Dove andremo a finire noi giovani? Intervista al prof. Michele Boldrin su scuola, lavoro e futuro

Durante la serata di venerdì 17 marzo, è venuto a Trento l’intellettuale Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St. Louis, ex politico e importante divulgatore scientifico.

Boldrin è intervenuto in una conferenza dal titolo “Inflazione o Recessione”, organizzata dal gruppo Giovani Cassa di Trento in collaborazione con l’associazione culturale Liberi Oltre Le Illusioni, di cui il professore è fondatore e presidente.  

Personaggio eclettico, appassionato di filosofia e di arte, da sempre fuori dalle righe e per sua stessa ammissione controverso, Michele Boldrin ha da sempre cercato di porre lo sguardo su questioni di cui la politica italiana non ha mai voluto occuparsi attraverso progetti come NoiseFromAmerika e Fare per Fermare il Declino.

Abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui prima della conferenza e ne abbiamo approfittato per fargli alcune domande sulle prospettive di noi giovani in Italia.

In un paese che invecchia e in cui la spesa pensionistica equivale già a circa il 17% del PIL, quali prospettive ha un ragazzo che si avvicina al mondo del lavoro?

Di essere tassato. Dopo dipenderà da lui se troverà un buon lavoro o un cattivo lavoro, se lo farà bene o se lo farà male, se riesce a fare carriera etc… Però sicuramente ha la prospettiva di essere tassato per lungo tempo fin tanto che si continuerà con questo sistema pensionistico insostenibile.

Non mi dilungherò sul sistema pensionistico, dato che ne ho parlato un milione di volte, però è obiettivamente vero che il sistema pensionistico italiano, inserito all’interno di un insieme di politiche come i cosiddetti “bonus”, che insiste su regalie senza un minimo di senso e generalizzate a gruppi protetti avrà come prospettiva che il giovane medio sarà tassato sempre di più.

Quali sono le principali criticità del sistema scolastico italiano?

È una domanda complessa e quindi cercherò di essere telegrafico: il problema principale dell’intero sistema scolastico è che si è rinunciato in ogni forma a misurare obiettivamente le performance degli studenti e soprattutto dei docenti. Vengo da un dibattito con Elsa Fornero all’università di Torino dove abbiamo discusso della questione del merito.

Guardate, il merito è inevitabile. Poi si può anche discutere su quale tipo di merito si vuole avere a scuola. Ad esempio, si può avere un tipo di merito basato sulla furbizia: una forma particolare di meritocrazia è quella basata su chi è più furbo, su chi riesce a copiare più abilmente dal compagno di classe. Il sistema scolastico italiano ha adottato di fatto dei sistemi meritocratici impliciti, non dichiarati, che premiano i fannulloni, i furbetti e, fra i docenti, quelli che si arrabattano e non premia quelli che si sforzano molto di studiare e che cercano metodi pedagogici alternativi.

Questo è il problema di fondo. Poi c’è un’impostazione in termini di contenuti, e non solo, che purtroppo rimane antica e non lo si vuol capire. Io la chiamo “Liceo classico” ma in realtà vale ovunque nei licei e negli altri istituti superiori e cioè un’impostazione del sapere che forse andava bene negli anni Venti del secolo scorso, ma un secolo dopo è sicuramente morta e deleteria. Non fa capire in che mondo si vive, rende ignoranti pur essendo saputelli, siccome si cita un po’ a vanvera un repertorio letterario pensando di essere intellettuali e poi ci si ritrova nel mondo reale senza capire assolutamente niente.

Ha un modello scolastico di riferimento al quale secondo lei bisognerebbe cercare di tendere?

Ma no, bisognerebbe riuscire a prendere le cose migliori dagli altri paesi e ce ne sono parecchie. Il sistema finlandese fornisce molta libertà, responsabilizza molto l’insegnante e stimola la creatività a adattarsi.

Quello francese ha accettato il fatto che c’è chi fa meglio e chi fa meglio e che quindi bisognerebbe offrire a tutti la possibilità di andare al proprio ritmo.

Il sistema americano ha di buono che riconosce che da giovani non si sa ancora cosa si vorrà fare e quindi non ti costringe a scegliere fin dall’inizio la professione o l’istituto superiore specifico, ma piuttosto ti fa entrare all’interno di un istituto medio superiore generico dove all’inizio apprendi le cose base e man mano che cresci, che capisci quali sono le tue passioni, scegli i tu i corsi che più ti interessano e che ti permettano di specializzarti meglio. Questo dovremmo capirlo soprattutto noi.

Perché in Italia i laureati sono scarsamente valorizzati dal mercato del lavoro rispetto ad altri paesi europei con stipendi di entrata di poco superiori confrontandoli con coloro che hanno solo il diploma?

È una delle classiche cose dove non sai se è nato prima l’uovo o la gallina. In economia esiste una cosa chiamata equilibrio. Tu hai qui un sistema economico imprenditoriale che, non essendo stato esposto alla concorrenza, non è stato incoraggiato a adattarsi. Specialmente il settore dei servizi è rimasto tecnologicamente arretrato.

Ciò comporta che non si sanno valorizzare le alte esperienze professionali e non a caso i ragazzi e le ragazze laureate in materie STEM, ma non solo, tendono a lavorare per grandi aziende che sono meglio impiantate all’estero (sebbene in misura minore, esistono anche da noi). Dall’altro lato, l’università italiana ha molto poco di un indirizzo professionalizzante per le ragioni dette prima.

È un’università che anche nelle materie scientifiche, ad eccezione dei due politecnici di Torino e Milano, non professionalizza. Io l’ho visto recentemente andando a visitare la facoltà di economia di un’università italiana in teoria di grande prestigio. Sono rimasto sconvolto dalla totale non preparazione degli studenti e non mi sono più sorpreso quando un amico imprenditore mi ha detto: “Hai visto quello che sanno. Io come faccio ad assumere con uno stipendio mensile di 2000-2500 euro uno a cui devo insegnare il lavoro per un anno?”.

Devo anche dire però che non è proprio così. Chi sa fare poi sale molto rapidamente quindi è vero che l’entrata è bassa per questo combinare di domanda e offerta ma è anche vero che nelle aziende ad alta tecnologia e ad alta produttività, chi è bravo poi marcia e qualche anno dopo non ne prende più 1500 ma ne prende 3000. Non è vero che sono così poche le eccezioni ma purtroppo il sistema è quello.

Alberto Scuderi

Studente di sociologia, nel tempo libero studio da autodidatta tutto ciò che è attorno al digital marketing

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