Seaspiracy: esistono le vie di mezzo?

È uscito il 24 marzo su Netflix il nuovo documentario diretto da Ali Tabrizi e prodotto da Kip Anderson: Seaspiracy: esiste la pesca sostenibile?. Come si può dedurre dal titolo, il film ha il fine di denunciare il “lato oscuro della pesca”, analizzando concetti come la pesca sostenibile, quella intensiva e quella illegale. In poche parole, il documentario valuta l’impatto dell’industria della pesca sul pianeta, aspetto che passa spesso in secondo piano rispetto quello dell’industria della carne (industria già denunciata in un altro documentario, Cowspiracy, realizzato dagli stessi cineasti). 

Uscito da poco, è già al centro di molti dibattiti perché le conclusioni tratte dai produttori non lasciano spazio a vie di mezzo: la pesca sostenibile non esiste, le organizzazioni che forniscono marchi con questa certificazione non saranno mai in grado di garantire la provenienza legale di quel pesce e, sulla base di una stima per la quale entro il 2048 gli oceani saranno vuoti (New York Times), l’unica vera soluzione è eliminare li consumo di pesce passando a un’alimentazione interamente vegetale

Nel documentario si può dire quindi che viene messa molta carne al fuoco. Gli argomenti trattati sono numerosi e riguardano soprattutto dati, spesso terrificanti, come il numero di squali spinnati solo per culturalismi. Uno degli aspetti più interessanti di Seaspiracy è l’analisi del rapporto tra l’equilibrio della vita marina e i cambiamenti climatici. A riprova di questo legame, apparentemente inesistente, viene spiegato come i movimenti verso l’alto e verso il basso della fauna ittica negli oceani siano fondamentali per la colonna d’acqua (al pari di venti, onde e maree) al fine di assorbire il calore dall’atmosfera. Mentre gli animali nuotano in questa colonna, questi spingono in profondità le acque superficiali più calde mescolandole con quelle più fredde sottostanti. Tuttavia, se la fauna inizia a venire meno, l’equilibrio indubbiamente si rompe, facendo aumentare di conseguenza anche la percentuale di CO2 che, non venendo spinta sul fondo e assorbita dagli oceani, collabora al surriscaldamento globale.

Un altro aspetto fondamentale trattato dal documentario è l’inquinamento dei mari. Nonostante le credenze popolari, da Seaspiracy emerge come in realtà circa il 70% dell’inquinamento marino derivi dalle reti da pesca (e dalle relative microplastiche rilasciate), mentre solo lo 0.03% da cannucce di plastica. Lo scopo del documentario è, infatti, sensibilizzare su come il consumo di pesce sia strettamente collegato anche ai problemi ecologici del nostro secolo.
In Italia al giorno d’oggi ogni persona consuma in media 30 chili di pesce all’anno, consumo che, assieme a quello della carne, è aumentato spropositatamente dalla fine della seconda guerra mondiale poiché prima i derivati animali erano considerati solo prodotti elitari. È un dato che se solo venisse dimezzato porterebbe a dei cambiamenti notevoli e, nonostante il documentario solleciti a prendere una decisione drastica e immediata, per gli standard attuali basterebbe anche solo ridurre il consumo di pesce (e di carne) nel nostro piccolo per fare la differenza

Le principali reticenze a riguardo sono spesso legate alle presunte carenze proteiche e di nutrienti che si potrebbero avere e il legame spesso affettivo che molti hanno instaurato con dei piatti a base animale definiti “della tradizione”. Le proteine e i grassi polinsaturi omega 3 sono però facilmente reperibili anche in natura: le prime nei legumi (come ceci, lenticchie…) e derivati (tufo, trempeh, latte vegetale…), i secondi nelle noci, nei semi di chia o di lino (ne basterà un cucchiaino tritato nello yogurt a colazione o nelle insalate). Per quanto riguarda i piatti tipici basta solo ricordare che il più tradizionale risale nel migliore dei casi agli anni ’50, dal momento che prima carne e pesce venivano consumati solo di rado.

Un’alternativa valida al pesce è la pesca italiana sostenibile biologica. Nonostante nel documentario vengano attaccate molte associazioni come il “Marine Stewardship Council” perché la loro “pesca sostenibile” non è effettivamente legittima, in Italia esistono molte aziende che pescano nel rispetto dei cicli riproduttivi del pesce e delle stagionalità e che, in alcuni casi, lo consegnano anche a casa (ulteriori informazioni a questo link).

In ogni caso, quindi, non bisogna per forza prendere una posizione drastica come eliminare totalmente carne e pesce dalla propria dieta; i piccoli gesti, anche se minimi, come ad esempio stabilire un giorno alla settimana in cui seguire un’alimentazione vegetale, possono essere un primo passo verso il cambiamento. 

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