il Segnalibro – cap. 7

La scrittura di Annie Ernaux, da un certo punto in avanti, si allontana progressivamente dalla forma romanzesca, per rincorrere un realismo sempre più accurato. In quello che è il grande mosaico messo insieme dalle sue tante opere, ripercorre le tappe principali della sua vita perseguendo di volta in volta l’obiettivo di riprodurre i fatti per come sono stati, senza espedienti poetici o abbellimenti stilistici. Questo intento si fa ancora più esplicito nel rievocare le storie dei suoi genitori, figure centrali nella sua produzione, e si affianca a un approccio sociologico. L’autrice cerca, attraverso il ricordo della sua storia familiare, di «far entrare nella storia» l’intera classe sociale di cui questa fa parte.

Nei due romanzi che dedica alla madre e al padre (rispettivamente Une femme, 1988, e La place, 1983 – Una donna e Il posto, tradotti in italiano e pubblicati da Lorenzo Flabbi per L’Orma Editore), la narrazione inizia con il lutto, dolore che scatena il bisogno della scrittura, per poi tornare indietro alle loro origini. L’autrice poi, a più riprese, rende il lettore partecipe del procedimento di scrittura, spiegando le ragioni che la spingono a scrivere, raccontando gli stati d’animo derivanti dalla scrittura stessa. Nell’introdurre il racconto della vita di suo padre, Ernaux dichiara subito di volersi servire di una scrittura piatta e naturale.

«Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di “appassionante” o “commovente”. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione.»

Annie Ernaux, Il posto (1983)

L’intento sociologico è invece più chiaro nella prima parte di Una donna:

«Ciò che spero di scrivere di più esatto si situa probabilmente all’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia. Il mio progetto è di natura letteraria (…). Ma, in un certo senso, spero di restare al di sotto della letteratura.»

Annie Ernaux, Una donna (1988)

Più avanti, nel corso della narrazione, aggiunge: «Cerco di non considerare la violenza, gli eccessi di tenerezza, i rimproveri di mia madre soltanto come tratti peculiari del suo carattere, ma di situarli all’interno della sua storia e della sua condizione sociale. Questa maniera di scrivere, che mi pare andare nella direzione della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine e dall’oscurità del ricordo individuale tramite la scoperta di un significato più generale.»

Mettendo insieme i due romanzi, emerge la storia di una coppia che mi ha affascinato moltissimo. Ernaux ricostruisce una serie di usi familiari che risultano decisamente non convenzionali per l’epoca (siamo all’inizio degli anni ’40, in un piccolo paesino rurale chiamato Yvetot, in Normandia). I due genitori, che gestiscono un piccolo bar-drogheria al piano terra della loro abitazione, lavorano insieme trascorrendo tutto il tempo tra i pochi spazi privati della casa e i locali della loro attività. L’aspetto più curioso che li caratterizza è che gli incarichi, domestici o lavorativi che siano, vengono ripartiti tra loro in base al gusto e alle capacità di ognuno, e non secondo la tradizione. Per questo motivo, la piccola Annie osserva spesso suo padre cucinare, apparecchiare la tavola e curare il giardino, mentre sua madre gestisce la contabilità, si preoccupa del bilancio familiare e spesso trasporta grossi carichi di merci. La figura della madre appare dominante, chiassosa, burbera, ma a modo suo dolce e partecipe della vita della figlia, soprattutto dei suoi studi. Il padre è invece una figura mite, timida e dolce, e serba nei confronti degli studi della figlioletta una sorta di diffidenza, come il sospetto che questi possano allontanarla da lui.

Ernaux descrive, ne Il Posto come in varie altre opere, il suo passaggio dall’ambiente operaio di nascita al milieu borghese cui approda tramite gli studi come una lacerazione densa di senso di colpa. Questo senso di colpa è esplicito e doloroso, soprattutto nel ricordare il suo rapporto con la figura paterna. Per questo motivo, la scelta della citazione di Jean Genet ad inaugurare il romanzo: «Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito.»

Nel parlare dei suoi genitori, Ernaux si sofferma sulle loro origini povere, racconta brevemente il loro incontro e i lavori umili svolti fino alla decisione di aprire un’attività propria. «Fiera di essere operaia ma non al punto di restarlo per sempre, con il sogno dell’unica avventura alla sua portata: prendere in gestione un negozio di alimentari. Lui l’ha seguita: era lei la volontà sociale della coppia.»

Il verbo “seguire” in questo caso mi colpisce molto, e mi sembra che riassuma bene l’impostazione del rapporto tra i genitori: un affidamento e una fiducia totali di lui nei confronti di lei, che lo spinge a seguirla, a lasciarle svolgere le mansioni più importanti. «[…] io sono sulla canna della bicicletta di mio padre e lei scende lungo il pendio davanti a noi, la schiena dritta sul sellino affondato tra le natiche. Ho paura delle granate e che lei muoia. Credo che fossimo entrambi innamorati di mia madre

Fiera e determinata lei, timido e umile lui, tuttavia entrambi soddisfatti del prodotto dei loro tanti sacrifici. «[…] Non ha più voluto ritornare alla cultura. Era così che chiamava il lavoro della terra, risultandogli inutile l’altro significato.» La questione dell’appartenenza sociale resta centrale, nella vita dei personaggi come nella loro trascrizione. «Di fronte alle persone che reputava importanti si irrigidiva, timido, preferendo non fare mai domande. In breve, si comportava con intelligenza. Il che equivaleva a percepire la nostra inferiorità per poi rifiutarla nascondendola come meglio poteva. […] Vergogna di ignorare ciò che avremmo di certo saputo se non fossimo stati ciò che eravamo, ossia inferiori

Ernaux descrive con amarezza l’approdo all’adolescenza, come questo sia profondamente influenzato dall’ambiente scolastico, dalla dicotomia tra i due mondi inconciliabili cristallizzati nel piccolo universo domestico e nell’aula. È durante gli studi e l’adolescenza che iniziano una separazione e un conflitto notevoli: la madre, a cui grazie agli studi in un primo momento si era legata, perché desiderosa di imparare attraverso la figlia, di “elevarsi”, “arricchirsi lo spirito”, smette di essere il suo modello. «Sono diventata sensibile all’immagine femminile che trovavo su L’Écho de la Mode, a cui si avvicinavano le madri delle mie compagne piccolo-borghesi del collegio: magre, discrete, capaci di cucinare, chiamavano le figlie “tesoro”.» Nemmeno la figura paterna viene risparmiata dai precetti scolastici: «Questo ritratto avrei potuto già tracciarlo in un tema se a scuola la descrizione di ciò che conoscevo non fosse stata vietata.»

Questa separazione, segnata appunto dall’ingresso dell’autrice in un milieu superiore, che gli insegna che tutto ciò che ha conosciuto finora è scorretto, si consolida con gli anni. «[…] questa distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, ma particolare, che non ha nome. Come dell’amore separato.» Il rapporto dell’autrice col padre si risolverà nella «certezza di una tenerezza astratta.»

Le pagine conclusive di Una donna sono commoventi, personalmente le ho trovate meravigliose. Ernaux racconta gli ultimi anni della vita di sua madre, la malattia che la porta progressivamente a perdere la lucidità, e lo fa – pur perseguendo il suo obiettivo di mantenere una scrittura piatta e razionale – suscitando una grande tenerezza.

«Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo.»

Annie Ernaux, Una donna (1988)

«Mi portava da casa a scuola sulla sua bicicletta. Traghettatore tra due sponde, con la pioggia e con il sole. Forse il suo più grande motivo di orgoglio, o persino la sua giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che l’aveva disdegnato.»

Annie Ernaux, Il posto (1983)

Sara Nichiri

Sono una studentessa di Letterature, traduzione e critica letteraria presso l'Università di Trento. Mi piace leggere e condividere riflessioni, amo la musica e mi interesso anche di attualità, femminismo e sostenibilità.

More Posts

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi