Cosa (non) succederà a settembre

Con la conferenza stampa del 26 giugno e con una lettera aperta alla comunità scolastica, il Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina ha annunciato non soltanto la riapertura delle scuole a settembre, ma un vero e proprio nuovo inizio per la scuola italiana. Nella sua lettera, Azzolina promette per settembre niente meno che “una scuola innovativa”, “responsabile, flessibile, aperta, rinnovata, rafforzata”. Una scuola fortemente integrata nel territorio ma più aperta alla mobilità internazionale, “radicata nel presente, ma con lo sguardo rivolto al futuro”. Con i fondi europei dell’ormai famigerato Recovery Fund, infatti, il Ministro afferma di voler finanziare un Piano pluriennale di intervento per una “progettazione di lungo respiro, stabile, duratura”: insomma, una vera svolta per la scuola italiana.

Per quanto promettente possa risuonare l’eco di queste parole nella mente di chi, da anni, è costretto ad osservare l’immobilismo e la mediocrità di politiche sorde al reale bisogno di rinnovamento della scuola, non bisogna dimenticare che queste sono ancora parole, e che tra il dire e il fare ci sono di mezzo tanti mari, in Italia – primo tra tutti quello dell’iter parlamentare. Nessuno dei progetti di riforma intrapresi negli ultimi anni, anche se spesso dai risultati non si direbbe, era partito privo di buone intenzioni: ma è stato facile per queste naufragare, tra le pressioni dei sindacati, la burocrazia labirintica e la reticenza degli stessi diretti interessati, vittime o complici di una politica che ha così a lungo abusato della retorica della svolta, senza mai mantenere le proprie promesse, da non riuscire ormai nemmeno a illudere

Così ci si riempie la bocca di “riforme” e “innovazione”, ma si finisce per ridurre questi grandi cambiamenti a una materia in più o una in meno, un esame di psicologia in più e un anno di tirocinio in meno. Così possono rischiare di rimanere, anche oggi, quei quattro milioni di banchi in più o in meno. Per quanto nemmeno quelli siano da dare per scontati, e per quanto risulti evidente, dalla lettera in cui a malapena vi fa cenno, che il Ministro stesso non li consideri l’argomento centrale del discorso che oggi bisogna impostare sul futuro della scuola, è giusto non abbassare la guardia. 

Perché ciò che l’Italia non troverà, a settembre, è una scuola già magicamente trasformata. Sarà sempre la nostra cara, vecchia, vecchissima scuola italiana; di certo con tanti banchi, computer e insegnanti (o tirocinanti) nuovi, ma anche con delle grosse ferite che non sarà facile rimarginare. Non basteranno due mesi di formazione digitale dei docenti a rivoluzionare la didattica, né classi meno numerose a rendere di per sé più efficace un apprendimento troppo spesso ancora nozionistico e inattuale. Non basterà nemmeno, come Azzolina promette ed io non posso che augurarle di riuscire a mantenere, l’impegno per la lotta alla dispersione scolastica, per una più facile mobilità europea, per una maggiore inclusione di tutti gli studenti e per la formazione dei docenti, se ognuna di queste battaglie verrà portata avanti singolarmente.

La vera promessa su cui il Ministro sta puntando il proprio mandato è infatti quella di una “visione”. Una visione che, tuttavia, da questa lettera e da questi mesi non appare ancora chiara e che noi, in quanto comunità studentesca, in quanto società civile, possiamo e dobbiamo esigere da questo governo. E’ oggi, più che mai, il momento di schierarsi per quella visione, una che dia un senso e una direzione alla scuola italiana. Che rifletta l’idea di educazione che vogliamo per le nuove generazioni e la società che vogliamo costruire, e che solo in base a questi principi ed obiettivi stabilisca il tipo di didattica che si renderà necessaria, le conoscenze da trasmettere e le competenze da sviluppare, la qualità della formazione degli insegnanti, i tempi e gli spazi in cui pensare e vivere la scuola.

Una simile visione non può, né dovrebbe essere calata dall’alto di un Ministero, ma è oggi il momento giusto per farla emergere da un dibattito pubblico che ci è voluta una crisi di portata globale per riuscire finalmente ad attivare. La rinnovata percezione da parte delle famiglie dell’importanza del ruolo svolto dalla scuola nella vita quotidiana dei propri figli, così come la necessità per studenti ed insegnanti di mettersi profondamente in discussione hanno portato, negli ultimi mesi, ad un proliferare di dibattiti, incontri, conferenze, convegni (rigorosamente online) organizzati in tutta Italia da piccole e grandi associazioni o scuole, dalla casa editrice Erickson o dal centro di ricerca Indire. Tanti piccoli focolai di cambiamento dai quali non può ancora provenire una risposta unitaria, ma che testimoniano l’apertura della società italiana a una reale valorizzazione della questione scuola.

Se saremo pronti a far convogliare questi dibattiti in una discussione ampia e partecipata e a sfruttare le risorse economiche messe a disposizione dall’Europa per far ripartire la scuola – premessa indispensabile per far ripartire il Paese – allora riusciremo a trasformare questa crisi in una sfida e in un’occasione. Un’occasione che la scuola italiana aspetta da tanto e che questa volta non possiamo permetterci di perdere. 

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