fratelli, abbattuti o datisi alla macchia non prima di aver causato un gran scompiglio nella zona alpina. L’ordinanza di cattura permanente venne poi ritirata dalle autorità ed il collare dell’orsa, utilizzato ai tempi per monitorarla costantemente, è attualmente scarico. Ad ogni modo, non c’è dubbio – il DNA parla chiaro – che l’aggressione fatale per il runner sia stata opera di JJ4.

Non c’è stato neanche il tempo per metabolizzare il lutto che la guerra ideologica era già scoppiata. Il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, ha emesso un mandato di cattura, rispettato, e uno di abbattimento, attualmente sospeso dal Tar di Trento. Se a supporto della decisione della Provincia, confermata dalle parole di un criticatissimo Fugatti, che in ogni caso aveva già avvisato del pericolo nel 2020, ci sono molti cittadini scettici su una possibile convivenza futura tra predatore e popolazione; dall’altro lato della barricata c’è comunque una grande fetta di popolazione, tra cui gli animalisti responsabili del ricorso che ha congelato la decisione sulla sorte dell’orso.

Prima che all’articolo venga etichettato come proprio di una delle due fazioni che si sono create – quando non dovrebbero esserci fazioni su un tema che pregiudica la vita della fauna locale e di tutti i cittadini che vi gravitano intorno, ma anzi la volontà di risolvere il “problema” – è opportuno presentare un altro caso per cui la pratica del ripopolamento ha avuto, e sta avendo, conseguenze differenti dalle aspettative, arrivando ad essere definito come un vero e proprio fallimento. Il caso più eclatante è quello dei cinghiali, che fanno ormai da padroni in tante zone lungo la penisola italiana. Negli anni ’50 i cinghiali scarseggiavano e la scelta, più che per amore della salvaguardia della biodiversità, fu presa per la caccia, un hobby così diffuso da portare gradualmente alla scomparsa del cinghiale autoctono a favore di ibridi frutto di allevamenti, rilascio in natura di cinghiali alieni al territorio e dell’incrocio con maiali domestici. Se oggi le pubbliche amministrazioni danno il consenso per la mattanza durante il periodo della caccia, il motivo è solo uno: la malagestione del ripopolamento. Nelle società animali di questa specie, si è innescata una serie di dinamiche che hanno favorito la scissione di interi branchi e l’avvicinamento ai centri abitati. Nelle città, quello che questi animali hanno trovato poi è stato un po’ come la Manna: caduta dal cielo, salvifica. Allora, arrivati a due passi dall’uomo, l’ultimo dei problemi è stato quello dell’adattarsi alla convivenza.

I fattori principali nel non-funzionamento della ripopolazione sono, oltre all’impostazione generale, il continuo intervento umano in affari che la natura avrebbe regolato da sola, l’abbattimento e la caccia, emergendo quindi un generale clima di allarme per degli animali che di base non sono nati per essere una problematica delle zone urbane. È, però, impossibile arrivare ad imparare da questi errori, sebbene eclatanti come il caso dei cinghiali, perché – come riportato da Oded Berger Tal, ecologista dell’Università di Negev in uno studio sulla conservazione animale – dei fallimenti non si parla (quasi) mai. I fallimenti nel mondo della ripopolazione, della reintroduzione e dello spostamento di specie animali, sono visti come poco “attraenti”, parola di Berger Tal, hanno spesso forti implicazioni politiche, e perciò vengono ignorati o etichettati come successi parziali, e si parla di ripopolamenti ufficiali, tramite programmi studiati da organizzazioni internazionali o governi, un po’ come il progetto Life Ursus, il demiurgo potenzialmente capace di gestire e regolare la vita degli orsi in Trentino.

Alla luce di tali considerazioni, è possibile trovare una soluzione che possa garantire la sicurezza delle comunità di montagna senza arrivare all’abbattimento dell’animale? Si può imparare qualcosa da altre esperienze nazionali e oltreoceano?

La risposta a questi interrogativi è molto complessa. Dopo la decisione del Tar di Trento di sospendere temporaneamente l’ordinanza di abbattimento di JJ4 (la sentenza definitiva è attesa per l’11 maggio), il Ministro dell’Ambiente Gilberto Fratin ha accolto la possibilità di trasferire l’orso in aree al di fuori del Trentino, come Germania o Giordania. Anche lo zoo di Fasano (Brindisi) si è dichiarato disponibile ad accogliere l’animale, ma in questo caso il rischio è che JJ4 diventi una vera e propria attrazione turistica, lontano dal suo habitat naturale e oggetto della curiosità di centinaia di visitatori, unicamente interessati a vederlo da vicino. Inoltre, come ha sottolineato Fugatti, il “problema” non si limiterebbe alla sola JJ4, dato che sul territorio trentino si conta un numero di orsi superiore a quello consigliato dal protocollo scientifico. Questo soprannumero, pari a circa 70 esemplari, è la naturale conseguenza della scarsa progettualità dei piani di ripopolamento attuati in Italia, di cui abbiamo già parlato precedentemente. Quindi, per ritornare alla soglia stabilita dal protocollo, sarebbe necessario spostare gli orsi in eccesso in altre zone, un proposito molto ambizioso e sicuramente irrealizzabile nel breve periodo. 

Attualmente la soluzione più auspicabile per salvaguardare la fauna selvatica senza compromettere la quotidianità delle comunità limitrofe sembrerebbe la convivenza tra uomo e animale. Sul territorio nazionale non mancano esempi di coesistenza tra esseri umani e orsi, come nel caso del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, abitato da una specie nota come orso bruno marsicano. Sebbene gli orsi marsicani siano in minor numero e geneticamente meno aggressivi di quelli euroasiatici presenti in Trentino, lo zoologo Filippo Zibordi sottolinea che l’approccio nei confronti di tali animali differisce significativamente a seconda dei contesti. Secondo lo scienziato, infatti, la presenza di orsi in Abruzzo non rappresenta una grande minaccia per i residenti perché la densità della popolazione è minore rispetto a quella trentina. Inoltre, l’orso marsicano costituisce uno dei punti di forza del turismo abruzzese: ogni anno il Parco Nazionale della regione è visitato da famiglie e appassionati desiderosi di osservare l’animale. Per quanto riguarda il Trentino, la situazione è diversa. La densità abitativa nelle zone dove si registra una presenza di orsi rilevante è decisamente maggiore rispetto alla controparte abruzzese. Anche il turismo ha un carattere diverso: Madonna di Campiglio o Pinzolo hanno sempre avuto una forte attrattiva turistica e il primo pensiero di chi sceglie tali località come mete delle proprie vacanze non è certamente vedere un orso da vicino. Riassumendo, a determinare il “successo” del cosiddetto modello abruzzese rispetto a quello trentino sarebbero tre variabili: la minore densità abitativa dell’Abruzzo (unita al minor numero di orsi sul territorio), la natura più pacifica dell’orso bruno marsicano e la valorizzazione dell’animale come simbolo del patrimonio faunistico della regione.  

Altre esperienze oltre confine testimoniano la possibilità di convivere pacificamente con gli orsi. Si consideri l’esempio della vicina Slovenia, in cui il numero di orsi registrato sul territorio è di circa un migliaio di esemplari. La popolazione slovena viene educata sin da giovane alla convivenza con gli orsi, mentre in Trentino tale opera di insegnamento è diminuita gradualmente, dopo la grande sensibilizzazione dei primi anni del ripopolamento. Prima dell’aggressione, la maggioranza della popolazione trentina era scarsamente informata sulle norme da seguire in caso di incontro ravvicinato con un orso, e tuttora non saprebbe come comportarsi. Questa mancanza costituisce una delle più grandi colpe dell’amministrazione provinciale, che dovrà ricominciare a diffondere tali prescrizioni affinché queste possano raggiungere un pubblico più ampio possibile.

Oltre all’aspetto educativo, bisogna aggiungere che la Slovenia ha dimostrato un atteggiamento molto più “pragmatico” nella gestione degli orsi: per evitare che il numero dei mammiferi superi la soglia critica stabilita dallo Stato, ogni anno vengono eliminati diversi esemplari – solitamente tra il 5% e il 15% della popolazione stimata. Inoltre, quando viene segnalata la presenza di orsi particolarmente aggressivi, il governo li abbatte immediatamente. Per gli sloveni questa politica non rappresenta per nulla uno scandalo, in quanto la caccia all’orso è radicata profondamente nella cultura del paese.

Per quanto discutibile da un punto di vista etico, l’esperienza slovena evidenzia ancora una volta una straordinaria capacità di programmazione e una particolare conoscenza degli esemplari che abitano i suoi boschi. Monitoraggi, raccolte di campioni di peli ed escrementi, stime sul numero presunto di orsi sul territorio, creazione di siti di foraggiamento per evitare che gli orsi cerchino cibo nei pressi dei centri abitati: sono tutte misure che derivano da un grande senso di progettualità nel lungo periodo, qualità che è mancata all’Italia nella maggioranza dei suoi tentativi di ripopolamento. Indipendentemente da quanto accadrà a JJ4, la Provincia dovrà riflettere sugli errori commessi e cercare di garantire la sicurezza dei propri abitanti. A questo fine, però, sarà necessario rivalutare il rapporto tra esseri umani e orsi, senza intervenire bruscamente nell’ambiente naturale dei mammiferi e salvaguardando gli esemplari presenti. Una buona strategia potrebbe consistere nel coniugare la meticolosità e la programmazione del modello sloveno con l’attenzione e il rispetto verso l’animale del modello abruzzese, educando cittadini e turisti alla convivenza con l’orso.

Per concludere, un ultimo pensiero su JJ4: se l’unica alternativa all’abbattimento dell’orso è la sua reclusione, bisogna chiedersi quanto sia eticamente corretto privare l’animale del suo ambiente naturale, “imprigionandolo” per il resto dei suoi anni. Come la pantera descritta da Rilke in una sua poesia – dall’andatura agile e all’apparenza piena di forza, ma incapace di reagire agli stimoli che percepisce al di là delle sbarre della sua gabbia – dall’esterno l’orso sembrerebbe l’animale che è sempre stato, mentre in realtà non starebbe più vivendo.

Redazione

La redazione de l'Universitario è composta perlopiù da studenti dell'Università di Trento

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