Meglio non essere nati

La storia del pensiero occidentale è profondamente segnata dalla sentenza silenica del “meglio non essere nati” destinata a segnare una volta e per sempre un punto centrale della riflessione filosofica tout court, cioè la priorità del morire sul nascere, del negativo sul positivo, del niente sull’essere. “Meglio non essere nati”, cioè meglio non essere o, comunque, meglio essere niente. Eppure il motto silenico non è comunque soltanto una sentenza di pessimismo metafisico anche perché risulterebbe fuorviante e riduttivo, se non consolatorio dal momento che «i pessimisti sono felici sognatori» che «costruiscono il mondo a loro immagine e cosí riescono sempre a sentirsi a casa» (Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Einaudi, Milano 2014, p. 23). Il motto del Sileno, invece, nelle sue diramazioni e nelle sue declinazioni esprime, più che la negatività dell’esistere, l’inattingibilità di un sapere positivamente definito sull’esistenza, perché la risposta ultima sull’umano esserci non è tale, e probabilmente mai lo sarà, da estinguere la domanda sulla nostra esistenza, che anche e soprattutto perciò non smette di interpellarci. L’uomo insomma è stato ammesso a vivere un fenomeno così straordinario, cioè così fuori dall’ordinario, come la vita e non è stato comunque capace di comprenderlo e di esprimerlo. L’uomo così non può dominare né la vita né il tempo; non può comprenderli, non può esprimerli, questo è il suo dilemma, questo è il suo problema. Dunque la vita non gli appare più un fenomeno straordinario ma piuttosto un fenomeno ordinario, miserevole, vacuo, perciò sarebbe meglio non essere mai nati.
La tragica verità del Sileno, precettore e ministro di Dioniso, dio dell’antitesi, della contraddizione, dell’inconciliabilità, è così riproposta con le parole di Nietzsche: «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal Re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è — morire presto”» (Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, pp. 31-32). Tuttavia se la massima silenica afferma o, meglio, sembra affermare la priorità del morire sul vivere, cioè del “no” alla vita, l’interpretazione nietzscheana di quel responso escludendo ogni forma in senso lato di pessimismo afferma, invece, la priorità del vivere sul morire, cioè del “sì” alla vita, di quel «sacro dire di sì» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2010, p. 25). Quella formula avrebbe così un valore antifrastico, poiché indica positivamente ciò che in realtà si propone di negare, vale a dire una concezione pessimistica e, invece, presenta come sventura proprio ciò a cui si dovrebbe aderire con slancio, vale a dire la vita. Eppure l’interpretazione nietzscheana rimane lontana anni luce dalla fonte silenica originaria e originante, cioè da quel sentire propriamente greco che avvertiva sulla propria pelle quella tragica verità. Infatti essendo imperscrutabile la τύχη e invincibile il δάιμον, cioè essendo inconoscibile e irrimediabile la scelta fra l’orcio del bene e l’orcio del male operata da Zeus per il destino dell’uomo, la sentenza silenica, nonostante le sue diverse versioni riscontrabili in senso stretto in Plutarco, in Aristotele e in Teopompo, secondo la voce del filosofo Umberto Curi non afferma e non nega piuttosto indica tre punti cruciali: «Μη φύναι, “non nascere”, “non essere”, “essere niente”, sarebbe la cosa migliore per l’uomo. Poiché ciò non è attingibile — non lo è per coloro che, in quanto interrogano, sono appunto nati — allora il meglio è morire quanto prima possibile. Ove anche questa seconda prospettiva non possa essere conseguita, […], “vantaggiosissimo” per l’uomo è il restare all’oscuro proprio di questa verità. Poiché il sapere non potrebbe comunque spingersi fino a svelare le ragioni — supposto che vi siano — dell’umana infelicità, e poiché dunque tale sapere resterebbe in ogni caso sterile, incapace di modificare la condizione umana, allora l’ignoranza può attenuare, o se non altro non accrescere, la pena che è connessa alla nostra vita» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 69). Perciò nessun antidoto potrà essere escogitato, ove manchi la possibilità di comprendere da quale aculeo velenoso scaturisca la nostra malattia. Infatti, continua Umberto Curi, dalla sentenza silenica «veniamo a sapere che, fin dalla nascita, per il fatto stesso di essere venuti al mondo, siamo caduti, non da che cosa e perché siamo de-caduti. Non ci rivela da che cosa tutto ciò scaturisca. Ci indica una condizione — ne tace l’origine. Già il silenzio, che è la risposta alla domanda, suona come una condanna irrevocabile» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 67). In definitiva, e qui sta il nocciolo della questione, dice Curi: «Ciò che Sileno afferma è l’impossibilità per l’uomo di un compiuto rendere ragione. Se la filosofia altro non è che λόγον διδόναι, l’esito a cui essa approda è il riconoscimento tramite lo stesso λόγος — dell’impossibilità di un definitivo λόγον διδόναι» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 72). Dunque la sentenza del Sileno non è l’espressione di un mero pessimismo metafisico, né una ipostatizzazione della negazione ma piuttosto un’affermazione aporetica o, se si preferisce, un responso oracolare sulla limitatezza della condizione umana in quanto tale. E, infatti, già Eraclito indicava che «la natura ama nascondersi» (Eraclito, DK 22 B 123), cioè che la natura delle cose o, se si preferisce, il mondo nel suo apparire è celato, è nascosto, è misterioso. Non a caso lungo il corso della storia iconografica occidentale se Democrito è accostato alla figura del filosofo ridente perché ogni cosa sotto il sole gli pare ridicola e vuota, invece, Eraclito è accostato alla figura del filosofo piangente perché ogni cosa sotto il cielo gli sembra triste e deplorabile essendo soggetta prima o dopo alla morte. Niente è stabile, tutto si rimescola e tutto si confonde o, meglio, stando al frammento citato poc’anzi, si nasconde. E il danno oltre alla beffa è che l’uomo comunque non può non chiedere ragione della sua esistenza, del suo destino, del suo essere seppur consapevole che non si daranno risposte ultime. E, nel caso della filosofia dei greci ciò avviene, per l’appunto, cominciando a chiedere ragione della morte, cioè della fine — respice finem — perché è nella fine che si rifugia il principio.
E, infatti, il leitmotiv della sentenza silenica è riscontrabile dai passi dei poeti elegiaci: Mimnermo, Teognide e Bacchilide passando per le Storie di Erodoto fino ai grandi tragici greci: Eschilo, Sofocle e Euripide. Quest’ultimi non effettuano però soltanto una ripresa della stenza silenica, ma offrono anche una spiegazione delle fondamenta dell’impianto teoretico del motto “meglio non essere nati” esplicitando così ciò che nella deliberata ambiguità del responso silenico era semplicemente accennato o tacitamente illuso. In particolare è la figura tragica di Prometeo a essere completamente rivalutata dallo stesso Umberto Curi, il quale dice: «Prometeo è colpevole di non aver donato al genere umano facoltà e poteri straordinari, ma piuttosto di aver costituito il genere umano per quello che è — una stirpe di individui che, mediante le invenzioni e l’uso della τέχνη, esprimono la loro speranza contro la morte» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 128). Perciò il supremo e maledetto sacrilegio perpetrato da Prometeo contro Zeus, l’immortale di cui è stata messa in dubbio l’immortalità, è il tentativo di sconfiggere la morte, quella morte che «[…] l’uomo ha in sé, come il frutto il nocciolo» (Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Adelphi, Milano 2020, p. 14). Così la punizione che gli tocca subire avrà la funzione decisiva di fargli imparare ad aver caro il potere di Zeus ponendo fine alla sua passione per gli uomini. E, infatti, allorquando è ormai prossimo all’acme dei suoi tormenti «Prometeo ha imparato ad amare la morte […] a non odiare [più] la morte» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 140-141). Allora sarà questo il vero “dono” di Prometeo agli uomini. Non la τέχνη, come a lungo si è creduto, non la speranza, non l’illusione di poter liberare gli uomini dal destino di morte, ma anzi l’amore per la morte, qui sta la novità, qui sta la rivelazione di Curi. Così gli uomini hanno infine imparato l’esito tragico «di qualunque titanismo, di qualunque sfida rivolta al destino, di qualunque tentativo di sconfiggere la morte» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 143-144) o, comunque, per dirla con i versi della poesia I figli del mare di Michelstaedter, gli uomini hanno compreso che: «ogni cosa che vive muore / e nessuna cosa vince la morte» (Carlo Michelstaedter, Poesie, Adelphi, Milano 1973, p. 82). Dunque lo stesso Curi è perfettamente consapevole che nessuna compiuta salvezza è concessa nell’orizzonte della grecità ma non per una mera petitio principii piuttosto perché si assiste da una parte alla constatazione della precarietà di tutte le cose e dall’altra, invece, all’amara consapevolezza, per dirla col motto di Euripide, che “gli dei non ci sono, non ci sono”. Allora «affinché in questo orizzonte letteralmente di-sperato, […], possa irrompere una prospettiva radicalmente innovativa, capace di individuare un modo diverso di comporsi nell’uomo della sua stessa duplicità, sarà necessario l’avvento di una netta discontinuità, […]. E che [quindi] al φάρμακον irrimediabilmente insufficiente di una έλπίς che insieme illude e inganna si sostituisca la promessa di una beata speranza» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 187). E, infatti, già Walter Otto rilevando la frattura insanabile fra il paganesimo e il cristianesimo notava che l’uomo cristiano «è abituato a porre la natura divina tanto più in alto quanto maggiormente essa promette di essergli d’aiuto negli affanni terreni. Come potrebbe dunque dar credito a un dio che non è disposto a prendergli la mano nell’ultimo e più temuto passaggio?» (Walter Otto, Teofania, Adelphi, Milano 2021, p. 64).
Allora la ricerca è destinata a oltrepassare i confini di Atene in direzione di Gerusalemme, laddove l’analisi di alcuni testi dell’Antico testamento — il Libro di Geremia, il Libro di Giona e il Libro del Deutero-Isaia — rivela delle affinità sorprendenti con il responso del Sileno. Ma nota Curi: «Il vertice di questo percorso condotto all’interno della antica cultura giudaica è rappresentato da due testi di straordinaria intensità drammatica, oltre che di quasi insondabile pregnanza concettuale, quali sono il Qohelet e il Libro di Giobbe, entrambi in modi diversi convergenti nel riconoscimento della nullità della condizione umana, e dunque entrambi riconducibili alla tematica del “meglio non essere nati”» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 23). E, infatti: «Vanità della vanità, dice Qoèlet, / vanità della vanità, tutto è vanità. / Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno / per cui fatica sotto il sole?» (Qoèlet 1, 2-3). Tutto è dunque vanità, tutto svanisce, tutto è un debole soffio, nulla resiste davvero. E già Jean-Luc Marion mostrava come «questo tema apre il libro solo per darne, in partenza, la conclusione. In questo senso, tutto lo sviluppo intermedio, cioè di fatto lo stesso Qoèlet, costituisce un commento di questa unica sentenza» (Jean-Luc Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 2018, p. 154). La vanità del Qoèlet rende così indifferente la differenza ontologica, essa cioé oltrepassa nella stessa misura sia il niente sia l’ente diventando dunque una vanità del nulla, che assume paradossalmente la maschera del tutto, poiché tutto è vanità. Ma confrontando la componente greca e quella giudaica ciò che risalta è la solidità quasi infrangibile dell’impianto argomentativo del Qohelet. Non si tratta quindi di una dichiarazione nichilistica, non si tratta di una meditatio mortis, non si tratta di un pensiero pessimista poiché la prospettiva del Qoèlet è la vita, seppur nel suo venire meno, non la morte. «Nient’altro che un soffio (hevel), ogni uomo che vive, nient’altro che un’ombra, l’uomo che passa, nient’altro che un soffio (hevel), le ricchezze che accumula e non sa chi le raccoglierá» (Salmi 39, 6-7). L’uomo comunque non può nulla, né il sapere né l’ignorare riescono a liberarlo dal dolore, anzi il sapere esaspera il dolore — qui auget scientiam auget et dolorem — cosicché «il cuore dei saggi è in una casa di lutto e il cuore degli stolti in una casa in festa» (Qoèlet 7, 4). Non c’è nulla di nuovo sotto il cielo perché «tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere» (Qoèlet 3, 20), ma nonostante ciò l’attenta interpretazione di Umberto Curi rileva che il Qoèlet è sì un libro senza speranza, ma anche e soprattutto perché è un libro senza disperazione e, infatti, che si reagisca assecondando il processo di evanesca del tutto o che, viceversa, si conferisca più stabilità a un altro mondo, che crediamo essere il vero mondo, non si potrà comunque non rilevare che tutto è un soffio.
E, col riferimento al venir meno di tutte le cose, con il quale si apre e si chiude il Libro del Qoèlet, si può anche ripercorrere il lamento di Giobbe seppur risulti indispensabile precisare ciò che separa a questo proposito Qoèlet da Giobbe. Infatti «se l’Ecclesiaste si ferma alla constatazione dell’universale vanità del tutto, Giobbe di ciò chiede conto a Dio. Anche se l’uomo sta sulla terra, “sotto il sole”, e Dio nei cieli, da Lui ci si attende di avere una risposta agli interrogativi riguardanti la sofferenza individuale e la miseria del vivere. Dio è esplicitamente convocato per offrire una spiegazione di ciò che appare in ogni senso più difficile da concepire, e più ancora da accettare: il dolore innocente» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 215). Così se il Qoèlet constata l’universale vanità del tutto, Giobbe invece ne chiede conto a Dio, sebbene nel farlo non porti avanti una vera e propria accusa sferzante come, per esempio, farà secoli più tardi Emil Cioran quando laconicamente sentenzierà: «Signore! Tu non mi hai dato niente» (Emil Mihai Cioran, Finestra sul nulla, Adelphi, Milano 2022, p. 35). Tuttavia anche nel Libro di Giobbe, seppur in termini non proprio sovrapponibili con la sentenza silenica, l’autore mostra la presenza imperterrita della maledizione dell’umano esserci con alcuni aspetti sui generis davvero decisivi. Infatti l’accusa, ammesso che si possa parlare di accusa, di Giobbe non è rivolta a Dio ma piuttosto alla sua esistenza perché una volta venuto al mondo egli non ha nessuna via, nessuna strada, nessun cammino quasi dimenticato dal suo stesso Creatore. Così solo quando Dio gli appare Giobbe comprende che Egli può tutto, che nessuna cosa gli è impossibile, allora la recriminazione jobica non è cancellata dalla terra, ma è misteriosamente nascosta nel cielo. Eppure non si può non dire che l’assiduo riferimento a Dio, anche se più o meno velato, è sintomo di un’impostazione lontanissima dalla grecità. Eppure affinchè l’uomo riesca davvero a toccare Dio sarà necessario un cammino tortuoso verso la beata speranza, verso il cristianesimo, verso la fede. Ma solo se la fede è riletta alla luce di ciò che a proposito di essa scrivono Paolo di Tarso, Kierkegaard e Simone Weil confrontandola con la figura centrale di Abramo, emerge «lo scandalo paradossale della predicazione di Cristo, la radicalità dell’impegno che essa domanda, la carica paradossale insita nella fede che essa postula» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 23). La fede dunque, la fede che a partire dalla nascita di Cristo è presenza nell’eternità, umanità del Figlio nella sacralità del Padre, amore del prossimo che è anche amore del nemico perché laddove c’è Dio c’è amore così amando il prossimo, l’amico come il nemico, noi siamo in Lui e Lui è in noi, tutti in Uno. Da tutto ciò consegue allora che credere vuol dire comprendere che non si può e non si deve comprendere, in definitiva per un cristiano «credere vuol dire accettare l’assurdo, misurarsi col paradosso, mettersi radicalmente in gioco, in un’avventura per la quale non sono possibili garanzie, né punti di riferimento assodati» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 279) come, per esempio, la religione. E quell’avventura senza garanzie e senza punti di riferimento «potrebbe essere descritta con le parole di un grande poeta moderno, Antonio Machado: […], “viandante, non c’è via, / la via si fa con l’andare”» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 267) o, ancora, con le parole di un altrettanto maestoso filosofo, Andrea Emo: «[…], ogni sentiero è sconosciuto, ogni passo che inoltriamo nei sentieri, che ricominciano a ogni istante rivela nuove biforcazioni, nuovi enigmi» (Andrea Emo, Supremazia e maledizione, Raffaello Cortina Editore, Varese 1998, p. 47). Perciò solo e soltanto allora, per l’appunto, potrebbe darsi una sintesi fra ragione e fede, cioè qualora sia l’una sia l’altra si considerino un sentiero senza fine, un viaggio senza destinazione, un’infinita inquisitio. E sebbene fra pensare e credere resti una differenza fondamentale «[…] questo scarto, comunque ineliminabile, non implica di per sé una divergenza insanabile, a condizione che la veritas cristiana conservi un carattere aperto e problematico, e che l’infinita inquisitio in cui si esprime il processo del λόγον διδόναι non si converta nell’assolutizzazione di un esito» (Umberto Curi, Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 283) non già dato, ma ancora da darsi. Così ricordando infine solo per un attimo le parole illuminanti di Severino: «La nostra cultura ritiene che ormai sia stata detta l’ultima parola sull’uomo: l’uomo è l’essere che sta sospeso sull’abisso del nulla e che tenta di non precipitarvi. Ma c’è un’altra voce. Questa voce può cominciare a presentarsi come l’aurora di un giorno molto lungo? Sì, […]. Ma intanto questo linguaggio è un albeggiare. Il suo mezzogiorno è ancora molto lontano» (Daniela Monti, Che cosa vuol dire morire, Einaudi, Torino 2010, p. 157). Ma è davvero così? La nostra cultura ritiene davvero che sia stata detta l’ultima parola sull’uomo? E se si, quell’ultima parola è davvero quella che sancisce che l’uomo è l’essere che sta sospeso sull’abisso del nulla e che tenta di non precipitare? La storia del pensiero filosofico occidentale dà ragione a Severino, non c’è dubbio. Ma, se quest’ultimo indicava ritornando a Parmenide l’alba dell’essere, anche il seguente articolo vuole indicare in ultima istanza la cifra peculiare del non detto prospettando a sua volta una nuova alba già prossima all’orizzonte, cioè una ri-nascita della filosofia della nascita, una filosofia che non vuole più considerare gli uomini come «i mortali [ma] come invece dovrebbe essere i “natali”» (Silvano Zucal, Filosofia della nascita, Morcelliana, Brescia 2017, p. 11). Dunque una filosofia che non vuole più negare il positivo affermando il negativo, ma che, anzi, vuole affermare il positivo senza perciò negare il negativo, che è il morire, che è tale proprio perché c’è quel atto positivo, unico e irripetibile, che è l’atto del venire al mondo, del venire alla luce, in una parola l’atto del nascere.

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