Birdman (o l’imprevedibile verità della finzione)

Attenzione: l’articolo contiene SPOILER sul film.

“La vita è solo un’ombra che cammina, un povero attorello sussiegoso, che si dimena nel suo ruolo sul palcoscenico. E poi di lui, nessuno udrà più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di grida e furore, senza significato alcuno.” (William Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V)

Nasciamo soli e moriamo soli. Nel mezzo di queste due estreme certezze, cerchiamo, in modo per lo più goffo e incerto, di trovare qualcuno con cui condividere questa verità, un modo per sentirci meno soli. E il bello è che capita che ci riusciamo. Una volta Jonathan Franzen ha detto che i romanzi di David Foster Wallace sono un antidoto contro la solitudine. Non stava descrivendo solo quei romanzi. Stava definendo in modo apparentemente semplice e banale tutta l’arte, ogni tentativo umano di dire qualcosa di grande durante il suo fugace passaggio sulla Terra.

Noi esseri umani raccontiamo storie per sentirci meno soli, cercando di mettere ordine al nostro mondo così alieno e incasinato. Come diceva Oscar Wilde, tutto quello che facciamo ha solo un fine: “guadagnare la stima dei nostri vicini”. Dimenticatevi la gloria perpetua o l’adorazione dopo la morte. Tutti quanti sappiamo sotto sotto che, se le nostre opere venissero apprezzate dopo la nostra morte, noi non ce ne faremmo niente.

Tutte le più grandi imprese dell’essere umano, dall’invenzione del vaccino fino allo sbarco sulla Luna, dalla Divina Commedia fino alla Cappella Sistina, sono solo il grido disperato di esseri umani che cercano di evadere dalla prigionia della solitudine. Ogni grande opera non è altro che il desiderio di mostrarci nudi al mondo, nella speranza che il mondo ci accetti così come siamo. Per questo la creazione di un’opera d’arte ha così tante cose in comune con una dichiarazione d’amore: ci sentiamo in terribile imbarazzo difronte alla possibilità che la ragazza a cui ci stiamo dichiarando ci dica di no, esattamente nello stesso modo in cui temiamo di non venire capiti dai nostri contemporanei.

Ecco perché abbiamo così paura del giudizio che gli altri hanno delle nostre imprese: vogliamo che nel momento in cui ci mettiamo a nudo difronte ad un pubblico, almeno qualcuno provi a capire le nostre fragilità e che quello che siamo più autenticamente possa ispirare qualcuno tra la folla. Quando scriviamo, speriamo che essendo il più possibile unici, riusciamo a essere universali. Vogliamo arrivare al punto in cui “essere noi stessi”, significa arrivare il più autenticamente possibile, alle persone che amiamo.

È questa la lezione che ci insegna quel capolavoro abissale che è Birdman.

Verità o finzione? È questa la domanda che ci pone il film a ogni piè sospinto. La trama è semplice: un attore in piena decadenza psicofisica ed esistenziale, ex star di blockbuster in stile Marvel, decide di lanciarsi nella creazione di un’opera ambiziosa, la prima della sua vita: uno spettacolo teatrale a Broadway. La rottura e il cambio di ritmo del film ce li abbiamo fin dall’inizio, subito dopo che il protagonista, l’ex super eroe Birdman, si libera del suo compagno di palco e assume un altro attore, interpretato da un mostruoso Ed Norton.

Il personaggio di Norton esprime un concetto cardine del film: la verità e la finzione stanno in un rapporto di continuità e non di opposizione. Infatti Norton ripete continuamente che lui è autentico solo sul palcoscenico, che lui è davvero se stesso solo nella finzione. Questo sembra essere un paradosso, ma solo perché crediamo che i due concetti sono antitetici: in realtà, arriviamo a sfiorare la volta della verità o a intuirne l’altezza, proprio “in virtù della finzione” e non “nonostante la finzione”.

Quello che Birdman ci vuole suggerire è che la verità non significa eliminare tutte le maschere per accedere a una dimensione pura e incontaminata in cui ci scopriamo per come siamo davvero. Abbiamo sempre bisogno di vestire maschere: “la vita è un attore sussiegoso che dimena nel suo ruolo sul palcoscenico”, dice Shakespeare in Macbeth. Noi viviamo costantemente avvolti nelle maschere. Ma questo, lungi dall’essere un limite, è la nostra più grande risorsa.

Le maschere non sono un ostacolo sulla via che porta alla verità, sono la via stessa: noi non esistiamo al di fuori dei nostri modi di esprimerci, di comportarci, di definirci e di relazionarci con gli altri. Questo, però, non significa che tutte le maschere siano buone: alcune di esse ci fanno sprofondare nella follia e ci fanno sentire in imbarazzo difronte all’esistenza e a noi stessi, e non c’è niente di peggio che sentirsi estranei davanti ai propri occhi, spaccati in due, tre, mille pezzi, come se vivessimo la vita di qualcun altro.

È quello che succede al protagonista del film, che ha vestito sempre la maschera del suo alter ego supereroistico, appunto Birdman, e ora è insoddisfatto della vita che ha costruito. Tutta la sua esistenza si basa su una “finzione negativa”, una maschera a cui non sente di corrispondere o aderire. C’è una via d’uscita?

Si, c’è. Ma Sartre diceva che “la via d’uscita non esiste, si inventa”. Quella via d’uscita che spetta a noi inventare è l’arte, l’unica salvezza proposta nel film. Quella salvezza non va ricercata nella negazione della finzione; al contrario. La via di fuga dalla solitudine e dell’alienazione la troviamo quando sprofondiamo nella finzione, quando ci abbandoniamo alla potenza creativa delle maschere, perché di colpo scopriamo che in quelle maschere è possibile raccontare storie universali, usare il linguaggio per scuotere il mondo, dare vita agli slanci lirici della poesia, alla carica esplosiva di un brano musicale, alla potenza di pietra della scultura, all’apertura di significato della filosofia e della scienza. Provate a pensarci: di cosa ci serviamo per realizzare queste imprese? Del linguaggio. E cos’è il linguaggio se non la finzione più sfrenata di tutte? Il linguaggio è l’archetipo di tutte le maschere, non è solo una tra le tante. È il luogo in cui le finzioni prendono forma e sono rese possibili.

Non c’è via di scampo dalla commedia tragica della vita. Dobbiamo accettare la potenza creativa della finzione. In quest’ottica, ogni atto umano è un’evasione che contemporaneamente invade la realtà, è un movimento verso la creazione di qualcosa di irreale che ritorna indietro e dà sostanza e valore alla realtà da cui sta evadendo, in un circolo virtuoso. Perché solo nella finzione narrativa del linguaggio e della creazione di qualcosa di immaginario, possiamo dare senso al mondo. Così possiamo trasfigurare la finzione nella verità, far toccare fantasia e realtà, come accade alla fine del film in cui in uno slancio iper-realista, nella rappresentazione teatrale il Birdman si spara per davvero.

Alla fine possiamo solo recitare, creare immagini, simulacri, fantasmi, maschere e finzioni. Su questo non abbiamo scelta: vivere significa vestire maschere, ma possiamo decidere quali indossare. Come dice Gandalf a Frodo ne Il Signore degli Anelli: “Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso. E questo è un pensiero incoraggiante.”

È incoraggiante pensare che nella nostra breve esistenza, nella nostra esplorazione goffa, incerta e destinata al fallimento, possiamo in qualche modo aprirci alla potenza cosmica delle storie, possiamo prendere su di noi la responsabilità di dare un senso al mondo, mettendo ordine al marasma indistinto che si agita sotto la sua superficie. È incoraggiante pensare che nel tempo di mezzo che esiste tra la solitudine da cui veniamo e quella a cui siamo destinati a tornare, possiamo inventarci la via d’uscita per arrivare a toccare, anche solo per errore mentre inciampiamo nel caos dell’esistenza, il cuore di un altro essere umano.

Per E.P.

Angelo Andriano

Nelle feste piccole, non c'è intimità.

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