Sport che unisce, politica che divide

Carl Schmitt, nella sua tesi del primato della politica, ritiene che essa detenga un certo primato rispetto alle altre sfere della società, un primato che risiede nella sua capacità di politicizzare queste sfere, di fare propri i loro contenuti nel momento in cui in queste aree si manifesta un conflitto fra due parti. E quello che sta succedendo nel contesto dei Campionati Europei di Calcio sembra esserne la conferma.

Dall’inizio dei campionati, alle dinamiche calcistiche si è accompagnato un vero e proprio dibattito pubblico scatenato dalle manifestazioni di protesta di un numero consistente di calciatori che, prima del fischio di inizio di ogni partita, puntualmente si inginocchia con il pugno alzato in segno di solidarietà verso il movimento del Black Lives Matter. Avvenimento che, se da una parte ha ricevuto il sostegno di buona parte dell’opinione pubblica, dall’altra ha scatenato forti polemiche riguardo certi calciatori, primi fra tutti le nazionali russe e ungheresi, che sistematicamente rifiutano di prostrarsi: “Gli ungheresi si inginocchiano solo davanti a Dio, per il loro Paese e quando chiedono alle loro mogli di sposarli” sono state le parole del presidente ungherese Viktor Orbán, che, fiero della scelta della sua nazionale, abbraccia quell’altra fascia dell’opinione pubblica, molto forte anche in Italia, che ritiene che il gesto di inginocchiarsi non sia altro che una forma di sottomissione alla “dittatura del pensiero unico” e del “politicamente corretto”.

Non è la prima volta che le strade dello sport da una parte, e quella della lotta per i diritti civili dall’altra, si incrociano provocando enormi fratture nella società; seppur parecchi anni addietro, un episodio molto simile accadde alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, quando, al termine della finale dei 200 metri, sul podio il vincitore Tommie Smith e il terzo classificato John Carlos, entrambi afroamericani, alzarono al cielo il pugno nero gauntato in segno di protesta contro il razzismo che ormai da anni stava logorando gli Stati Uniti. Le conseguenze per questo loro gesto furono gravi e irreversibili: accusati di aver violato il regolamento secondo il quale non si possono mostrare gesti o simboli politici durante i giochi, e di aver screditato l’intera squadra statunitense, vennero squalificati dall’atletica e tornati in patria furono soggetti a ulteriori discriminazioni e minacce di morte.

Oltre cinquant’anni dopo, la storia sembra ripetersi, se non fosse che questa volta, alle proteste contro il razzismo, si aggiunge anche la questione del movimento per i diritti della comunità LGBTQ+. A fronte di questa causa abbiamo visto schierarsi in prima linea la nazionale tedesca, che con la collaborazione della città di Monaco, che ospitava la partita Germania – Ungheria, ha accolto la nazionale ungherese tappezzando la città e lo stadio di bandiere arcobaleno della comunità LGBTQ+, in segno di protesta contro le recenti politiche discriminatorie del governo ungherese verso le persone omosessuali. 

A prescindere da quelli che possono essere le opinioni riguardo il sostegno o meno di questo tipo di manifestazione, credo sia importante mettere in chiaro due considerazioni di fondo. 

La prima, riprendendo il pensiero schmittiano prima citato, è notare come la politica sia riuscita a penetrare, oggi come ieri, all’interno di una manifestazione sportiva che, invece di portare coesione fra i popoli d’Europa, ha creato una spaccatura che va ben oltre le dinamiche sportive e che mette in luce le forti divisioni politico-culturali che da anni minano il processo di integrazione europea. Un legame, quello fra politica e sport, che certo non sempre porta a conflitti così aspri, ma che quando lo fa, riesce a penetrare così fondo nel dibattito pubblico da coinvolgere anche chi magari verso lo sport non nutrirebbe il benché minimo interesse. 

La seconda è che, se è vero che lo sport ha pretesa di proporsi come elemento unificatore all’interno di una comunità, che sia nazionale o internazionale, è anche altrettanto vero che una qualsiasi unione si costruisce necessariamente sulla base di certi valori e principi assunti come fondanti e indiscutibili, sui quali si deve prendere una posizione, talvolta netta. L’impressione invece è che in questa circostanza la UEFA si sia trovata in una situazione di stallo e imbarazzo, attenta a prendere posizione ed esprimere pareri che potrebbero alimentare ancor di più la fiamma del conflitto. 

In conclusione, l’impressione è che ad oggi sia ancora difficile decretare quali delle due parti ne possa uscire vincitrice a livello mediatico: la mia previsione è che, se attualmente la questione sia ancora nel pieno del dibattito, un domani i libri di storia tenderanno a premiare chi si è battuto per promuovere i diritti civili, con buona pace di chi pensa che lo scopo di certe battaglie sia non solo superfluo, ma addirittura volto a minare la libertà di pensiero. Ma come detto prima, questa è solo una previsione, e per citare il Manzoni: “ai posteri l’ardua sentenza”. 

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