Dio senza essere?

«Se ancora mi capitasse di dover mettere per iscritto una teologia
— ciò cui mi sento talvolta sollecitato —
allora il termine essere non dovrebbe assolutamente entrare in scena.
La fede non ha bisogno del pensiero dell’essere»
(Martin Heidegger, Seminari, Adelphi, Milano 1992, p.207)

Jean-Luc Marion professore di Metafisica presso l’Université Sorbonne (Paris IV), insegna Filosofia presso l’Università di Chicago. A partire dallo studio storico e teoretico di Descartes, Husserl e Heidegger, nelle sue ricerche si è occupato di storia della metafisica, di teologia razionale e di fenomenologia, con particolare riguardo ai temi dell’essere, della trascendenza, del divino, del dono e al rapporto tra ontologia e teologia. I numerosi studi dedicati a Descartes hanno condotto fra l’altro a una trilogia critica (Sur l’ontologie grise de Descartes, 1975; Sur la théologie blanche de Descartes, 1981; Sur le prisme métaphysique de Descartes, 1986) che costituisce un riferimento essenziale per il dibattito contemporaneo sul cartesianismo. Le sue opere di carattere fenomenologico sono, invece, al centro del dibattito filosofico europeo e americano, a partire dalle ricerche sul divino e la religione in cui la fenomenologia risponde al tempo stesso alla nichilistica “morte di Dio” e alla “crisi della metafisica”. Tra le sue opere tradotte, di particolare rilievo sono: L’idolo e la distanza (Milano 1979); Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione (Torino 2001) Il visibile e il rivelato (Milano 2007); Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia (Venezia 2010); Dio senza essere (Milano 2018).
Il seguente articolo vuole soffermarsi nello specifico sulla magistrale riflessione di Jean-Luc Marion raccolta nell’opera Dio senza essere articolata lungo il corso dei seguenti otto capitoli: 1. L’idolo e l’icona, 2. La doppia idolatria, 3. L’in-crocio dell’essere, 4. Il rovescio della vanità, 5. Del sito eucaristico della teologia, 6. Il presente e il dono, 7. L’ultimo rigore e 8. San Tommaso e l’onto-teo-logia. Il volume di Marion vuole liberare Dio dall’essere della metafisica onto-teo-logica, cioè dalla metafisica heideggerianamente intesa come Dasein, come presenza dell’essente, come esserci, che, quindi, parlando di Dio implicherebbe che, comunque sia pensato, Egli sia. Ma oltre a liberare Dio dall’essere l’autore vuole recuperare Dio come dono, cioè come amore, dunque non più Dio nel suo esserci ma un Dio nel suo d(on)arsi, cioè un Dio di cui si deve dire soprattutto e innanzitutto che si d(on)a completamente all’uomo per amore. E se nel nome di un uomo c’è già il suo destino ebbene del titolo di un’opera, in particolar modo di questa, potremmo dire la stessa identica cosa. Infatti, come dice Marion: «Con il titolo Dio senza essere non intendiamo insinuare che Dio non sia, o che Dio non sia veramente Dio. Tentiamo di meditare quella che Schelling definiva “la libertà di Dio nei confronti della propria esistenza”. In altri termini, tentiamo di rendere problematica quell’affermazione che trova concordi i filosofi generati dalla metafisica e i teologi generati dal neotomismo: Dio, prima di ogni altra cosa, ha da essere» (Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, p. 18). Dunque, se, stando a Heidegger, il filosofo è propriamente una sola e unica grande idea o, comunque, una sola e unica grande questione allora potremmo dire che l’idea fondativa e fondante del pensiero di Jean-Luc Marion è la questione di Dio senza l’essere o, il che è lo stesso, di Dio senza esserlo, cioè un Dio che non è Dio, dunque un Dio senza Dio perchè Egli si dà a noi innanzitutto e soprattutto come dono d’amore: questa l’idea, questa la questione, questo il pensare Dio “altrimenti” proprio di Jean-Luc Marion. La riflessione dell’autore comincia affrontando il problema dell’idolo e dell’icona: l’idolo, infatti, presuppone lo splendore del visibile o, meglio, l’idolatria del visibile, l’icona, invece, si concentra sulla luminosità dell’invisibile resosi visibile perché d(on)atosi a noi, cioè, per dirla in altri termini, l’icona è il d(on)arsi dell’unico, del Der Einzige hölderliniano, in una parola Dio. Così se l’icona è il donarsi del tutto, l’idolo, invece, è la rappresentazione idolatrica nemmeno del tutto ma di sé stesso, cioè l’idolo pensando di rappresentare il tutto, l’unico, il Dio non fa altro che rappresentare sé stesso, anzi nemmeno sé stesso ma il riflesso di sé stesso, dunque il nulla. Allora l’uomo stesso è il modello originale e originante del suo idolo, mentre il modello originale e originante dell’icona è Dio, il quale più che l’esito della visione è il principio di essa. Insomma, l’idolo non rinvia a qualcosa d’altro da sé ma restituisce di riflesso come uno specchio invisibile il nostro stesso sguardo invadente e pretenzioso di ridurre l’invisibile a visibile, cioè di fare di Dio un oggetto. Per esempio, la magnifica scultura della Pietà di Michelangelo pur conservando in sé lo splendore del divino è tuttavia una raffigurazione idolatrica di ciò che è davvero il divino. L’icona, invece, rivia proprio quel qualcos’altro da sé che è Dio, perciò il nostro sguardo diventa specchio visibile di uno sguardo, quello divino, invisibile che ci sovverte commisurandoci alla Sua gloria. Ciò detto, l’idolatria non investe e non riveste solo e soltanto la sfera estetica, ma anche e soprattutto la sfera concettuale, cioè la creazione di un idolo non si dà solo e soltanto con l’oggettificazione, com’era per esempio con la Pietà di Michelangelo, ma anche e soprattutto con l’entificazione, com’è per esempio con l’affermazione della “morte di Dio” di Nietzsche, la quale è per l’altro per ammissione dello stesso la morte del dio kantiano, cioè la morte del dio morale. Quest’ultimo, tuttavia, è un vero e proprio continuum della metafisica onto-teo-logica da Platone a Nietzsche passando per Heidegger poiché ognuno di loro non fa altro che risolvere Dio in un concetto, cioè se per l’esempio estetico parlavamo di un’invisibile che si fa idolatricamente visibile denunciando la sua umana natura, invece per l’esempio concettuale parleremmo di una entificazione di ciò che ni-entificabile. Ma la paradossale ni-entificazione di Dio non corrisponde eo facto alla proclamazione della sua morte, cioè del suo non essere, ma anzi all’annunciazione di una dimensione altra a quella dell’ente o, comunque, dell’essere. Dunque, ancora una volta non “l’essere in quanto essere” ma, potremmo dire, “l’essere in quanto d(on)arsi” del Dio: qui il salto di Marion è vertiginosamente abissale. Eppure «in un certo senso nessuno più di Heidegger ha saputo insinuare il sospetto che si debba liberare “Dio” dalla questione su/dell’Essere riconoscendo, tuttavia, che questa liberazione è tale da contravvenire alle leggi del pensiero. […]. In questo senso, nel 1951, a Zurigo, quando gli fu chiesto ancora una volta: “È lecito considerare l’essere e Dio come qualcosa di identico?”, Heidegger rispose: “Essere e Dio non sono identici ed io non mi arrischierei mai a pensare l’essenza di Dio per mezzo dell’essere. Forse alcuni di voi sapranno che io vengo dalla teologia, che conservo ancora per questa disciplina un antico amore e che essa non mi lascia del tutto insensibile. Se ancora mi capitasse di dover mettere per iscritto una teologia – cosa cui mi sento talvolta sollecitato – il termine essere non dovrebbe assolutamente entrare in scena. La fede non ha bisogno del pensiero dell’essere. Quando se ne serve non è più la fede”. […]. Questo testo complesso coniuga diverse tesi che è bene non confondere: (a) la non-identità di Dio e dell’Essere, (b) la non-pertinenza del termine essere in teologia, (c) la pertinenza della dimensione dell’Essere per sperimentare “Dio”»(Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, pp. 86-87). La cesura è dunque chiara: da una parte la filosofia si concentra sulla manifestazione dell’Essere, dall’altra la teologia si riferisce alla rivelazione di Dio, perciò i due cammini si separano sulla decisione ultima o, il che forse è lo stesso, sulla prima decisione che, di conseguenza, è anche l’ultima. Perciò, fede e ragione restano irrimediabilmente distinte anche solo parlare di “filosofia cristiana” risulterebbe essere un vero e proprio ossimoro, un’eterna contraddizione. E, infatti, «la metafisica non ha alcun bisogno della teologia della fede per enunciare dei nomi divini: “Dio” come fondamento ultimo con Leibniz, “Dio” come “Dio morale” con Kant, Fichte e Nietzsche, “Dio”, infine e soprattutto, come causa sui, con Descartes» (Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, p. 90). D’altro canto «in teologia abbiamo una libertà infinita; scopriamo che tutto ci è stato d(on)ato, che tutto è acquisito e disponibile. Non ci resta da fare altro che comprendere, dire e celebrare» (Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, p. 196) anche perché in quest’ultimo caso non si enunciano dei nomi divini fintantoché l’unico e il solo nome divino è già stato annunciato, cioè si è già d(on)ato, dunque ciò che si deve fare è “solo” comprendere, dire e celebrare. Ma, se i nomi divini della filosofia proprio in quanto nomi, in quanto concettualizzazioni, in quanto entificazioni non fanno altro che rendere pensabile ciò che per sua natura è impensabile, qual è allora il nome di Dio? «Uno solo, non vi sono dubbi: l’amore (o comunque lo si voglia definire) quale è proposto da san Giovanni: “Dio [è] agape” (1 Gv 4, 8). Perché l’amore? Perché questo termine, che Heidegger, come d’altronde tutta la metafisica, anche se in maniera diversa, continua a mantenere in uno stato derivato e secondario, resta ancora, paradossalmente, tanto impensato da poter, un giorno per lo meno, liberare il pensiero di Dio dall’idolatria […]. [Infatti] a. L’Impensabile non nuoce affatto all’amore, né gli nuoce l’assenza di condizioni, anzi, ne viene rafforzato. […] L’amore ama senza condizioni, per il semplice fatto che ama, e inoltre ama senza limiti o restrizioni. […]. Il che significa, poi, che, in quanto interlocutore dell’amore l’uomo […] deve puramente e semplicemente accettarlo. b. C’è di più: […]. L’amore, così, non si dona se non abbandonandosi, trasgredendo continuamente i limiti del proprio dono, sino a trapiantarsi fuori di sé. […]. È tipica dell’essenza dell’amore – diffusivum sui – la capacità di sommergere, così come un’ondata sommerge i muraglioni di una diga, ogni limitazione, rappresentativa o esistenziale, del proprio flusso: l’amore esclude l’idolo o, meglio, lo include sovvertendolo. […]. L’amore, infatti, non riserva nulla per sé, né se stesso, né la propria rappresentazione. […]. Dio può darsi da pensare senza idolatria soltanto a partire da se stesso, darsi da pensare come amore e quindi come dono; darsi da pensare come un pensiero del dono. […]. Solo un pensiero che si doni può consacrarsi a un dono per il pensiero. Ma cosa significa per il pensiero d(on)arsi se non amare?» (Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, pp. 69-70). Allora anche il sacramento eucaristico si presenta come il tempo e il luogo più proprio della stessa ermeneutica teologica partendo dal memoriale del passato e dal futuro della tensione escatologica finendo col dono della redenzione dei peccati. Non è dunque un caso che laddove non c’è amore o, meglio, laddove non c’è ancora amore tutto è vanità, «vanità della vanità» (Qoèlet 1, 2-3) perché senza amore non c’è nulla. L’amore, solo e soltanto l’amore, è quindi in ultima istanza capace di incrociare l’Essere, quell’essere che lungo il corso della speculazione metafisica o, meglio, onto.-teo-logica, aveva oltrepassato persino il nome divino di “Bene”. Ma, per l’appunto, non solo incrocia l’Essere ma incrociando lo capovolge e lo invera anche nel suo unico e solo messaggio ultimo, che è, e non può non essere un messaggio di amore.
Dunque, e in definitiva, «la teologia scrive sempre a partire da altri. Essa dirotta l’autore da se stesso. […] essa fa sì che l’autore scriva fuori di sé e, in un certo senso, persino contro se stesso, dato che egli deve scrivere non di ciò che è, di ciò che sa, in funzione di ciò che vuole, ma in, per e attraverso ciò che riceve e non è comunque mai in grado di possedere» (Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, p. 17). Perciò Marion, e noi con lui, non può far altro che farsi portavoce di un messaggio silenzioso, non può far altro che essere il dattilografo del messaggio divino, un messaggio che, come si diceva poc’anzi, è soprattutto e innanzitutto un messaggio di amore.

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