Quando è troppo è troppo

Quante volte ci è capitato di aprirci con qualcuno senza sentirci davvero a nostro agio? E in quante occasioni abbiamo rimuginato troppo su ogni piccolo dettaglio, ogni parola che abbiamo sentito e gesto nei nostri confronti? In questo articolo proveremo, in punta di piedi, a descrivere queste situazioni in termini di oversharing, overthinking e overeating cercando di andare più a fondo possibile.

Oversharing: perché ci sveliamo tanto in fretta?

Oversharing si riferisce a tutte quelle situazioni in cui condividiamo dettagli personali della nostra vita, che sia con uno sconosciuto o con qualcuno a noi vicino. Può capitare tanto online quanto di persona e la sua caratteristica qualificante è il senso di imbarazzo una volta rientrati a casa.

Dal mondo della psicologia ci arrivano quattro principali cause alla radice di questo fenomeno: ansia, empatia, compassione e traumi infantili. Partendo dalla prima, il suo contesto è generalmente il seguente: siamo in una più o meno grande compagnia, iniziamo a vagare per la stanza e a sproloquiare su noi stessi con chi ci capita sotto tiro alla ricerca, più o meno conscia, di una connessione con qualcuno. In queste circostanze la sensazione di imbarazzo al rientro a casa è forse la più intensa, perché lo straparlare nasce da una situazione già di per sé di fragilità – per via del senso di smarrimento e solitudine che le danno vita – in cui ci rendiamo ancora più vulnerabili con qualcuno che se ne andrà noncurante della parte di noi che gli abbiamo lasciato. 

Con un carattere particolarmente empatico, invece, c’è il rischio di sacrificare i propri confini in nome dell’amicizia o della voglia di aiutare il prossimo, magari di farlo sentire compreso o a proprio agio. Tuttavia, per quanto sia nobile mettersi a disposizione, minacciare la propria salute mentale nel tentativo di dare una mano può essere dannoso per noi e forse non troppo utile neanche per gli altri che, più che un salvagente, trovano “solo” qualcuno che affonda con loro. 

Al contrario, parlando di compassione, la causa risiede nel bisogno che gli altri si dispiacciano per noi. Il più delle volte questa necessità, per quanto generalmente sia connotata negativamente, non è mera voglia di stare al centro dell’attenzione, quanto desiderio di sentirsi compresi, visti. A questo sono collegabili eventuali traumi infantili che riprenderemo più avanti, ma che intanto possiamo riassumere in questi esempi: carenza di attenzioni in famiglia, genitori che mettono a tacere i figli invece di ascoltarli e bullismo a scuola.

L’overthinking e i suoi effetti collaterali

Almeno una volta nella vita tutti ci siamo trovati a rimuginare su una conversazione, un gesto, un evento e tutte le sue possibili alternative. Immaginiamo ora di sprofondare in questa abitudine, di lasciarla permeare in ogni interazione che abbiamo, in ogni piccolo svago che proviamo a concederci e cerchiamo, quindi, di vederne più da vicino le principali conseguenze

La prima è l’ansia, con cui l’overthinking va a braccetto: chi ne soffre produce una grande quantità di pensieri non necessari su cui fatica ad avere il controllo, immagina costantemente possibili scenari condizionati da infinite variabili che difficilmente diventeranno realtà. Questa assillante preoccupazione per gli eventi futuri impedisce di vivere nel presente ed ha ripercussioni anche sulla vita sociale, perché a più stimoli corrisponde una maggiore difficoltà di elaborazione. Contrariamente, se l’apprensione è proiettata sul passato, si può arrivare alla depressione: in questo caso il rimuginio costante è su qualcosa che è già capitato e su cui si fa fatica a trovare pace. Prima di procedere, vale la pena fare una precisazione: scervellarsi sul passato non significa essere depressi, perché questa diagnosi psichiatrica necessita di più fattori e considera diverse variabili; tuttavia, in presenza di altri indicatori, l’overthinking può essere osservato come sintomo. La terza possibile conseguenza è l’insonnia, in questo caso motivata da una mente particolarmente attiva nonostante la stanchezza del corpo; la quarta, infine, si può etichettare come paralisi intesa come incapacità di agire, perché la mente trova sempre un motivo per cui non vale la pena spingersi in una certa direzione.

Overeating: il vuoto dov’è?

Immaginiamo questa giornata: ci alziamo la mattina con un raggio di sole sul viso, prepariamo prima una ricca colazione e poi, dopo averla mangiata, un buon riso freddo da portare via, dopodiché doccia, autobus e dritti a lezione. Una volta finita, pranziamo alle Albere con un paio di amici, gli stessi con cui verso le 15 entriamo in biblioteca. Nel tardo pomeriggio iniziamo ad essere stanchi, siamo stati produttivi, ma ora non ce la facciamo più a stare fuori. Il bisogno di andare a casa diventa impellente: nel giro di poco siamo sdraiati sul divano. Non c’è nessuno nell’appartamento e noi ci sentiamo così esausti, non che abbiamo fatto chissà che, però siamo stanchi. Nella dispensa c’è una barretta di cioccolata che mangeremmo volentieri. Pensiamo con finta preoccupazione al mal di pancia che arriverà, poi ci alziamo e in due minuti la tavoletta fondente non c’è più. La bocca è tanto impastata che ora serve dell’altro, un bel bicchiere di succo di frutta, magari, che si abbina bene con dei taralli, in effetti. Iniziamo a sentirci in colpa perché quella non è una buona cena, pensiamo a quanto stiamo mandando la nostra dieta a rotoli, a come il nostro corpo non sarà bello la prossima estate per via della debolezza di questo momento e ci chiediamo perché stiamo continuando a mangiare se ormai siamo sazi. Questi pensieri sono opprimenti e provare a gestirli mette tanta ansia che in una notte intera guardiamo tutta una stagione della serie Netflix del momento. Dopo l’ultimo episodio ci fermiamo e intorno a noi c’è di tutto, da una busta semivuota di biscotti  alla bottiglia di succo sdraiata da cui cadono le ultime gocce e briciole ovunque. Disorientati, passiamo la lingua sulle labbra e sentiamo sale di patatine che non ricordiamo di aver buttato giù. Nella casa c’è silenzio. Ci sentiamo vuoti, ma la pancia è piena: allora il vuoto dov’è?

Così come per l’oversharing, una delle cause più frequenti per le ultime due situazioni sono i traumi infantili. Con questa espressione, è bene evidenziare, non si tratta solo di eventi particolarmente lampanti, come un lutto o una grave forma di violenza fisica: un trauma infantile è la conseguenza mentale di un evento esterno e improvviso o di una serie di eventi altamente stressanti; questi provocano una sensazione di impotenza nel bambino e determinano una rottura delle abituali capacità di coping (cioè di reagire) da lui messe in atto

Non esistono, come al solito, formule magiche per risolvere questi problemi. Quello che è oggettivamente in nostro potere fare è imparare a conoscerci, fisicamente e psicologicamente, cercare di ripercorrere le nostre giornate no alla ricerca di indizi che spieghino le nostre reazioni. Il problema, del resto, non sono quasi mai la quantità di informazioni condivise, di pensieri o di cibo di per sé, ma ciò che li porta in atto: sono, infatti, essi stessi sintomi di un malessere più profondo che, per il nostro benessere inteso come capacità di autogestione e serenità, è bene andare a cercare nel passato con l’eventuale e consigliabile compagnia di uno psicologo, se dovesse servire anche solo a darci sicurezza nel percorso.

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