Uman Festival 2025: la poesia palestinese e la resistenza della parola

Anche quest’anno Uman Festival torna a segnare i calendari della comunità studentesca di Trento: l’associazione di rappresentanza UNITiN ha presentato un corposo programma di conferenze e workshop che si svolgono dal 13 al 19 ottobre 2025. Lo scopo del festival di quest’anno, che ha come tema “Isole” è quello di creare una rete di eventi che possa rispondere al bisogno comune di sentirsi parte di una collettività, per poter riflettere sulle difficoltà di un tempo segnato da incertezze quale è il nostro.

Uno degli ospiti che ha presenziato e portato preziosi spunti di ragionamento è il professor Simone Sibilio, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia di lingua e letteratura araba, specializzato in poesia e cultura palestinese. Durante la conferenza, diventata poi workshop nella seconda parte dell’incontro, il professor Sibilio ha raccontato alle studentesse e agli studenti presenti una zona letteraria che ancora purtroppo rimane nell’ombra, ossia quella palestinese.

Il fulcro del discorso del professore si è concentrato intorno all’idea che dopo due anni di distruzione dei territori palestinesi occupati e dopo decine di migliaia di morti nella Striscia di Gaza, la visione dominante che dall’esterno sembra prevalere è quella nichilista: Gaza non esiste più, il discorso giuridico nemmeno, le comunicazioni sono offuscate e i giornalisti vengono uccisi sistematicamente per impedire che trapelino notizie e immagini che diffondano verità scomode. A questa visione che delinea l’idea di morte come unico possibile raccordo degli avvenimenti presenti, si può contrapporre però un’altra narrazione, che non mira a negare o minimizzare la catastrofe attuale, ma a ridare un’umanità a un popolo che ancora esiste e ancora vive, che prima di essere vittima è presente nel mondo come vivente e pensante.

Questa visione cerca di sovvertire la narrazione di morte ormai pervasiva e ruota attorno all’idea della parola usata come strumento di sopravvivenza e resistenza. Il linguaggio portatore di speranza, di vita e soprattutto di sovversione è generalmente un elemento che viene sottovalutato, ma che, come ci ha raccontato il professore, non è ignorato dalle potenze dominanti; non è un caso che gli intellettuali, i poeti e i giornalisti fanno parte di quei gruppi di professionisti che per primi sono bersaglio di attacchi e uccisioni mirate. Un esempio emblematico è il poeta e attivista palestinese Refaat Alareer, assassinato all’età di 44 anni il 6 dicembre 2023 a Gaza a causa di un attacco mirato israeliano. Alareer insegnava letteratura inglese e scrittura creativa all’Università Islamica di Gaza ed è stato fondatore di We Are Not Numbers, organizzazione creata per mettere in luce gli scrittori emergenti di Gaza, vedendo nella narrazione uno strumento fondamentale per la resistenza palestinese.

Il titolo dell’incontro “Che la mia morte porti speranza”, è tratto da un verso dell’ultima poesia di Alareer, If I must die, testo che ha visto una grandissima diffusione in Palestina e in tutto il mondo, di grande portata emotiva, veicolo di speranza per decine di migliaia di donne e uomini.

[…]
If I must die
let it bring hope
let it be a tale

Durante l’incontro c’è stato modo di scoprire e leggere diversi autori e autrici ancora poco conosciuti dal mondo occidentale, ma che oggi più che mai si rivelano simbolo di un luogo e di un popolo che non ha bisogno di essere compatito, ma compreso nelle sue radici. Le poesie lette provenivano dagli animi poetici di Duniā al-Amal Ismāʿīl, poeta, giornalista e attivista ancora operante a Gaza, Niʿma Ḥasan, attenta alla condizione di oppressione vissuta dalle donne palestinesi, Mahmoud Darwish, morto nel 2014 la cui poesia è particolarmente legata alla vicenda della Nakba del 1948, Khālid Jumʿa, uno dei massimi scrittori palestinesi del Novecento e infine Haidar al-Ghazali, nato nel 2002, promessa della nuova poesia araba che documenta in versi il genocidio che sta vivendo sulla propria pelle.

Alcuni di loro hanno come unico mezzo di comunicazione i social network, il luogo più istantaneo ed efficace per la diffusione di parole poetiche senza filtri, immediate e spesso crude. Il tema trattato è Gaza, un luogo che ha diversi significati sia concreti che metaforici, Gaza che è terra, mare e tenda (oggetto nato come casa e simbolo degli antichi popoli nomadi, ora ridotto ad unico spazio di sopravvivenza degli sfollati). Ma nelle poesie più oscure Gaza è anche e soprattutto discarica e prigione a cielo aperto, dove il mare che normalmente è simbolo di libertà viene chiuso, sbarrato, impedendo il movimento sia fisico che immaginifico verso un futuro più illuminato e giusto.

L’incontro con il professor Sibilio, arricchente e toccante, è servito a ribadire soprattutto una cosa: che la letteratura è parte fondamentale del popolo palestinese, ed è grazie ad essa che possiamo veramente percepirne la dignità, la rabbia e la bruciante volontà nel rimarcare il fatto che ci sono esseri umani che in quella prigione a cielo aperto vivono, resistono e vogliono parlare. La capacità di narrazione diventa dunque prova di esistenza e testimonianza di vita, anche quando dall’alto vogliono farci credere che di vita non ce ne sia più.

[…]
La mia voce, la vostra voce
e il mio sangue, se accresce la vostra rabbia,
ora è vostro.
Insegnate ai vostri figli
che il corpo della terra è uno,
che i confini della terra sono un’invenzione
e chi non rifiuta di uccidere
sarà ucciso facilmente.
Fermate il fuoco sui nostri petti,
fermate il fuoco
perché possiamo seminare
la nostra terra
e nutrirvi.

Haidar al-Ghazali

Photo credits: Elia Polloniato

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