I figli della recessione

Nel corso della nostra vita siamo sempre stati educati ed abituati a tenerci impegnati con qualcosa che dia una forma concreta alla nostra esistenza: l’università, il volontariato o un impiego. Sono certamente molte le vie che possiamo intraprendere; c’è anche chi, però, ha scelto più o meno volontariamente di non scegliere.

Tale categoria di persone si può  definire con la sigla Neet, ovvero l’acronimo inglese di  “Not in education, employment or training”. Tale definizione sta ad indicare quei soggetti che non stanno studiando, non stanno lavorando e non stanno partecipando a percorsi di formazione. I Neet segnalano la progressiva perdita del peso dei giovani nella società e nel mondo del lavoro. Non a caso, l’Unicef, li ha anche soprannominati come “The children of the recession”. Ma qual è il costo sociale dei Neet in Italia? E l’impatto psicologico che una tale situazione ha sulle generazioni più giovani?

Secondo gli ultimi dati riportati dall’ISTAT, nel 2018 il numero di ragazzi e ragazze dai 15 ai 29 anni che non studia e non lavora è pari al 22% (3,3 mln di persone), anche se questo numero risulta in costante diminuzione dal 2014, dove si era arrivati al 26,2%. Una percentuale quasi doppia rispetto alla media europea del 12% e nettamente superiore se confrontata con quelle dei principali paesi europei, come Francia (13%), Regno Unito (11%) e Germania (7%). L’Italia si trova in cima alla classifica continentale, seguita da Grecia (19,5%), Bulgaria (18,1%), Romania (17%) e Croazia (15,6%) , stando all’ultimo report Unicef.

In particolare, il trend negativo ha interessato i giovani diplomati e laureati: più nello specifico non i giovanissimi, ma quelli che lo erano 10 anni fa, nel momento apicale della crisi. Un giovane su tre fra i 25 e i 29 anni non studia né lavora e, tra questi, sette su dieci il lavoro non lo cercano nemmeno.
Come spesso accade, i dati riportati presentano una marcata differenziazione territoriale: nel 2017, I Neet nell’Italia meridionale erano il 34,2% dei giovani, contro il 17% del Nord e il 20,4% del Centro. La distanza tra il Mezzogiorno e il resto del paese si è ulteriormente accentuata nel corso degli ultimi anni, come accaduto anche per gli abbandoni scolastici precoci e per il numero di laureati, dove persiste una notevole differenza tra settentrione e meridione.

Il fenomeno dei Neet non va visto come un batterio da estirpare, ma come un campanello d’allarme della nostra società e le pieghe che può assumere una situazione di precarietà prolungata.  “Il lavoro nobilita l’uomo” non è solo una modo di dire sciapo e vuoto. Nella sua accezione più bella significa che attraverso il lavoro possiamo maturare in ambito personale e professionale, tessere nuove relazioni sociali, porci degli obiettivi, accrescere la soddisfazione personale e venire a patti con le proprie insicurezze, le proprie mancanze ed i propri fallimenti. Quando tutto questo viene a mancare si crea una situazione di isolamento sociale,di insicurezza, di frustrazione e di rancore verso l’intero sistema sociale.

Ma da quando il binomio giovani/lavoro è diventato un ossimoro?
Era il lontano 2007 quando, nel corso di un’udienza, l’allora Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa utilizzò per la prima volta pubblicamente il termine “bamboccioni”, per indicare quella categoria di giovani che non escono di casa, non si sposano o non puntano a diventare autonomi. La parola divise l’Italia e scaturì numerose polemiche; malgrado l’infelice uscita, l’idea restò nell’aria anche negli anni successivi, nel quale però non si fece niente di concreto a livello d’incentivi. Al contrario, il numero dei Neet aumentò inesorabilmente, cosi come il numero dei giovani italiani emigrati all’estero. Tutto ciò riguarda anche quelle numerose situazioni di lavoro cosiddetto “flessibile”, che spesso si avvicinano allo sfruttamento e che portano a condizioni di forte incertezza e precarietà per un giovane che ambisce a costruirsi una carriera lavorativa solida e ad ottenere un’indipendenza economica.

Possiamo tranquillamente affermare che l’Italia sta fallendo la sfida del passaggio generazionale. Non vi sono investimenti massicci rivolti ai giovani, non si ha prospettiva di lungo periodo sul mercato del lavoro che sarà e sulle competenze che le nuove generazioni potrebbero offrire. Ciò potrebbe avere delle conseguenze estremamente negative per il futuro del paese, soprattutto per quanto riguarda la crescita economica, culturale e sociale del sistema.

Infatti, nonostante l’apparato  italiano sia ancora in grado di produrre giovani eccellenze di assoluto valore, molto spesso questi non riescono a trovare un riscontro nel mondo del lavoro, che in Italia fatica ad innovarsi e progredire, se non in limitate zone geografiche del paese. Questo, naturalmente, va a beneficio dei nostri competitors europei e mondiali, più abili di noi nel creare opportunità di occupazioni innovative e che vanno ad attingere dal serbatoio del nostro capitale umano e sociale, richiamando giovani con un livello di istruzione generalmente alto, creando un enorme sperpero di energie. A riguardo, il 9° rapporto annuale della Fondazione Leone Moressa, presentato l’8 ottobre a Palazzo Chigi, ha sottolineato una situazione piuttosto grave: in dieci anni dall’Italia sono partite circa 500 mila persone (saldo tra partenze e rientri di connazionali). Tra questi, quasi 250 mila erano giovani dai 25 ai 34 anni, al netto dei rientrati. Considerando anche la denatalità e l’allungamento della speranza di vita, l’Italia si ritrova ad essere il paese più anziano d’Europa, con ripercussioni sul sistema previdenziale potenzialmente esplosive. La realtà è che, per capire i Neet, bisogna analizzare le politiche per il mercato del lavoro adottate in Italia negli ultimi 20 anni, politiche ammantate di parole come “flessibilità”, “mobilità” ed “adeguamento”. Le misure adottate hanno sempre puntato ad incentivare le assunzioni nell’immediato, ma a che prezzo? È chiaro che si sia andati nella direzione del peggioramento dei trattamenti lavorativi, a favore dei contratti a scadenza, strumento molto utilizzato nell’assunzione  dei giovani alle prime armi. A ciò si aggiunge il fatto che il nostro paese è tra gli ultimi posti quando parliamo di investimenti in ricerca, innovazione e sviluppo, settori che fanno dei giovani la forza motrice. Non è un caso che quando sentiamo di grandi storie di successo riguardanti giovani italiani all’estero, si tratta spesso di ricercatori o innovatori.

Se quindi non trovare un lavoro adeguato al proprio bagaglio di studi non è una scelta, diventare un Neet, rinunciando a qualsiasi ricerca lavorativa, in parte lo è. Si tratta però di una risposta, seppur discutibile su più punti, all’inadeguatezza del sistema e alle diseguaglianze che esso crea.
Che fare dunque?

Spesso si tende a rassegnarsi, ma vi sono alcune opportunità interessanti da valutare, seppur siano poco pubblicizzate. Esse derivano soprattutto da iniziative europee più che da politiche interne volte al contrasto della disoccupazione giovanile, ma esistono ed è doveroso approfittarne.
La più importante è stata attivata nel 2013, ed è denominata “Garanzia Giovani” (Youth Guarantee). Si tratta di un piano europeo attivato con lo scopo di destinare dei finanziamenti a quei paesi che posseggono un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 25%, i quali saranno investiti in politiche attive di orientamento, istruzione, formazione ed inserimento nel mondo del lavoro. Sottostando alla raccomandazione europea del 2013, l’Italia dovrà garantire ai giovani al di sotto dei trent’anni un’offerta di lavoro qualitativamente valida o dei percorsi di proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio, entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema d’istruzione. Dal 2013 sono stati spesi circa 8.8 di miliardi di euro. Ma quali sono stati i risultati? Si può dire che a livello europeo la manovra ha generalmente funzionato, aiutando ben 14 milioni di ragazzi, facendo scendere la disoccupazione giovanile dal 22% al 20% nel 2016. In Italia, degli oltre 640 mila che hanno avviato un percorso di reinserimento, in 300mila (52,5 %) hanno  trovato un lavoro vero e proprio. Un lavoro che in oltre un caso su tre (39,5%) è a tempo indeterminato, nel 36,8% coincide con l’apprendistato e il 20,1% è a tempo determinato.
Un’altra alternativa che sembra funzionare sembra essere quella del Servizio Civile. Dal Corriere della Sera possiamo leggere che dal 2001 al 2016 sono 388mila i giovani che hanno fatto un’esperienza di servizio civile in Italia e 5657 coloro che l’hanno svolto all’estero. Secondo l’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), su un campione di 4251 Neet intervistati che hanno svolto il servizio all’interno del programma Garanzia Giovani, il 13,2% è tornato a formarsi a sei mesi dalla conclusione dell’esperienza, mentre il 93,2% afferma di essersi attivato nella ricerca di un lavoro e di questa quota il 33,5% ha trovato effettivamente un impiego. 
Altra notizia positiva riguarda l’approvazione, lo scorso 16 aprile, di una Autorità Europea per il Lavoro (ELA). Il via libera è arrivato dal Parlamento europeo nella scorsa legislatura, dopo un anno di analisi e proposte. Lo scopo è quello di coordinare in modo unitario le politiche lavorative dei paesi dell’Unione e dotare Bruxelles di uno strumento in grado di combattere abusi e dumping sociale nella mobilità di dipendenti e freelance. Per la prima volta potremmo avere degli ispettori del lavoro europei, e non solo nazionali, autorizzati a fare controlli e denunciare situazioni d’illegalità direttamente dall’interno delle aziende presenti nel Vecchio Continente. Risulta anche fondamentale che vi sia un profondo intervento da parte delle istituzioni locali, sia per quanto riguarda politiche pubbliche attive sul territorio, sia per l’inserimento nell’associazionismo locale, spesso trampolino di lancio per eventuali inserimenti lavorativi. Un maggiore coinvolgimento degli attori presenti sul territorio porterebbe sicuramente benefici, cercando di attivare quella sinergia tra pubblico e privato che in Italia è molto carente.

Lo scenario culturale, sociale e politico si prefigura molto complesso. Per la prima volta da quando viviamo in un cosiddetto “Stato di benessere” i giovani temono di non riuscire a mantenere lo standard di vita dei propri genitori. L’inquietudine è crescente, sia a livello sociale che individuale. Trovo inoltre sia impossibile svincolare il tema dei Neet da quello delle  orti disuguaglianze ancora presenti nel nostro sistema, nonostante il mantra che ci viene spesso riproposto, secondo il quale ogni forma di progresso sia positivo e che, alla fine, porti ricchezza per tutti. Spesso il progresso e la società viaggiano a due velocità differenti e se divergono eccessivamente possono portare a delle conseguenze da non sottovalutare per il benessere di una società, creando disagio e disillusione. Il fallimento delle utopie sociali e dei processi economici di globalizzazione hanno messo in evidenza la fine del sogno di un avvenire radioso. Seppur la situazione sia pesante, è fondamentale che si smantelli quel senso di negatività perenne molto diffuso tra i giovani. Ribadire, su tutti i livelli della società, che gli strumenti più potenti per uscire dal limbo in cui siamo caduti sono ancora la cultura e l’istruzione, e smettere di ritenerle un qualcosa di scomodo e dispendioso. Non esistono scorciatoie a riguardo.

Michele Bargagli

Nato a Brescia ventuno anni fa. Studente di Studi Internazionali

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