No Other Land – panoramica sulla Cisgiordania
È pressoché impossibile rimanere indifferenti di fronte alla tanto insolita quanto controversa pellicola “No Other Land”, vincitrice dell’Oscar per il miglior documentario di quest’anno. lI film, diretto da un collettivo israelo-palestinese in cui spiccano i nomi di Yuval Abraham, giornalista, e Basel Adra, attivista, narra le disavventure degli abitanti di Masafer Yatta: questa comunità della Cisgiordania è oggetto, da oltre quarant’anni, di tentativi di sfratto da parte dell’esercito israeliano, intenzionato a costruire una zona di tiro nei pressi del villaggio. Masafer Yatta si trova nell’Area C, che, stando agli Accordi di Oslo (1993-1995), sarebbe dovuta gradualmente tornare sotto giurisdizione palestinese: tale trasferimento non è mai avvenuto, e la presenza militare in questa zona rimane più opprimente che mai.
Tra le poche migliaia di abitanti che conta la comunità si trova anche il co-regista Adra, che intorno al 2010 decise di filmare (non senza ripercussioni, tra cui minacce di morte) gli abusi cui venivano sottoposti i locali, non esclusivamente dalle forze dell’IDF, ma anche dai coloni israeliani volti ad espandere i propri terreni a scopo abitativo ed agricolo.
Negli anni a seguire le sue riprese hanno cominciato a dar vita a un documentario che in molti bollerebbero come “incompleto”. L’apparente mancanza di struttura nell’opera non è, però, sintomo di negligenza da parte degli sceneggiatori: la crudezza nelle riprese e l’assenza di tagli e ritocchi hanno lo specifico scopo di sottolineare la crudeltà con cui i crimini sopracitati vengono commessi da soldati e civili. La telecamera traballante, i visi sfuocati e le urla di sottofondo infondono un’ulteriore aspetto di drammaticità a ogni fotogramma. Non si tratta di un’espressività “da spettacolo”, è una rappresentazione di un realismo quasi introvabile della sofferenza di un popolo martoriato da decenni, colpevole di risiedere in un luogo “di interesse militare” secondo un esercito la cui presenza è illegittima da ormai trent’anni.
Viene inoltre evidenziato il punto di vista di un israeliano, Yuval, costretto ad affrontare la diffidenza di alcuni abitanti di Masafer Yatta. Costoro faticano ad accettare la presenza di un “colonizzatore”, di un “nemico”, nonostante egli abbia l’esplicita intenzione di opporsi all’occupazione sionista: pare convinto di poter risolvere una questione pluridecennale nell’arco di poche settimane, essendo incapace di comprendere una sofferenza di cui il suo popolo è considerato il perpetratore. Contemporaneamente, Yuval viene dipinto dai media israeliani come un traditore del popolo ebraico, un disertore della “missione civilizzatrice” intrapresa da uno stato laico solo de jure (musulmani e cristiani non godono, in ambiti quali il diritto all’alloggio, allo studio e al movimento all’interno del paese, delle stesse garanzie degli ebrei).
Il documentario scatena una riflessione su quale sia il confine tra ciò che è giusto o sbagliato e rivela quanto esso sia labile: fino a dove può spingersi Israele nella rivendicazione del territorio palestinese? È legittimo che l’esercito sfratti un intero villaggio da un luogo su cui non avrebbe alcuna giurisdizione?
Questi sono solo alcuni degli spunti per cui No Other Land merita il riconoscimento ottenuto. Non è certo l’abilità cinematografica dei registi a meravigliare, ma la possibilità, finora negataci, di approfondire la situazione di apartheid imposta in Cisgiordania senza la censura dei media occidentali.
Una riflessione sul tema apre ad una riflessione più ampia in relazione alla questione legata alla libertà di stampa: l’Italia risulta, infatti, tra le ultime posizioni nell’Europa occidentale (fonte: RSF). Sorge preoccupazione, oltre che per il dato, per il continuo rinvio della trasmissione dello stesso No Other Land in Rai. Le motivazioni ufficiali proposte dai vertici lasciano spazio ad una, quasi, libera interpretazione: secondo il direttore cinema e serie TV, Adriano De Maio, il documentario “non era in sintonia con il clima di speranza per la pace che poi è stata firmata”, e ha sostenuto che “i contenuti del film avrebbero rischiato strumentalizzazioni”, sulla scia della probabile preoccupazione legata alle proteste del 3 ottobre. Queste ultime, infatti, hanno dimostrato una presa di posizione da parte del popolo italiano apertamente contraria al governo Meloni, restio alla condanna del genocidio palestinese.
Nonostante la Rai sembri dar eguale spazio a ogni punto di vista in telegiornali e programmi a tema politico, è piuttosto evidente che in questo periodo la sua neutralità sia in parte venuta meno: ricordiamo, ad esempio, il caso di Scurati legato al 25 aprile, o la nomina di Gian Marco Chiocci come direttore del TG1 che porta anche quest’ultimo, insieme al TG2, a porsi dubbi sulla centralizzazione del governo nel discorso mediatico.
La controversia sorta intorno a No Other Land sembra essere l’ennesima iterazione di quello che potrebbe essere un filtraggio minuzioso del palinsesto: è un dovere civico rendersi conto di ciò che sta accadendo ed essere in grado di informarsi in maniera indipendente ma affidabile.
